15 anni di Ogm – il punto (disastroso) di SlowFood – Gli Ogm avrebbero dovuto salvare il mondo dalla fame. Ma il numero degli affamati non ha fatto che crescere, proprio come i fatturati delle aziende che li producono.

 

 

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15 anni di Ogm – il punto (disastroso) di SlowFood – Gli Ogm avrebbero dovuto salvare il mondo dalla fame. Ma il numero degli affamati non ha fatto che crescere, proprio come i fatturati delle aziende che li producono.

 

La promessa che gli Ogm avrebbero salvato il mondo dalla fame è stata completamente disattesa: da quando è iniziata la commercializzazione (ormai più di 15 anni fa) il numero degli affamati non ha fatto che crescere, proprio come i fatturati delle aziende che li producono.

In Paesi come l’Argentina o il Brasile, la soia gm ha spazzato via le produzioni tradizionali, perché le colture transgeniche hanno bisogno di grandi superfici e di sistemi monocolturali intensivi.

Leggi tutte le notizie, gli approfondimenti, gli interventi sugli Ogm pubblicati su www.slowfood.it

Scarica gratis la pubblicazione: Scienza incerta e dubbi dei consumatori 

Quella degli Ogm è una questione complessa, difficile da esaurire in poche righe, ma forti di ricerche indipendenti e studi approfonditi, possiamo riassumere in pochi punti alcuni dei motivi per cui Slow Food, attraverso progetti, attività e campagne di comunicazione promuove e difende una cultura libera da Ogm:

  • CONTAMINAZIONE: coltivare Ogm in sicurezza, in Italia, è impossibile perché abbiamo aziende di piccole dimensioni e non abbiamo barriere naturali sufficienti a proteggere le coltivazioni biologiche e convenzionali. Inoltre, l’agricoltura fa parte di un sistema vivente che comprende la fauna selvatica, il ciclo dell’acqua, il vento e le reazioni dei microrganismi del terreno: una produzione Gm non potrà restare confinata nella superficie del campo in cui viene coltivata
  • SOVRANITÀ ALIMENTARE: come potrebbero gli agricoltori biologici, biodinamici e convenzionali essere sicuri che i loro prodotti non siano contaminati? Una diffusione, anche limitata, delle coltivazioni Ogm in campo aperto, cambierebbe per sempre la qualità e la situazione attuale della nostra agricoltura, annullando la nostra libertà di scegliere quel che mangiamo.
  • LIBERTÀ: le coltivazioni Gm snaturano il ruolo dell’agricoltore che da sempre migliora e seleziona le proprie sementi. Con le sementi modificate geneticamente, invece, la multinazionale è la titolare del seme: a essa l’agricoltore deve rivolgersi a ogni nuova semina (poiché, come tutti gli ibridi commerciali, in seconda generazione gli Ogm non danno buoni risultati) ed è proibito tentare miglioramenti varietali se non si pagano costose royalties
  • ECONOMIA E CULTURA: I prodotti Gm non hanno legami storici o culturali con un territorio; l’Italia basa buona parte della sua economia agroalimentare sull’identità e sulla varietà dei prodotti locali: introdurre prodotti anonimi e senza storia indebolirebbe un sistema che ha anche un importante indotto turistico
  • BIODIVERSITÀ: Le colture transgeniche impoveriscono la biodiversità perché hanno bisogno di grandi superfici e di un sistema monocolturale intensivo. Se si coltiva un solo tipo di mais per l’alimentazione umana, si avrà una riduzione anche dei sapori e dei saperi
  • ECOCOMPATIBILITÀ: Le ricerche su Ogm aoggi hanno messo a punto 2 tipi di “vantaggi”: la resistenza a un parassita del mais (la piralide) e la resistenza a un diserbante (il glifosate). Quindi, dicono i sostenitori degli Ogm, essi consentirebbero un minore impiego di chimica di sintesi; ma la piralide del mais può essere combattuta seriamente solo con la rotazione colturale, e la resistenza a un diserbante porta a un uso più disinvolto del medesimo nei campi, dato che non danneggerà le piante coltivate ma solo le erbe indesiderate
  • PRECAUZIONE: a circa trent’anni dall’inizio dello studio sugli organismi modificati geneticamente, i risultati in ambito agroalimentare riguardano solo 3 prodotti (mais, colza e soia). Le piante infatti mal sopportano le modificazioni genetiche e questa scienza è ancora rudimentale e in parte affidata al caso. Vorremmo ci si attenesse ad atteggiamenti di cautela e precauzione, come hanno fatto Germania e Francia, che hanno vietato alcune coltivazioni di Ogm
  • PROGRESSO: gli Ogm sono figli di un modo miope e superficiale di intendere il progresso. È sempre più chiaro per consumatori, Governi e ricercatori, il ruolo dell’agricoltura di piccola scala nella protezione dei territori, nella difesa del paesaggio e nel contrasto al riscaldamento globale; invece di seguire le sirene dei mercati, la ricerca moderna dovrebbe affiancare l’agricoltura sostenibile e mettersi a disposizione delle sue esigenze
  • FAME: I relatori Onu sul problema della fame dicono che l’agricoltura familiare difende le fasce di popolazione a rischio di malnutrizione. Un dato confermato anche dall’ultimo rapporto Fao Lo stato dell’insicurezza alimentare nel mondo 2015. Esaminando i dati emerge come esistano tratti comuni a quasi tutti gli stati che hanno visto migliorare in modo sensibile l’emergenza fame. Prima di tutto lo sviluppo della produttività agricola su piccola scala (che difficilmente ha scelto Ogm), con il miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita dei piccoli nuclei contadini familiari. Appare chiaro come l’agricoltura familiare e le produzioni artigianali siano la via più sensata per raggiungere l’obiettivo fame zero. «L’agricoltura che nutre il pianeta è quella che si pone come obiettivo il benessere delle persone, prima di tutto, prima ancora del profitto», afferma Cinzia Scaffidi, vice presidente di Slow Food Italia, commentando la notizia. «Il 2014 è stato l’anno internazionale dell’agricoltura familiare e il mondo ha riflettuto e incoraggiato quel modo di produrre cibo, quel tipo di atteggiamento e di cura verso le persone e gli altri viventi; il 2015 è l’anno dell’Expo di Milano e abbiamo a disposizione altro tempo, e altre risorse, per riflettere e promuovere un’idea di produzione sostenibile di cibo. La consapevolezza degli individui e dei governi sta crescendo e i primi risultati si vedono. La strada è certamente ancora lunga e disseminata di ostacoli: ma è sempre più evidente che il modello produttivo che ha dominato finora non è più difendibile e i primi passi in una direzione diversa stanno dando qualche risultato».

