Marlon Brando, quell’Oscar rifiutato per protesta contro lo sterminio degli Indiani d’America

 

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Marlon Brando, quell’Oscar rifiutato per protesta contro lo sterminio degli Indiani d’America

Brando, quell’Oscar rifiutato contro lo sterminio degli Indiani d’America

Era il marzo del 1973. L’attore non ritirò mai l’Oscar per Il Padrino . Al suo posto mandò una giovane Apache, Sacheen Littlefeather. E scrisse una lettera che è ancora un atto d’accusa contro il potere.

Los Angeles, California. Era la notte del 5 marzo del 1973. Due gli ospiti d’onore che aspettano gli Oscar per farne incetta: Bob Fosse con Cabaret e Francis Ford Coppola con Il Padrino, una ventina di nomination in due. Fanno fuori tutte le portate principali, fra cui quelle di miglior attore e di miglior attrice. Le statuette vanno a Marlon Brando e Liza Minnelli. Ma Brando che è al secondo Oscar, dopo Fronte del Porto, boicotta lo show.

Liv Ullman e Roger Moore, che presentavano la serata, lo chiamano sul palco. Al posto dell’attore si presenta una ragazza. E’ Sacheen Littlefeather, vestita da vera Apache, che spiega con fermezza le obiezioni dell’attore contro l’immagine che la tv e il cinema hanno dato degli Indiani d’America nel corso degli anni. Fischi, urla.

Sacheen però non molla. Dice: “Sono una Apache e sono la presidente del National Native American Affirmative Image Committee (comitato degli affari degli Indiani d’America). Stasera rappresento Brando e mi ha detto di dirvi, in un discorso molto lungo che non posso condividere con voi attualmente, per motivi di tempo, ma che sarò lieta di condividere con la stampa più tardi, che non può accettare questo generoso premio a causa del trattamento oggi riservato agli indiani d’America nell’industria del cinema”.

Quella lettera era  e rimane un atto d’accusa pesantissimo nei confronti del governo a Stelle e Strisce. Ed è a tutt’oggi un gesto di ribellione valido in tutti i casi in cui il potere schiaccia le minoranze. Brando scriveva: “Per duecento anni abbiamo detto agli Indiani, che si battevano per la loro terra, le loro famiglie e il loro diritto di essere liberi: ‘deponete le armi, amici, e vivremo insieme’; quando loro hanno deposto le armi, li abbiamo uccisi. Abbiamo mentito, li abbiamo privati delle loro terre. Li abbiamo costretti a firmare accordi fraudolenti, che abbiamo chiamato ‘trattati’, e che non abbiamo mai mantenuto. Li abbiamo trasformati in mendicanti in un continente che ha dato loro la vita (…). Quando i bambini indiani guardano la televisione, e guardano i film, e quando vedono la loro razza raffigurata come è nei film, le loro menti si feriscono in modi che non possiamo immaginare”.
Marlon Brando concluse quella lettera potente con una frase che dovrebbe essere mandata a memoria ovunque i diritti vengano schiacciati, ovunque la vita venga trattata come un imprevisto, ovunque l’umanità sia presa a calci dal potere: “Se non siamo l’angelo custode di nostro fratello, almeno lasciateci non essere il suo carnefice.”
Nel 1979 in Pocahontas, una canzone a sostegno degli indiani d’America, contenuta nell’album Rust Never Sleeps, il musicista canadese Neil Young omaggiò il gesto di Brando. La canzone recita più o meno così:  “Vorrei essere un cacciatore. Darei mille pelli per passare una notte con Pocahontas. E scoprire e come si sentì al mattino nelle verdi pianure. Nella terra natia che non abbiamo mai visto. E forse Marlon Brando
sarà li accanto al fuoco. Ci siederemo e parleremo di Hollywood. Marlon Brando, Pocahontas e io…”
Lasciateci non essere i carnefici delle nostre sorelle, dei nostri fratelli. Da qualche parte Pocahontas, ieri come oggi, sta sorridendo sotto il poster di The Godfather. 

 

tratto da: http://www.globalist.it/cinema/articolo/2018/03/27/brando-quell-oscar-rifiutato-contro-lo-sterminio-degli-indiani-d-america-2021682.html

1° Febbraio 1876 – il giorno della “Memoria corta” – Gli Stati Uniti d’America dichiarano guerra ai Nativi Americani rei di un crimine imperdonabile: nei loro territori c’era l’oro!

 

 

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1° Febbraio 1876 – il giorno della “Memoria corta” – Gli Stati Uniti d’America dichiarano guerra ai Nativi Americani rei di un crimine imperdonabile: nei loro territori c’era l’oro!

Il 1 febbraio 1876 è una data ancora oggi ignorata o non considerata come dovrebbe dai media e dalle istituzioni ma è il giorno in cui il Ministro degli Interni degli Stati Uniti d’America, dopo la scoperto dell’oro nella zona più importante del territorio Lakota, perché considerato sacro, le Black Hills, decise di perseguitare tutti i Sioux che rifiutarono di trasferirsi nelle riserve. L’ordine di trasferire migliaia di uomini  donne e bambini dal territorio dov’erano arrivò in una stagione dell’anno in cui quelle zone erano innevate e molti indiani erano lontani impegnati nella caccia. L’esercito statunitense non precluse ai minatori l’accesso alle zone di caccia Sioux e attaccò gli indiane che stavano cacciando nella prateria, come loro concesso dai precedenti trattati.