fonte: http://www.slowfood.it/slow-food-ogm/

L’allarme di SlowFood: il clima impazzito spegne il ronzio delle api

 

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L’allarme di SlowFood: il clima impazzito spegne il ronzio delle api

Dopo aver superato a stento la strage provocata dalla chimica in questi anni, le api vanno a sbattere violentemente contro il cambiamento climatico dimostrandosi una volta di più, loro malgrado, una preziosa sentinella del nostro ambiente.

Il 2017 si sta prefigurando come l’annus horribilis del miele: la gelata di aprile seguita dall’ondata di calore nei mesi successivi ha ridotto il nettare contenuto nelle piante, rischiando di pregiudicare anche la produzione dei prossimi anni.

«Ancora una volta le api si rivelano per quello che sono: un indicatore dei cambiamenti della natura» spiega Francesco Panella, storico apicoltore di Novi Ligure. «In 40 anni di carriera non ho mai assistito a una cosa del genere: con la produzione pensavo di aver toccato il minimo storico nel 2016, ma l’anno in corso è nettamente peggiore. Gli apicoltori più anziani sostengono che gli effetti della gelata di aprile di quest’anno siano stati peggiori di quelli della grande nevicata del ‘56. E anche se le condizioni climatiche dovessero migliorare, le piante sono troppo “stressate” e i fiori poveri di nettare».

Non solo riscaldamento globale ma anche pesticidi e agricoltura intensiva concorrono ad aggravare un bilancio già di sé poco favorevole: «A essere colpito per primo è il mondo arboreo, da cui in generale deriva il 50% del miele. Per questo una regione come il Piemonte, dove colture intensive di viti e nocciole stanno impoverendo gli alberi di acacia, tiglio e castagno, soffre in modo particolare, ».

La produzione di miele di acacia in Piemonte è ai minimi storici: in provincia di Biella la produzione è crollata del 90%, passando dalle 70 tonnellate del 2016 alle 7 del 2017. Nel Cuneese si è scesi da un’annata media di 15-20 kg ad alveare ai 2-3 kg con numerose arnie che non hanno prodotto affatto. Solo l’anno scorso, in tutta Italia, il miele d’acacia era crollato da 703 tonnellate a 275.

Un futuro nero, insomma, che almeno per il momento vede salvarsi solo il miele d’agrumi e quello di alta montagna, sopra i 1500 metri: «Attraverso le api, le piante ci stanno avvisando che il verde che vediamo è carente. Le api stanno anticipando ciò che l’agricoltura dovrà affrontare nei prossimi anni».

A confermare l’imprevedibilità degli effetti dei cambiamenti climatici c’è la relazione pubblicata a gennaio dalla Commissione europea sull’applicazione dei programmi nazionali per l’apicoltura. Secondo questo documento, il numero crescente di alveari in Italia (siamo al quinto posto in Europa per produzione) avrebbe dovuto portare a un incremento della quantità di miele disponibile.

Ma la realtà è ben più dura delle previsioni. Non solo l’aumento di miele non c’è stato ma anzi, si è ridotto di un 30% su tutto il territorio: «Alla faccia di Trump e dei negazionisti» conclude Panella. «Questa è una iattura che ci sta per colpire in pieno. Anche se adottassimo improvvisamente dei comportamenti più virtuosi forse riusciremo a contenere il danno per i nostri nipoti, ma di sicuro non per i nostri figli».

 

Maurizio Bongioanni

m.bongioanni@slowfood.it

Fonte:http://www.slowfood.it/clima-impazzito-spegne-ronzio-delle-api/

 

 

L’allarme di SlowFood – L’agricoltura è diventata «una macchina che trasforma petrolio»

 

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L’allarme di SlowFood – L’agricoltura è diventata «una macchina che trasforma petrolio»

Il cambiamento climatico mette a rischio la biodiversità. L’allarme viene dal rapporto Integrare l’Agrobiodiversità nei sistemi alimentari sostenibili realizzato da Bioversity International. Già il numero degli animali si è dimezzato in poco più di un secolo (gli esperti parlano addirittura di un’imminente estinzione di massa, la sesta), ora pure la varietà genetica delle piante commestibili rischia di omologarsi, impoverendosi di sostanze nutritive fondamentali per la dieta umana.