Gli Stati Uniti dichiarano guerra ai Sioux

Il 1 febbraio 1876 il ministro degli Interni degli Stati Uniti d’America dichiarò guerra ai Sioux “ostili”, quelli cioè che non avevano accettato di trasferirsi nelle riserve, dopo che era stato scoperto l’oro nelle Black Hills, il cuore del territorio Lakota.

Come si potevano traferire migliaia di uomini, donne e bambini dalla terra dov’erano nati, in una stagione dell’anno in cui il territorio era coperto di neve? Molti indiani pare neanche ricevettero l’ordine, in quanto impegnati nelle loro attività di caccia, lontano dalla propria residenza.

Quella dichiarazione di guerra del 1 febbraio fu l’inizio del massacro degli Indiani d’America, che culminerà con l’eccidio di Wounded Knee, passato alla storia grazie a canzoni, libri e film. Sul finire del dicembre 1890, la tribù di Miniconjou guidata da Piede Grosso, appresa la notizia dell’assassinio di Toro Seduto, partì dall’accampamento sul torrente Cherry, sperando nella protezione di Nuvola Rossa.

Il 28 dicembre furono intercettati dal Settimo Reggimento, che aveva l’ordine di condurli in un accampamento sul Wounded Knee: 120 uomini e 230 tra donne e bambini furono portati sulla riva del torrente, circondati da due squadroni di cavalleria e trucidati.

“Seppellite il mio cuore a Wounded Knee” di Dee Brown è il libro che ha commosso generazioni di persone e ispirato cantanti di tutte le generazioni e latitudini, fino a Fabrizio De Andrè che compose la canzone “Fiume Sand Creek”, Prince e Luciano Ligabue.

Così racconta il massacro di Wounded Knee: «Brillava il sole in cielo. Ma quando i soldati abbandonarono il campo dopo il loro sporco lavoro, iniziò una forte nevicata. Nella notte arrivò anche il vento. Ci fu una tempesta e il freddo gelido penetrava nelle ossa. Quello che rimase fu un unico immenso cimitero di donne, bambini e neonati che non avevano fatto alcun male se non cercare di scappare via».

I Sioux, che preferiscono chiamarsi Dakota o Lakota, sono la principale tribù degli Stati Uniti, con 25.000 membri. Ora vivono in riserve nei loro antichi territori. Continuare a raccontare la loro storia (pochi giorni fa è stata la Giornata della memoria) è un modo per non dimenticare di cosa è stato capace l’uomo nel corso della storia e fare in modo che episodi simili non si ripetano.

 

Amarcord – Indiani d’America: dal genocidio alla discriminazione razziale – il 31 GENNAIO 1876 nascono le “riserve”, veri e propri campi di concentramento ideati allo scopo di portare a termine il genocidio dei Nativi… Hitler poi non dovette fare altro che ispirarsi agli americani…

 

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Amarcord – Indiani d’America: dal genocidio alla discriminazione razziale – il 31 GENNAIO 1876 nascono le “riserve”, veri e propri campi di concentramento ideati allo scopo di portare a termine il genocidio dei Nativi… Hitler poi non dovette fare altro che ispirarsi agli americani…

 

INDIANI D’AMERICA: DAL GENOCIDIO ALLA DISCRIMINAZIONE RAZZIALE

Si dice, ed è vero, che la storia viene scritta dalle potenze vincitrici, e così anche le efferatezze, gli eccidi e i genocidi di popoli vengono amplificati o messi in un cantuccio, secondo gli interessi e le convenienze politiche delle potenze suddette. Così per gli indiani d’America (come per altri moltissimi casi), per il loro olocausto non c’è alcun “giorno della memoria”. Nei programmi di approfondimento se ne parla poco, nella letteratura già a partire dal 1700, poi culminata nel cinema “western”, gli Indiani (o pellirosse) venivano rappresentati come violenti e malvagi, e gli eventuali indiani buoni erano quelli disposti a collaborare con l’uomo bianco. Nota la frase del Generale Sheridan: “…l’unico indiano buono, che io conosca, è l’indiano morto”. Ancora oggi sono, come gli altri “di colore”, discriminati ed emarginati, laddove nelle loro comunità vi sono condizioni di vita nettamente inferiori, con un alto tasso di suicidi tra gli adolescenti di 150 volte superiore a quello statunitense, una mortalità infantile cinque volte più alta, una disoccupazione che tocca cifre altissime e con un’alta diffusione di povertà, di alcolismo e tossicodipendenza.
Dobbiamo ricordare che il genocidio del popolo nativo dell’America è stato valutato andare dai 50 ai 100 milioni di persone; esse morirono a causa dei colonizzatori, per guerre di conquista, cambio di stile di vita, perdita del loro ambiente, malattie contro le quali non avevano assolutamente difese, e molti furono deliberatamente uccisi, ufficialmente perchè considerati “barbari”, mentre la causa principale era quella di impossessarsi delle terre e delle loro ricchezze. Nel Nordamerica ne morirono di meno, essendo meno popolata, ma l’impatto fu devastante: nel 1890 rimanevano 250mila individui, e si stima che circa l’80% fosse stato sterminato.
L’origine degli Indiani d’America è ancora incerta, ma essi sono molto simili ai Mongoli, che oggi vivono in Asia: ciò è possibile, in quanto anticamente l’attuale Stretto di Bering non esisteva e i due continenti erano uniti, permettendo a queste popolazioni il transito prima in Canada e poi negli Stati Uniti. Il primo approccio con il resto del mondo risale a circa il 1100 d.c. con i Vichinghi, ma la svolta alla loro esistenza, purtroppo, avvenne nel 1492, con la “scoperta” di Cristoforo Colombo, convinto di essere sbarcato nelle Indie (da cui la denominazione di “indiani”).
Gli indiani si suddividevano in nazioni, cioè in insiemi di individui uniti dal linguaggio, dagli usi, dallo stanziamento o da una comune abitudine migratoria; le nazioni più grandi erano composte da tribù, costituite da clan o grandi famiglie. Gli indiani delle pianure, la cui economia era principalmente basata sulla caccia al bisonte (fornitore di cibo, materia per vestiario ed armi), vivevano seguendo le migrazioni stagionali dell’animale; invece gli indiani delle zone montuose o desertiche, sia per caratteristiche ambientali diverse, sia per mancanza di grossi animali migratori, facevano una vita più stanziale. Il frammischiamento tra tribù della stessa nazione, o tra le diverse nazioni, non era caso raro, come non era infrequente la guerra, che generalmente veniva condotta per ragioni di bottino, ed era per i giovani l’occasione buona per dimostrare il loro valore.
I primi insediamenti colonici, che poi costituiranno il primo nucleo della nuova nazione americana, risalgono al 1616, dove gli inglesi fondarono l’odierna Virginia, la Nuova Inghilterra, ed i Padri Pellegrini nel 1620 fondarono New Plymouth, nel Massachusetts. Prima ancora i francesi, nel 1606, insediandosi in Canada, avevano fondato Quebec.
I primi contatti con la popolazione indiana erano praticamente basati sui rapporti commerciali e si mantennero su accettabili equilibri; i bianchi portarono a conoscenza degli indiani il cavallo, che poi divenne per loro uno strumento fondamentale di caccia e di guerra, le armi da fuoco e, purtroppo, anche il whisky e le prime malattie (vedi vaiolo, varicella, influenza, etc.), che hanno distrutto intere tribù, non avendo gli indiani sviluppato anticorpi specifici per combatterle.
Successivamente il numero di coloni provenienti dall’Europa crebbe, dato che le potenze europee, specialmente l’Inghilterra, volevano evitare le tensioni sociali che, con l’avvento della borghesia e le relative espulsioni di contadini dalla terra, assorbiti solo in parte dal tessuto industriale, creavano una massa di disoccupati, potenziali promotori di scontri sociali. Così, come “valvola di sfogo”, furono usate le nuove conquiste, che alimentavano il miraggio di possedimenti terrieri e di ricchezze. Comunque, la colonizzazione del Nord e del Sud America presenta delle differenze: mentre i “conquistadores” spagnoli erano prevalentemente degli avventurieri e degli sbandati, e praticavano lo stupro sistematico (i più si unirono con donne indigene di rango superiore e diedero origine ai meticci), gli inglesi arrivarono nel nuovo mondo già in nuclei famigliari, e ciò non favorì l’integrazione. Inoltre, i nativi americani non si adattavano ad essere assoggettati come manodopera, e ciò complicava i rapporti con i bianchi “civilizzatori”, che già consideravano i nativi come “selvaggi”, con tutta la negatività che questo termine comporta.
I pellirosse non conoscevano il denaro, né mai capirono la frenesia dell’uomo bianco per l’oro; parlavano sì di ricchezze, ma per loro si trattava di beni materiali di immediata utilità come cibo, cavalli, armi ecc. Anche la stessa guerra era vista come l’occasione per dimostrare il proprio valore e, per i giovani, era una specie di “esame di maturità”; la stessa pratica di prendere gli scalpi dei nemici uccisi, contrariamente a quanto è stato dato ad intendere, era stata assorbita dagli Inglesi. Con ciò non si vuole dare un’immagine idilliaca dell’indiano: anch’egli faceva la guerra, torturava, in particolare l’Apache, i prigionieri, ma diveniva spietato quando si sentiva ingannato o per ritorsione ad eventuali eccidi dei colonizzatori… era molto raro che un guerriero indiano uccidesse donne e bambini dei nemici in guerra e, quando ciò avveniva, era per rappresaglia, mentre spesso i generali yankee comandavano ai soldati di farlo, per affrettare l’estinzione delle tribù native. Gli stessi Apache, considerati tradizionalmente i più feroci, avevano alle spalle una radice storica ben precisa: lo sfuttamento e gli eccidi subiti dai messicani, che li consideravano intrusi e da eliminare, e che usavano rapire i loro bambini per venderli come schiavi e le loro bambine per avviarle alla prostituzione; in fondo era per difendersi, che l’Apache era diventato un maestro della guerriglia ed un guerriero spietato e feroce.