Secondo i dati del rapporto, infatti, il 75% del cibo mondiale è affidato a 12 colture e a cinque specie animali. Delle 5.538 specie vegetali commestibili per l’uomo, solo tre – riso, grano e mais – forniscono più del 50% dell’apporto calorico generale. Paradossalmente, in un momento in cui l’accesso a prodotti diversi non è mai stato così vasto, la dieta globale nel suo complesso sta diventando sempre più omogenea: cala il consumo di legumi, frutta e verdura mentre predominano amidi, carne e latticini.

Le monocolture e i cibi la cui produzione è basata sugli allevamenti intensivi fanno sì che l’agricoltura sia un elemento dannoso per l’ambiente. Il solo settore primario contribuisce con il 24% delle emissioni di gas serra, oltre a essere il più grande sfruttatore di acqua dolce del pianeta. Da una parte l’espansione di terreni destinati alla zootecnia intensiva, sta mettendo a rischio l’esistenza del 62% delle specie animali già inserite nella lista dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (Iucn), dall’altra la produzione di frutta, verdura e legumi è diminuita del 22%. Ciò significa che esiste un grande disequilibrio a livello di sistema, tanto che il panel internazionale sui cambiamenti climatici (Ipcc) stima che in ciascuna delle tre decadi da qui al 2050 la produzione agricola calerà del 2%, mentre la domanda di cibo crescerà del 14%.

Insomma, se continuiamo a misurare l’agricoltura in termini di “resa per ettaro” o in “calorie prodotte” non raggiungeremo i cosiddetti obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdg o Sustainable Development Goals) promossi dall’Onu e firmati nel 2015 da tutti i 193 paesi del mondo. Per questo i ricercatori della Bioversity propongono l’istituzione di un Indice di Agrobiodiversità da far adottare a ogni governo e in grado di guidare gli investimenti agricoli sul lungo termine, improntati alla sostenibilità e connettendo maggiormente tra di loro i settori economico, ambientale e sociale.

Ma tutto ciò è possibile solo se si comprende l’importanza della biodiversità, soprattutto in termini apporto nutritivo. Il riso è un esempio su tutti: a seconda della varietà consumata, 200 grammi di riso al giorno possono rappresentare meno del 25% o più del 65% della dose giornaliera raccomandata di proteine. «Abbiamo puntato tutto su poche specie, non perché siano le più buone o le più sane» scrive il giornalista Antonio Cianciullo su La Repubblica «ma perché sono quelle che si adattano meglio a un sistema industriale che ha espugnato l’agricoltura trasformandola in una macchina che trasforma petrolio».

Con Slow Food e tutta la rete di Terra Madre lavoriamo per restituire dignità e valore al lavoro agricolo, per far sì che si possa arrivare a un modello di produzione alimentare che metta al centro il lavoro dell’uomo e il rispetto per tutte le risorse. E che faccia della biodiversità un baluardo di resistenza. Ora, con Menu for Change ci siamo impegnati in una nuova campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi che evidenzi il rapporto

tra produzione alimentare e cambiamento climatico e ci dia gli strumenti per rafforzare chi sceglie metodi di produzione alimentare che non contribuiscono al riscaldamento globale. Scopri come puoi partecipare e ti ringraziamo fin da ora per il tuo contributo.

Maurizio Bongioanni
m.bongioanni@slowfood.it

 

fonte: http://www.slowfood.it/conoscere-la-biodiversita-fermare-cambiamento-climatico/

 

 

L’accusa di SlowFood – Buona parte delle mele che trovate oggi sui banchi del mercato sono dell’anno scorso!

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L’accusa di SlowFood – Buona parte delle mele che trovate oggi sui banchi del mercato sono dell’anno scorso!

 

Molte delle mele che trovate oggi sui banchi del mercato sono del 2016

Ve l’avevamo anticipato a maggio e puntualmente oggi vi possiamo parlare di un altro difetto di etichettatura e tracciabilità, un po’ come per i funghi di cui abbiamo scritto la settimana scorsa, anche se in questo caso non si tratta di comportamento truffaldino ed è tutto perfettamente legale. L’unico problema è che si tratta di una cosa che davvero pochi sanno, se non gli appartenenti al giro degli addetti ai lavori. Molte delle mele che trovate oggi sui banchi del mercato sono del 2016, e farete fatica a distinguerle da quelle della corrente annata. Già, perché non è obbligatorio scrivere la data di raccolta sull’etichetta delle mele, e quando capitano campagne particolarmente scarse, come per il 2017, questo strano miscuglio può accadere.

Si pensi che nell’ultimo secolo le altre uniche due annate così difficili, a causa delle gelate primaverili, furono soltanto la 1945/1946 e la 1956/1957.

A maggio, dicevamo, si verificarono due gelate notturne completamente impreviste in quasi tutta Europa. I meli erano in piena fioritura e la cosa ha poi effettivamente decimato il raccolto. Per esempio le renette si sono ridotte del 70%. Era facile prevederlo e fu a quel tempo che scattò una speculazione da parte di chi aveva ancora i magazzini pieni delle mele 2016, un’annata molto abbondante. Sapete già che le mele a fine campagna vengono stoccate in celle a temperatura e ambiente controllati, per renderle poi disponibili tutto l’anno. Le aziende più importanti, a maggio, viste le previsioni per l’anno successivo, prontamente ‘‘chiusero’’ le celle, cercando di fare tutto quello che legalmente potevano fare per allungare la vita ai prodotti che contenevano. Non è un caso che allora, all’improvviso, i prezzi aumentarono del 30% (e ve ne parlammo).

Le mele restavano immagazzinate in previsione di quest’autunno e non venivano distribuite. Un 30% in più del prezzo ‘‘normale’’ e basso che avevano prima di maggio le 2016, che tra l’altro era esattamente la metà di quello attuale. Nel 2017 il raccolto è scarso e quindi è normale che il prodotto costi di più. Però non è tanto giusto che anche le mele 2016, mescolate alle nuove, abbiamo lo stesso prezzo doppio rispetto allo scorso anno, quanto furono colte. Pura – e ricca – speculazione per chi ha messo da parte le vecchie scorte a maggio. Niente di illegale, lo ribadiamo, ma forse sarebbe il caso di saperle queste cose, e poter scegliere in piena consapevolezza.

Carlo Bogliotti
c.bogliotti@slowfood.it

Da La Stampa del 30 ottobre 2017

I dieci modi in cui la cannabis legale sta migliorando la vita negli Stati Uniti

 

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I dieci modi in cui la cannabis legale sta migliorando la vita negli Stati Uniti

Sono passati 5 anni da quando i primi due stati americani, Washington e Colorado, legalizzarono la cannabis. Era il novembre 2012 e da allora gli stati in cui acquistare marijuana è legale stanno continuando ad aumentare, spinti soprattutto dai dati positivi che arrivano da questi due stati pionieri, che stanno dimostrando che la legalizzazione non è positiva solo per l’economia, ma anche per molti altri settori, a cominciare da salute e sicurezza.

  • 1. LE ENTRATE FISCALI

Cominciamo dal dato più semplice ed ovvio, quello delle tasse. Lo stato di Washington in questo 2017 ha già raccolto 281 milioni di dollari dal settore della cannabis, mentre il Colorado a fine ottobre si attestava a 205 milioni. Cifre importanti per gli stati e per i programmi sociali (come vedremo) e che sono in costante aumento. Nel 2015 i due stati avevano raccolto complessivamente 260 milioni, 449 milioni nel 2016, mentre nell’anno ancora in corso si è già arrivati a 486 milioni.

  • 2. I POSTI DI LAVORO

Dati precisi a livello federale non esistono, ma secondo le stime degli osservatori economici il settore della cannabis legale impiega già oggi oltre 165mila lavoratori impiegati in molteplici mansioni più o meno specializzate: coltivatori, trimmer, produttori di derivati della cannabis, commercianti, trasportatori, controllori della qualità, ricercatori e molto altro.

  • 3. LO STATO SOCIALE

Le entrate provenienti dalla cannabis legale hanno permesso agli stati di inaugurare nuovi progetti sociali e di potenziare le attività di informazione e monitoraggio sulle droghe. Il Colorado con i proventi della marijuana ha elargito borse di studio agli studenti, pianificato la costruzione di nuove case popolari e aumentato i fondi a disposizione delle scuole pubbliche.

  • 4. CONTRASTO DELLA TOSSICODIPENZA

Per decenni la propaganda proibizionista ha utilizzato come cavallo di battaglia la teoria della cannabis come “droga di passaggio”: il solito discorso secondo cui “si inizia con le canne e poi si passa all’eroina”. Ebbene, sono bastati pochi anni di legalizzazione per capire come le cose stiano esattamente all’opposto. In Colorado uno studio ha dimostrato come solo nel primo anno post legalizzazione, le morti a causa degli oppiacei siano scese del 6,5 per cento, invertendo un trend pluriennale che vedeva le morti per overdose in costante aumento.

  • 5. TASSI DI INCARCERAZIONE

Ovviamente dopo che la cannabis è diventata legale, sono diminuiti gli arresti per possesso e spaccio. I numeri in questo campo sono sorprendenti: nello stato di Washington già nel primo anno di legalizzazione gli arresti per cannabis sono diminuiti del 98% (da oltre 5000 ad appena 112), in Colorado di oltre il 50%. Questo comporta una serie di buone notizie: meno persone vengono incarcerate per crimini non violenti, i tempi della giustizia si abbreviano perché i tribunali non sono più imballati di procedimenti contro i consumatori di cannabis, e i dipartimenti di polizia risparmiano mezzi e uomini da poter destinare alla persecuzione dei veri reati.

  • 6. IL CRIMINE

Un altro degli argomenti preferiti dei proibizionisti era quello che teorizzava che con la legalizzazione sarebbe aumentato il crimine: stupri, rapine, omicidi, incidenti colposi, eccetera. Anche qui si è rivelato vero l’opposto: dove la cannabis è stata legalizzata il crimine non solo non è aumentato, ma è diminuito. In Colorado sono calati del 3% omicidi, rapine e stupri. Gli analisti sottolineano come non sia possibile essere certi che la diminuzione dei tassi di criminalità sia correlata alla legalizzazione, ma di certo si può affermare che questa non ha comportato nessun aumento dei reati.