Comunque, prima della nascita degli Stati Uniti d’America (nel 1776), il “nuovo mondo” fu terreno di scontro fra le varie nazioni europee (Inghilterra, Spagna, Francia, Paesi Bassi), che cercavano di assicurarsi l’alleanza dei nativi, impegnandosi con promesse, poi mai mantenute, spingendoli sempre più ad Ovest, quando il conflitto si attenuava.
Le continue pressioni dei bianchi, appunto, crearono i primi scontri tra gli Indiani: i Chippewua che vivevano nell’attuale Minnesota e Wisconsin si spostarono verso Ovest, scontrandosi con i Sioux, ed a questo scontro fecero seguito diverse battaglie di assestamento tra gli indiani, che coinvolsero diverse tribù minori. Alla fine dell’assestamento, le genti indiane si potevano, grosso modo, dividere così: nelle pianure erano predominanti i Sioux, mentre a Sud gli Apache, e queste due “nazioni” furono le vere grandi avversarie dei bianchi. Ma questo continuo avanzamento dei colonizzatori ebbe l’effetto di spingere diverse tribù o nazioni ad accantonare le vecchie rivalità per potere resistere, e così, di fatto, iniziarono le”guerre indiane”, come gli storici statunitensi le chiamarono, per descrivere la serie di conflitti avuti dagli indiani prima con i coloni, e poi con gli Stati Uniti.
Ma erano ancora degli episodi limitati, ed è con la nomina a presidente del generale A. Jackson, che la politica americana avrebbe mostrato il proprio volto. Uno dei primi atti del presidente fu il “Removal Act” del 1829, che, di fatto, era un ordine di deportazione di cinque “nazioni indiane” (Creek, Choctaw, Chicasaw, CheroKee e Seminole) dalla Florida all’odierno Oklahoma, che in seguito sarebbe diventato “territorio indiano”. La deportazione forzata fu il primo atto di una serie di prepotenze fatte per scacciare i nativi dalle terre ritenute utili all’avanzamento dei coloni. Con lo scoppio della guerra (Maggio 1846) tra Messico e Stati Uniti, gli indiani si illusero, alleandosi con gli Americani, di poterci convivere, ma la scoperta dell’oro nel 1848 e di altri giacimenti nel 1851 fecero sì che i territori degli Apache Minbreno fossero invasi da una moltitudine di cercatori, e, quando gli Indiani cominciarono a ribellarsi, si accorsero ben presto che i soldati USA, loro alleati contro i messicani, avevano l’ordine di garantire il passaggio delle carovane dei cercatori, perchè il governo voleva che quei territori venissero colonizzati, e quindi la spinta alla ricerca dell’oro doveva essere favorita, e non frenata. 
Nelle grandi pianure la situazione, invece, era più tranquilla, e nel 1851 a Fort Laramie si tenne una grande assemblea con gli indiani, i quali si erano impegnati ad un atteggiamento amichevole verso le carovane di emigranti, mentre l’esercito doveva difenderli dai soprusi dei coloni. Ma il flusso dei coloni era innarestabile, così come era inevitabile lo scontro tra i bianchi ed i pellirosse. Teniamo presente che lo sviluppo degli Stati Uniti fu grandioso, sia in termini di popolazione, sia in termini di progresso economico, tecnico e scientifico. Nel 1810 la popolazione era di 7.329.000, nel 1860 era di 31.513.000; basti pensare che solo nel 1851, anno dell’oro, erano giunti dall’Europa 1.046.470 immigrati. Gli Stati che, all’inizio erano 13, nel 1860 erano divenuti 34! Nel 1850 la produzione industriale era di oltre 500 milioni di dollari, raddoppiati in solo dieci anni; nel 1842 la ferrovia copriva cinquemila chilometri, nel 1852 erano 17000, ed il 10 maggio 1869, a Promontory Point, si congiungeranno i due tratti della prima ferrovia transcontinentale. Tutto questo per gli Indiani era invece ritenuto un danno, e sconvolgeva il loro modo di vita: vedevano distrutte le fonti di sopravvivenza.
Nel 1860, la giovane nazione americana si apprestava ad una feroce guerra civile (“Guerra di secessione”) tra gli insediamenti del Nord e quelli del Sud. Tale scontro ha avuto un diverso impatto sulle “nazioni” indiane; quelli delle Grandi Pianure, che erano sotto il controllo della Unione nordista, hanno vissuto un momento di tranquillità, avendo i nordisti tutto l’interesse di non turbare il flusso dei rifornimenti provenienti da quei territori, mentre diversa era la situazione del Sud Ovest, dove la California e il Kansas erano rimasti fedeli all’Unione; sicchè si era creato un fronte, dove i nordisti cercavano di bloccare i rifornimenti che dal Messico arrivavano ai Confederali sudisti. Le cinque “nazioni”, che trent’anni prima erano state spostate dalla Florida, presero le armi contro i nordisti con la promessa che, con la vittoria del Sud, sarebbero ritornate sulla loro terra. La sconfitta dei Confederali, invece, costò ai pellirosse un prezzo altissimo. Invece nei territori dell’Arizona e del Nuovo Messico il Nord ritirò le guarnigioni e gli indiani ebbero mano libera per la loro vendetta, facendo terra bruciata degli insediamenti dei coloni che abbandonarono ogni cosa, e persino le città.
Così nel 1862 si ruppe di fatto il precario equilibrio tra uomini bianchi e uomini rossi ed iniziò la “politica di sterminio”, che prosegui negli anni successivi con ” memorabili” battaglie e “memorabili” massacri. Inoltre, nel 1874 gli Indiani delle Pianure furono colpiti da un’altra calamità: i bisonti non seguivano più le piste abituali, ed, in più, la caccia indiscriminata fatta dagli uomini bianchi aveva fatto crescere un florido commercio delle carni e delle pelli del bisonte; tra il 1872 ed il 1874 i bisonti uccisi furono circa 3 milioni e mezzo, di cui solo 150mila dagli indiani. Quando il commercio cominciò a ristagnare fu troppo tardi, perchè i bisonti rimasti non bastavano alla sopravvivenza degli indiani.