  • 7. CONSUMO TRA I GIOVANI

Anche l’idea, largamente diffusa, che con il mercato legale delle droghe leggere il consumo da parte degli adolescenti sarebbe aumentato si è rivelato infondato. In Colorado, anzi, è diminuito anche questo dato. A certificarlo è una ricerca del Dipartimento di Stato per la Salute e i Servizi Sociali che ha riscontrato come, dopo la legalizzazione, il numero degli under 20 che abbiano consumato cannabis almeno una volta durante l’anno è passato dal 20,81% al 18,35%, con un calo del 2,46%.

  • 8. MERCATO IMMOBILIARE

Questa è una buona notizia a metà, visto che soddisfa il mercato in senso lato, ma genera problemi per chi cerca case in affitto. La legalizzazione, almeno in Colorado, ha portato anche a una ripresa del mercato immobiliare e dei prezzi degli immobili. I prezzi delle case sono aumentati del 6,4 percento nelle aree dove la vendita di marijuana ricreativa è legale, con punte dell’8% per le abitazioni che si trovano a meno di 100 metri di distanza dai dispensari che vendono cannabis.

  • 9. IL TURISMO

Il mercato della cannabis legale ha comportato anche una impennata del settore turistico. Migliaia di visitatori ogni anno arrivano in Colorado o a Washington anche per poter assaporare il gusto di acquistare e fumare cannabis legalmente, un beneficio che a cascata investe anche tutti i settori ricettivi e commerciali dello stato. In Colorado il turismo è aumentato del 33% negli ultimi anni, più del doppio della media statunitense che si attesta al 16%.

  • 10. IL FUTURO

Secondo gli analisti quello che gli americani hanno visto in questi cinque anni è nulla rispetto a ciò che avverrà in futuro se la cannabis dovesse essere legalizzata in tutta la nazione. Si stima che entro il 2020 il mercato della cannabis legale potrebbe valere 28,1 miliardi di dollari, mentre sono 800.000 i posti di lavoro che potrebbero essere generati a livello nazionale. Insomma, nel prossimo futuro la cannabis potrebbe rappresentare uno dei settori economici di punta degli Usa, mentre anche i servizi sociali, la giustizia e la salute pubblica godranno dei suoi benefici.

 

fonte: http://www.dolcevitaonline.it/i-10-modi-in-cui-la-cannabis-legale-ha-aiutato-gli-stati-uniti/

Su 29 euro che paghi la tua t-shirt, al lavoratore del Bangladesh restano solo 18 centesimi!

 

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Su 29 euro che paghi la tua t-shirt, al lavoratore del Bangladesh restano solo 18 centesimi!

Il costo di produzione di una t-shirt

Nel mondo vengono prodotte più di 2 miliardi t-shirt ogni anno. Ti sei mai chiesto quanto costa produrre una t-shirt? Il prezzo di un indumento base come la t-shirt può essere utile per capire l’incongruenza tra il prezzo all’ingrosso e quello al dettaglio.

Qual è il vero costo di una t-shirt?

Su 29 euro di costo, prezzo medio, cosa resta al lavoratore? Bene, solo 0,18 centesimi (0,6%). Il costo maggiore, 17 euro (59%), viene assorbito dalla distribuzione.

I lavoratori delle fabbriche del Bangladesh che producono queste magliette, vengono sfruttati con una paga da miseria, 30-40 euro al mese, uno dei salari più bassi al mondo, circa un quarto di quello cinese. Assurdo vero?

Spiega Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti: “I marchi occidentali, committenti delle fabbriche tessili bengalesi, sono corresponsabili delle condizioni di sfruttamento in cui versano i dipendenti. Gli operai, la maggior parte bambini di età compresa tra i 5 e i 14 anni, lavorano 12-14 ore al giorno, fanno straordinari obbligatori e salari bassissimi. Uno stipendio dignitoso equivale a 337 euro, mentre il salario minimo si ferma a 40 euro. E gli ambienti sono pericolosi. Chi va a lavorare in una fabbrica tessile, rischia di non tornare a casa”.

Moda sostenibile, ecosostenibile e etica

Ogni volta che ci troviamo difronte alla tentazione di acquistare una t-shirt a 29€ dobbiamo fermarci e riflettere sul suo vero costo, ambientale e umano. L’indifferenza non è più ammessa. Il futuro della moda è etico e sostenibile!

 

fonte: http://www.mondoallarovescia.com/il-costo-di-produzione-di-una-t-shirt/

Una nuova rivoluzione colpirà i televisori italiani, ecco la guida per orientarsi

 

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Una nuova rivoluzione colpirà i televisori italiani, ecco la guida per orientarsi

Nella Manovra si dettaglia il pasaggio al nuovo digitale terrestre, che si completerà entro il 2022. Ecco una guida per orientarsi: servirà un nuovo decoder per i televisori acquistati prima del 2017

Dal 2020 al 2022 i televisori italiani vivranno una nuova rivoluzione, come quella che ci ha portato all’attuale digitale terrestre. Nelle pieghe della Manovra approdata al Senato c’è un articolo che dettaglia il calendario di questa transazione, già da tempo nell’aria in base alle normative europee. Entrerà in vigore infatti un digitale terrestre più evoluto e la conseguenza è che le tv non compatibili non riusciranno più a sintonizzarsi ai canali. Gli utenti dovranno cambiarle o dotarsi di un decoder.
Ecco una guida per orientarsi.

Che succederà dal 2020 al 2022
A fronte delle disposizioni contenute nella Legge di Bilancio 2018, i canali tv passeranno al nuovo digitale terrestre, il Dvb-T2, ossia smetteranno di funzionare sui televisori che non montano gli ultimi standard tecnologici. Il passaggio sarà graduale, regione per regione ed emittente per emittente. Comincerà nel 2018 e sarà completato nel 2022.

Che dovranno fare gli utenti
Chi non ha un televisore compatibile dovrà cambiarlo o comprare un decoder. Il Governo prevede 100 milioni di incentivi che potrebbero coprire in tutto o in parte l’acquisto di decoder (dal costo minimo di 25 euro). In certi casi sarà anche necessario intervenire sull’antenna condominiale per consentire una corretta sincronizzazione dei canali.

Perché questa nuova rivoluzione della tv?
L’Italia, come già altri Paesi europei, deve togliere alcune frequenze (a 700 MHz) dalle televisioni per consentire il debutto delle reti mobili a banda ultra larga 5G. Il nuovo standard Dvb-t2 serve a questo scopo perché consente alle emittenti di trasmettere gli stessi canali, anche in qualità maggiore, su una minore quantità di frequenze rispetto ad ora.

Esattamente quanti e chi saranno colpito dalla rivoluzione delle tv?
Non lo sappiamo con esattezza, come spiegano a Repubblica dalla Fondazione Ugo Bordoni (il braccio tecnico del ministero dello Sviluppo economico e che anche in passato ha monitorato il passaggio al digitale terrestre). Per prima cosa bisognerà aspettare ulteriori disposizioni per capire quali saranno le regioni che per prime subiranno il passaggio. Poi, “ciascuna emittente dovrà decidere se usare il normale Dvb-T2 (standard Mpeg 4) o anche il codec Hevc – dicono dalla Fondazione -. Nel primo caso, già il 60 per cento circa dei televisori è compatibile. Nel secondo, è circa il 5 per cento”. Il codec Hevc, che dà ulteriori vantaggi alle trasmissioni tv (verso la ultra alta definizione 4K), è supportato solo dalle tv in vendita dal 2017. Di conseguenza, è possibile prevedere che gli incentivi riusciranno a coprire l’acquisto di tutti decoder solo se le emittenti nell’immediato rinunceranno all’Hevc. Altrimenti, alcuni utenti saranno costretti a provvedere di tasca propria. Al momento, l’orientamento è favorire con gli incentivi le categorie esentate dal canone tv.

Quali svantaggi avranno gli utenti, in definitiva?
Quelli che hanno un televisore compatibile (sicuramente è il caso dei modelli acquistati nel 2017) o che intendevano comunque cambiarlo nei prossimi due-tre anni, nessuno svantaggio. Solo il vantaggio di una maggiore qualità video. Per tutti gli altri ci sono alcuni svantaggi. Eccoli. Anche se gli incentivi dovessero coprire l’acquisto di tutti i decoder, ci sarà comunque la scomodità di doversi procurare un decoder e di installarlo (cosa difficile soprattutto per molti anziani). Si sarà costretti a risintonizzare i canali e, in certi casi, far venire un tecnico per mettere mano all’antenna condominiale. In ogni caso, si subirà il disagio di un nuovo scatolotto che occupa spazio, ingombra con i cavi, e costringe all’uso di un doppio telecomando.

Da: Repubblica – http://www.repubblica.it/economia/2017/10/31/news/una_nuova_rivoluzione_colpira_i_televisori_italiani_ecco_la_guida_per_orientarsi-179881283/

I blue jeans? Non sarebbero mai esistiti senza la canapa italiana!

 

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I blue jeans? Non sarebbero mai esistiti senza la canapa italiana!

 

La canapa italiana all’origine dei blue jeans

 

All’origine dei blue jeans c’è anche la canapa italiana. E’ uno dei prodotti d’abbigliamento più diffusi a livello globale che spesso viene accostato a cow boy, cercatori d’oro e minatori del far west che li utilizzavano per cavalcare. Ma quello dei jeans è un racconto che affonda le radici in un passato di cui abbiamo testimonianza ancora oggi; i visitatori che si recano al Museo diocesano del capoluogo ligure, infatti, si possono vedere paramenti sacri su tele blu in fibra di linotinte con l’indaco risalenti al 1500. Secondo diversi studiosi, Giuseppe Garibaldi fu il primo “personaggio famoso” ad aver indossato un paio di jeans e quegli stessi pantaloni usati per lo sbarco a Marsala sono conservati al Museo del Risorgimento a Roma.

L’origine del tessuto è il fustagno, che aveva la trama (cioè il filo orizzontale) di cotone, mentre l’ordito (il filo verticale) di lino o canapa e talvolta di entrambi. Mentre a Genova a partire dal ‘700 viene creato il tessuto chiamato tela di Genova, che inizialmente veniva usato per ricoprire le navi in partenza e successivamente come pantalone robusto per i portuali a cui servivano abiti resistenti ed oltreoceano diventerà il jeans, blu perché tinto con l’indaco che si lavorava in città, in Francia usavano il tessuto di Nîmes, quindi de-Nîmes diventa denim.

“Forse non tutti sanno che nell’Ottocento nelle due valli si produceva la canapa, e che questa veniva lavorata con i mulini ad acqua della Val di Vara, soprattutto a Val di Pino, nel comune di Riccò. La canapa veniva battuta è trasformata in tela che veniva colorata con un blu naturale e poi cardata con acqua per renderla più morbida e scolorita. Questa tela veniva contrabbandata con il sale, allora monopolio della Repubblica genovese. Era la tela di Genova che, poi, al di là dell’Atlantico diventerà jeans”, ha raccontato presidente del Parco Montemarcello Magra-Vara Pietro Tedeschi, che a questa storia vorrebbe dedicare un museo.