Fu poi grazie a documenti falsificati, ma in realtà per dare “campo libero” ai cercatori d’oro, che la Casa Bianca decise che entro il 31 Gennaio 1876, tutti gli indiani dovevano ritirarsi nelle costituende “riserve”, di cui si parlerà più avanti. Infatti poi, senza curare alcuna adeguata informazione su tale “ritiro”, il 1 Febbraio, centoquaranta anni fa, venne ufficialmente dichiarata loro guerra aperta.
Il Giugno 1876, la battaglia di Little Big Horn, con la sconfitta e la morte del famigerato generale Custer, fu di fatto il canto del cigno del popolo indiano, schiacciato poi dalla superiorità militare americana e condannato a sparire da una nuova “civiltà”, che anteponeva l’interesse economico, di potere e di espansione, a qualsiasi considerazione di lealtà ed umanità. Gli americani, comunque, avevano capito che non potevano continuare con la politica dello sterminio e passarono dalla morte fisica dell’indiano alla morte della loro cultura, del loro essere sociale e delle loro tradizioni, integrandoli forzatamente, richiudendoli nelle riserve e riducendoli a personaggi di folklore.
Il primo atto della nuova politica era stato quello di trasformare le agenzie indiane in riserve: mentre nelle prime gli Indiani riuscivano a conservare il proprio modo di vita, nelle seconde, volenti o no, si imponeva loro l’integrazione, ed inoltre non potevano varcare i confini senza autorizzazione, e non avevano il libero esercizio della caccia, dipendendo cosi dagli aiuti del governo. Infatti le riserve sono nominalmente affidate agli Indiani, ma di fatto sono in mano al governo, tramite agenti federali bianchi o indiani, comunque al servizio dei bianchi. I consigli tribali sono governi fantoccio, che seguono direttive dettate da esigenze non indiane, e che sono ben lontane dalle reali aspettative delle tribù. Ovviamente i territori assegnati agli indiani erano sempre stati scelti sulla base della loro “appetibilità” o meno ai fini di uno sfruttamento minerario o agricolo da parte dei bianchi.
Più recentemente, la legge, denominata “Relocation Act”, del 1953 prevedeva che gli indiani potevano lasciare le terre e le riserve e, per il loro inserimento nella società americana, vi erano appositi programmi, che prevedevano una proposta di lavoro con aggiunta di una piccola sovvenzione iniziale, tale da consentire loro l’inserimento nel tessuto sociale. Ma la perdita dei legami con il proprio retroterra culturale, le discriminazioni razziali, la diversità della vita nelle grandi città e l’impossibilità di adattarvisi, hanno determinato in brevissimo tempo un accumulo di rabbia e frustazioni, tali da provocare forme di autodistruzione e azioni violente contro la collettività. Non a caso è molto alta la percentuale di alcoolizzati, dei malati di mente, dei reclusi, dei suicidi, soprattutto tra le nuove generazioni.
“La spada, il fucile ed il bisturi”, gli strumenti USA. Perchè accomunare uno strumento chirurgico, che “salva” la vita, con le armi che, invece, la tolgono? Perchè tale strumento rappresentava l’ultimo brevetto “made in USA” per una efficace soppressione della vita senza tanti clamori. Infatti, una inchiesta condotta nel 1974 stima che, su una popolazione di 800mila nativi, il 42% delle donne in età fertile ed il 15% degli uomini sia stato sterilizzato forzatamente, e ciò è stato possibile con tre semplici strumenti: con l’inganno, con le minacce ed i ricatti, e quando l’ottenimento del consenso avveniva in una lingua che il paziente non poteva comprendere.
Gli indiani, anche se praticamente distrutti, cercarono anche nel ventesimo secolo, specialmente a partire dagli anni ’50, di mobilitarsi, e vi furono numerose proteste per il mancato rispetto dei trattati e delle richieste sociali e politiche, come l’occupazione di Wounded Knee nel 1973 e la simbolica marcia su Washington; nel 1980 gli Oglala/Sioux ottennero 100.000 milioni di dollari per la perdita del territorio di Black Hills, nel 2007 alcuni Lakota/Sioux guidati da Russel Means hanno chiesto la secessione della loro “nazione” ed, a seguito di questa azione politica pacifica, è stata proclamata la nascita di uno Stato non riconosciuto, la “Repubblica Lakota”.
Il popolo indiano, come centinaia di altri popoli, ha subito sulla propria pelle la ferocia e gli orrori del colonialismo, ed i missionari, capeggiando la corsa europea alla loro distruzione, venivano riconosciuti come nemici. Sono, però, stati rimpiazzati dai capitalisti USA, la cui missione è di sfruttare efficientemente la strada aperta dai missionari e, per far questo, non si sono fermati e non si fermeranno davanti a nessuno; hanno anticipato nel tempo quel razzismo, che poi storicamente il nazismo è riuscito a perfezionare ed ampliare: il genocidio, i campi di concentramento (così erano le prime riserve!…), l’eutanasia con la sterilizzazione.
Ebbene, ora va tutto più o meno bene? No, perche l’ironia della sorte ha voluto che le terre dove gli indiani sono rinchiusi (ne vive ancora lì il 35%), si sono rivelate quelle più ricche di uranio, carbone, gas naturale, metalli preziosi, materie prime utilissime alle industrie, per cui le multinazionali del profitto stanno cercando con tutti i mezzi di accappararsele, e stanno anche progettando di prosciugare, per il proprio tornaconto, le falde acquifere nel South Dakota, nelle terre dei Navajo, degli Opi, dei Cheyenne del nord, dei Crow, ecc., rendendo le terre, di fatto, inabitabili.
Alcuni intellettuali indiani sono critici anche verso il marxismo perchè, secondo loro, lo sviluppo delle forze produttive porterà ad una maggior industializzazione, con relativo aumento del consumo di materie prime, che, a sua volta, porterà più velocemente al collasso del globo. Essi non fanno alcuna distinzione tra marxismo e comunismo reale, e vedono nella storia di quest’ultimo la continuazione dell’ingordigia del capitalismo. Molto focalizzati sulla discriminazione razziale subita, essi non sanno che Marx era per l’indipendenza delle nazioni e la salvaguardia dei popoli indigeni, e non conoscono la visione marxista del rapporto tra uomo e natura; qualsiasi industrializzazione ne dovrebbe, ed urge che perlomeno ne dovrà, tenere conto se l’uomo vuole continuare a vivere su questo pianeta.