La canapa potrebbe costituire una risorsa per la Valle? Era stato chiesto al presidente tempo fa. “Esattamente”, aveva risposto precisando che: “Credo che il ripristinare qualche mulino potrebbe essere interessante anche in termini di immagine. Si può pensare ad un museo del jeans coinvolgendo le grandi marche. Potrebbe essere una grande risorsa per la Val di Vara, ma anche per tutto il territorio. È una risorsa su cui lavoreremo, in accordo con i sindaci, per creare un’immagine positiva e propositiva del Parco”.

Oggi in America esistono diverse produzioni di Jeans in canapa, proposti ad esempio da Hemp Blue, da Dash Hemp o dalla canadese Rawganique, speriamo che una possibile ripresa della filiera tessile, possa far avviare anche una produzione nel nostro paese.

Mario Catania

 

fonte: http://www.canapaindustriale.it/2017/10/23/la-canapa-italiana-allorigine-dei-blue-jeans/

MADi, la casa prefabbricata in legno – Ecologica ed a prova di terremoto

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MADi, la casa prefabbricata in legno – Ecologica ed a prova di terremoto

 

MADi, la casa prefabbricata pop-up a prova di terremoto

Il sistema costruttivo dispiegabile permette in poche ore di avere una vera casa multilifunzionale di classe A

La casa prefabbricata in legno che pieghi come un origami

(Rinnovabili.it) – Ecologica, antisismica e modulare. Potrebbero bastare questi tre aggettivi per descrivere la casa prefabbrica in legno MADi, ma si perderebbe probabilmente uno degli aspetti più interessanti della sua progettazione. Sì, perché MADi è l’acronimo di modulo abitativo dispiegabile, il cui particolare sistema costruttivo – protetto da brevetto – la rende letteralmente ripiegabile su se stessa, quasi come una di quelle tende da campeggio auto montanti. Con la non piccola differenza che, in questo caso, ci troviamo di fronte ad una casa in legno multifunzionale, dotata di alta classe energetica e certificazione antisismica.

 

Dietro il progetto c’è la mano dell’architetto italiano Renato Vidal e del produttore abruzzese Area Legno. Quando ha pensato alla sua casa prefabbricata, Vidal l’ha fatto in maniera tale che l’abitazione potesse essere installata nel minor tempo possibile, con la possibilità, eventualmente, di richiudere nuovamente il modulo e trasferirlo in altro luogo.

Si legge sul sito del progetto “Le strutture M.A.DI. non consumano territorio perché non necessitano di fondazioni e, venuto meno l’uso, possono essere ripiegate e trasferite in altro luogo o semplicemente impilate in un deposito pronte per un nuovo utilizzo; l’ancoraggio è comunque assicurato da un innovativo, invisibile ed ecologico sistema di fondazione a vite”.

 

Come è fatto MADi, il modulo abitativo dispiegabile

La struttura ad A è realizzata con profili e tubi in acciaio (pretrattati per resistere alla corrosione) e particolari cerniere che garantiscono il movimento di apertura e chiusura. Le chiusure orizzontali di copertura sono ottenute con pannelli Xlam, ossia pannelli di legno massiccio a strati incrociati, impermeabilizzati e isolati termicamente, mentre le pareti frontali sono composte da una struttura a telaio coibentata con lana di roccia ad alta densità e rivestite esternamente in legno.

Ogni modulo si estende su due livelli è consegnato completa di impianto elettrico, idrosanitario, di climatizzazione (caldo/freddo), sanitari, allaccio cucina.

Poche ore per realizzarla e un paio di giorni prima di essere abitabile: il modulo rende quasi inesistente il cantiere e riduce all’osso i costi di gestione. Non solo. “Nella versione standard vengono prodotte in classe energetica B ma, se richiesto dal committente, possono essere facilmente portate ad una classe A e superiore. L’aggiunta di pannelli solari può rendere le strutture M.A.DI. energeticamente autonome. Le uniche veramente rimovibili, recuperabili e riutilizzabili al 100% e che s’installano senza deturpare l’ambiente ma semplicemente entrando in simbiosi con esso”.

Il prezzo? 800 euro per metro quadrato (che comprende anche trasporto e montaggio se entro 200 km dalla sede dell’Azienda). Attualmente la casa prefabbricata in legno pieghevole è realizzabile in tre diversi modelli, da 27 mq, 56 mq e 84 mq, ma spiega l’azienda, possono essere aggiunti ulteriori moduli per ampliarne la volumetria.

 

fonte: http://www.rinnovabili.it/greenbuilding/madi-casa-prefabbricata-pieghevole/

 

Dall’energia all’agricoltura, 7 fantastiche innovazioni tutte italiane da premiare

 

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Dall’energia all’agricoltura, 7 fantastiche innovazioni tutte italiane da premiare

Dai fitofarmaci naturali alle moto elettriche, dal riciclo dell’asfalto alla condivisione dell’energia rinnovabile: ecco le realtà che hanno ricevuto oggi Premio Innovazione amica dell’ambiente

Legambiente presenta le innovazioni italiane amiche dell’ambiente

 

Quando si parla di innovazione ecofriendly non bisogna necessariamente rivolgere lo sguardo all’estero. Esistono anche in Italia progetti e imprese che maneggiano con destrezza il futuro della sostenibilità. Lo dimostrano le 14 realtà segnalate oggi da Legambiente nella nuova edizione del Premio Innovazione amica dell’ambiente.

Il cigno verde ha assegnato questa mattina sette premi (uno per ogni categoria prevista) e sette menzioni speciali, alle migliori esperienze italiane sul fronte innovazione. Il campo è ampio: si va dai progressi verdi raggiunti in termini di prodotto, di processo, di servizi, a quelli di sistema, tecnologici e gestionali. L’elemento distintivo non è tanto il grado di novità, quanto la capacità di aver saputo innovare  mantenendo alta l’attenzione su ambiente e occupazione. E ovviamente risultando vincente sotto il profilo economico.

“All’inizio, l’innovazione amica dell’ambiente era limitata a miglioramenti nei cicli produttivi e al contenimento delle emissioni inquinanti – spiega il direttore generale di Legambiente Stefano Ciafani -. Oggi, premiamo innovazione industriale, servizi, comunità energetiche e prodotti, siamo in una fase di grandi cambiamenti in cui il desiderio di investire sulla sostenibilità ambientale appare irrinunciabile e, soprattutto, trasversale a più settori, come dimostrano bene i progetti premiati”.

Si va dai fitofarmaci naturali alle moto elettriche, dal riciclo dell’asfalto alla condivisione dell’energia rinnovabile: innovazioni italiane reali, esperienze già in campo, che si segnalano per originalità e per potenzialità di sviluppo.

Le 7 innovazioni italiane premiate

Premio Suolo, agricoltura e sistemi alimentari: a Green Code srl per DEMETRA fitofarmaco totalmente naturale prodotto per il trattamento post raccolta della frutta. Demetra consente l’arresto naturale della maturazione della frutta, prevenendo al contempo lo sviluppo di micosi e la proliferazione di batteri patogeni. Il risultato è un miglior mantenimento delle qualità organolettiche del frutto durante lo stoccaggio e il trasporto, un allungamento della sua shelf life, e una riduzione degli sprechi dovuti alla decomposizione.

Premio Mobilità sostenibile: a Energica Motor Company SpA, l’unica casa costruttrice di moto elettriche supersportive Made in Italy ad integrare la tecnologia di ricarica rapida DC sulla base CCS Combo. Le moto Energica si avvalgono di una batteria a polimeri di litio ad alta energia, inserita in un guscio ermetico che contiene anche il Battery Management System e tutti i dispositivi necessari per garantire la sicurezza del veicolo. Per ovviare al surriscaldamento delle batterie, ha progettato un sistema di raffreddamento che, grazie a specifici percorsi di ventilazione, consente di limitare lo stress del battery pack batterie con notevole beneficio sia in termini di prestazioni del veicolo sia della durata.

Premio Abitare in comunità smart al Comune di Barrali per la “La Grande sfida Riciclona”, ideata per promuovere la buona gestione dei rifiuti, premiando i cittadini più virtuosi. In base al progetto, ogni abitante riceve degli EcoPunti in cambio dei rifiuti portati in differenziata, le migliori famiglie “riciclone” sono premiate uno sconto in bolletta.

Premio Edilizia e rigenerazione urbana: Tubus System Italia srl per la loro tecnologia di relining. Si tratta di un processo non distruttivo che permette di riparare e risanare le tubazioni di scarico rivestendole dall’interno, con un materiale plastico privo di Bisfenolo-A, resistente ad agenti chimici e riciclabile al 100%. In questo modo si può realizzare un nuovo tubo dentro quello esistente senza alcuna demolizione, senza disagi e senza generare macerie.

Premio Economia circolare: a Iterchimica srl per un additivo innovativo che permette di produrre asfalto partendo al 100% da asfalto riciclato (proveniente dalla demolizioni di pavimentazioni ammalorate o a fine vita), senza aggiunta di bitume o aggregati (ghiaia e sabbia) vergini, a temperatura ambiente invece di 180°, e con la possibilità di colorarlo con ossidi (mentre in precedenza era possibile colorare con ossidi solo gli asfalti fatti a 180°).

Premio Società Benefit e B Corp: Mondora srl sb per Cycle2Work, letteralmente “vai al lavoro in bici”, progetto che nasce per incentivare i dipendenti all’utilizzo delle due ruote dolci o dei piedi come mezzo di trasporto preferito per recarsi al lavoro. Dal punto di vista finanziario, ogni collega può decidere di utilizzare il rimborso chilometrico prodotto nel viaggio casa-lavoro per l’acquisto di una bicicletta.

 

Premio Sistemi e comunità energetiche: ForGreen Spa per WeForGreen Sharing, cooperativa energetica, nata il 24 luglio 2015, che produce energia 100% rinnovabile e la consuma con i propri soci in tutta Italia. L’idea è quella di creare una comunità consapevole fatta di soci Autoproduttori o soci Consumatori. I primi, acquistando quote di impianti, producono e consumano energia rinnovabile e la cooperativa gli restituisce ogni anno un ristorno proporzionale al numero di quote sottoscritte. I secondi possono consumare nelle proprie abitazioni energia 100% rinnovabile ad un prezzo vantaggioso da mercato all’ingrosso.

 

fonte: http://www.rinnovabili.it/innovazione/energia-agricoltura-innovazioni-italiane/