tratto da: https://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o48111:e1

Non solo i Nazisti di Hitler – La selezione della razza nell’America del XX secolo e la soluzione finale contro i Nativi Americani iniziata il 31 gennaio del 1876

 

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Non solo i Nazisti di Hitler – La selezione della razza nell’America del XX secolo e la soluzione finale contro i Nativi Americani iniziata il 31 gennaio del 1876

Il 31 gennaio 1876 gli Stati Uniti ordinano ai Nativi Americani di trasferirsi nelle riserve, quasi tutte le tribù erano state decimate, sconfitte e massacrate e la distruzione dei bisonti le avevano private delle fonti di sostentamento dei veri Americani.

Le riserve furono prima dei campi di rieducazione, poi dei ghetti, infine delle isole di residenza, dove gli indiani d’America potevano mantenere le loro usanze. Ma solo a parole. Non avevano diritto al voto (acquisito solo nel 1924).

La prima legge sulla sterilizzazione forzata (che riguardava tutta la popolazione non solo quella indiana) entrò in vigore nel 1907 nell’Indiana. Era un periodo storico dove tale pratica era diffusa anche in stati come Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia, diffusa al punto che al processo di Norimberga ai tedeschi non fu contestata come crimine contro l’umanità la campagna di sterilizzazione forzata attuata in Germania a partire dal 1938.

Successivamente, questa prassi fu adottata da altri ventinove stati, tra cui la Virginia nel 1924, e continuò fino al 1979. Le leggi imponevano la sterilizzazione alle persone “socialmente inadeguate”: malati di mente, “promiscui”, albini, alcolizzati, talassemici, epilettici, immigrati come irlandesi e italiani, afroamericani e messicani. La sola California sterilizzò oltre 20 mila persone, un vero record. Questa pratica fu imposta pesantemente anche sui nativi americani che dopo le riserve aveva visto la loro popolazione ridursi in modo esponenziale.

Lee Brightman, presidente dei “Nativi Americani Uniti”, stima che su una popolazione nativa di 800 mila persone, il 42 per cento delle donne in età fertile e il 10 per cento degli uomini siano già stati sterilizzati.

La prima inchiesta ufficiale sulla sterilizzazione dei popoli nativi condotta nel 1975 dalla dottoressa Conie Uri, medico choctaw, per l’allora senatore James Abourezk, documento che 3.406 donne indiane erano state sterilizzate nelle strutture per la Sanità indiana di Oklahoma City, Phoenix, Aberdeen.

In pieno secolo XX, gli USA hanno messo in marcia un piano di sterilizzazione forzata delle donne native, chiedendo loro di firmare formulari scritti in una lingua che non comprendevano, minacciandole del taglio dei sussidi o, semplicemente, impedendo loro l’accesso ai servizi sanitari.

Dopo la seconda guerra mondiale, l’opinione pubblica verso l’eugenetica ed i relativi programmi di sterilizzazione è diventata più negativa, alla luce del collegamento con le politiche di genocidio attuate dalla Germania nazista, anche se un numero significativo di sterilizzazioni è proseguito in alcuni stati fino alla fine degli anni sessanta, ed in particolare il Consiglio di eugenetica dell’Oregon, più tardi rinominato commissione di protezione sociale, è esistito fino al 1983, con l’ultima sterilizzazione forzata verificatesi nel 1981.

 

tratto da: https://www.ilmemoriale.it/cultura/2017/09/01/selezione-della-razza-nellamerica-del-xx-secolo.html

Cavallo Pazzo, incubo dei bianchi, eroe dei Sioux

 

Cavallo Pazzo

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Cavallo Pazzo, incubo dei bianchi, eroe dei Sioux

 

Quando nacque, sua madre lo chiamò Cha-o-Ha, che vuol dire Tra-gli-Alberi, perché l’aveva partorito in un bosco. Ma lui, una volta adulto, decise di assumere il nome di suo padre, morto prematuramente, Tashunka Wikto, che i bianchi tradussero in Crazy Horse, cioè Cavallo Pazzo. Ebbe una vita breve ma leggendaria: fu capo di una tribù dei Sioux, guidò con Toro Seduto la resistenza indiana, umiliò l’esercito degli Stati Uniti nella battaglia di Little Big Horn; infine si arrese, vinto da un inverno rigidissimo più che dalle Giubbe Blu. 
Crazy Horse morì il 5 settembre 1877, a Fort Robinson (Nebraska), ucciso a baionettate da un soldato quando era già inerme e prigioniero. Idealmente, quella data segnò la fine delle “guerre indiane” nelle Grandi Pianure, clou dell’epopea del Far West. In realtà il sangue continuò a scorrere episodicamente per altri 13 anni.
Ma gli scontri dopo il 1877 furono solo colpi di coda di un mondo morente: i native americans avevano già perso. Infatti Cavallo Pazzo era l’uomo-simbolo dell’orgoglio indiano: aveva guidato di persona l’attacco di Little Big Horn; era rimasto in armi anche quando altri capi sioux si erano defilati; si diceva che fosse invulnerabile alle pallottole.
Se era morto lui, per gli altri Sioux non c’era futuro.
    La foto di Cavallo Pazzo
Col tempo, Crazy Horse è diventato un’icona come Garibaldi e Che Guevara: nel Sud Dakota stanno scolpendo a sua immagine un intero monte, che sarà la statua più grande del mondo (vedi box). Ma chi era, al di là del mito, l’ex Cha-o-Ha? Sappiamo che nacque sul fiume Cheyenne “nell’anno in cui la tribù catturò cento cavalli”, corrispondente al 1840-41 del nostro calendario. Che aveva i capelli insolitamente chiari per un indiano. Che sua madre Coperta Sonante era figlia di un guerriero illustre, Bisonte Nero. Che era di carattere schivo e odiava le fotografie, tanto che (a differenza di altri capi indiani) di lui non esistono immagini sicure. Infine che faceva parte degli Oglala, una delle sette tribù dei Sioux, che in realtà non si chiamavano così ma Lakota: Sioux (cioè “Mezzi Serpenti”) era un epiteto spregiativo coniato da indiani rivali.
Le guerre fra bianchi e Sioux erano iniziate molto prima che Coperta Sonante partorisse il futuro mito, cioè nei primi anni dell’800. Pomo della discordia, all’inizio, fu la valle del Mississippi, che i pionieri volevano in esclusiva. Ma nel 1810 si giunse un accordo, detto “della Prateria del Cane”: la riva est del fiume era dei bianchi, l’altra degli indiani. L’equilibrio resse fino al 1862. Poi l’incendio divampò: la scintilla fu il Bozeman Trail, una pista tracciata in territorio indiano per raggiungere le zone aurifere del Montana. I Sioux si ribellarono, perché il traffico di carri sulla pista faceva fuggire i bisonti. Il primo “ribelle” si chiamava Piccolo Corvo: fu catturato e ucciso, ma il conflitto continuò. Altre guerre infiammavano il West, ma per i bianchi nessuna era dura come quella sul Bozeman Trail: benché presidiata da fortini, la pista era impraticabile.
Un ritratto di Cavallo Pazzo   
Così fu decisa la “soluzione finale”. William Sherman, comandante delle truppe del West, la teorizzò con lucido cinismo: “Ai Sioux dobbiamo rispondere con una violenta aggressività, anche a costo di sterminare donne e bambini”. Alle parole seguirono i fatti: l’episodio più atroce (1864), che ha ispirato anche una canzone di Fabrizio De André, non toccò i Sioux ma i loro vicini Cheyennes: un villaggio indiano sul torrente Sand Creek (Oklahoma) fu attaccato dai soldati del colonnello John Chivington, che massacrarono, stuprarono, scalparono e mutilarono 150-200 persone inermi, senza riguardo per il sesso o per l’età. Scalpi e genitali degli uccisi furono esposti come trofei al teatro di Denver, in un’allucinante esibizione di sadismo.
Fu qui che entrò in scena Cavallo Pazzo, prima a fianco di Nuvola Rossa, poi di Toro Seduto, infine da solo. Il suo esordio (1865) fu un attacco a un ponte; seguì (1866) un agguato alla guarnigione di Fort Kearny (Wyoming). La guerriglia andò avanti per due anni, poi i bianchi vennero a patti: i fortini sarebbero stati sgomberati e bruciati. La guerra sembrava chiusa con la vittoria degli indiani, invece si era solo spostata su un terreno più subdolo: se non si riusciva a sterminare i Lakota, si poteva però privarli dei bisonti, loro unica risorsa. Così la caccia, che i bianchi praticavano già dal 1850, diventò una strage sistematica e incoraggiata. Campione dell’impresa fu William Cody, detto Buffalo Bill, che tra il 1868 e il 1872 uccise da solo 4mila capi.
La guerra aperta riprese quando (1874) si scoprì l’oro nelle Black Hills, colline che i Sioux consideravano sacre. Il “generale” (in realtà colonnello) George Custer, un avventuriero in divisa, già finito davanti alla Corte marziale per reati militari, cercò di occupare la regione. Ma Custer era odiatissimo dagli indiani, che lo chiamavano “Figlio della stella del mattino” per la sua abitudine di attaccare i villaggi all’alba, quando tutti dormivano. Perciò la sua entrata in scena fece da collante: ai Sioux, guidati da Toro Seduto e da Cavallo Pazzo, si affiancarono i Cheyennes, memori del Sand Creek. Si arrivò così a Little Big Horn, dove l’odiato ufficiale fu ucciso con quasi tutti i suoi soldati. Era il 25 giugno 1876: per Crazy Horse fu il trionfo.
Ma durò poco, perché l’inverno seguente riuscì dove Custer aveva fallito: piegati dal freddo e dalla fame, gli indiani della coalizione si rassegnarono a perdere le Black Hills. In primavera Toro Seduto partì esule per il Canada.
    Guerrieri Sioux
Cavallo Pazzo combatté la sua ultima battaglia nel gennaio 1877, poi a maggio si consegnò in un campo profughi: di fatto era la resa. Mesi dopo, invitato dai soldati a Fort Robinson per discutere il futuro degli Oglala, accettò e non tornò più. La versione ufficiale dice che morì durante una rissa: i soldati avrebbero cercato di chiudere l’ex-guerrigliero in cella; lui avrebbe reagito tentando la fuga e un militare, per fermarlo, lo avrebbe colpito con la baionetta. In realtà pare che quando fu colpito Crazy Horse fosse già stato immobilizzato a mani nude da un altro soldato, un ausiliario. Per un’amara beffa del destino, questi era un sioux passato al nemico: si chiamava Piccolo Grande Uomo; Cavallo Pazzo lo conosceva fin dall’infanzia.

Uno sguardo all’attualità

Negli Stati che furono teatro dell’epopea Sioux, oggi gli indiani sono una piccola minoranza: nel Minnesota rappresentano solo l’1,1% della popolazione; un po’ più popolati sono lo Wyoming (3,06%), il Nord Dakota (5,3%), il Nebraska (6,32%), il Montana (7,36%) e soprattutto il Sud Dakota (9,06%). I Sioux Oglala, eredi diretti dei guerrieri di Cavallo Pazzo, sono sparsi in 17 riserve del Nebraska e del Sud Dakota; in quest’ultimo Stato c’è la più importante (Pine Ridge). Secondo stime recenti, fra gli abitanti delle riserve l’85% risulta disoccupato e il 97% vive sotto il livello di povertà; la speranza di vita oscilla fra i 40 e i 50 anni, mentre il tasso di suicidi supera di 4 volte la media nazionale americana. Oggi tutte le terre ex-indiane delle Grandi Pianure sono utilizzate per l’agricoltura estensiva (grano, mais, soia, girasoli) e l’allevamento (bovini, suini, ovini), attività particolarmente floride nel Nebraska. Il Sud Dakota è anche un grande produttore di alcol etilico. Nel Montana si estrae tuttora oro, nel Wyoming uranio e gas, nel Nord Dakota un po’ di petrolio. Di tutte queste attività non beneficiano gli indiani, che vivono di turismo e di sussidi pubblici.

Un memorial per Cavallo Pazzo

A ricordo di Cavallo Pazzo, nelle Black Hills (Sud Dakota) sta sorgendo la statua più grande del mondo, che a lavori finiti sarà alta 172 metri e larga 195. In pratica, un’intera montagna di granito, rimodellata a immagine del mitico capo degli Oglala. L’idea del monumento kolossal fu di uno scultore di Boston morto nel 1982, Korczak Ziolkowski, che lavorò al progetto per 34 anni. Tutto nacque dal fatto che dal 1927 al 1940 un altro monte delle Black Hills (il Rushmore) era stato scolpito con le teste di quattro presidenti degli Stati Uniti (Washington, Jefferson, Roosvelt e Lincoln).


La grande scultura dedicata a Cavallo PazzoGli indiani avevano interpretato l’iniziativa come un insulto: le Black Hills, per loro, erano sempre state sacre; e proprio l’invasione di quelle colline aveva provocato la “grande guerra” del 1876-77, costata la vita di Cavallo Pazzo. Così, d’accordo col capo sioux Henry Orso-in-Piedi, Ziolkowski si offrì di controbattere con una scultura ancor più grandiosa: le teste dei presidenti sono alte 18 metri, il futuro Cavallo Pazzo di granito doveva essere 10 volte più grande. I lavori, iniziati nel 1948, oggi sono a circa metà dell’opera: a sostenere l’iniziativa, dopo la morte dello scultore, è una fondazione (vedi www.crazyhorse.org) che si autofinanzia con i biglietti di entrata al cantiere, diventato un’attrazione. Nel 1999 tra i turisti in visita è arrivato, per la prima volta, anche un presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton.

 

 

tratto da: https://www.farwest.it/?p=5856

La guerra sconosciuta dei Nativi Americani contro i colossi petroliferi

 

Nativi Americani

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La guerra sconosciuta dei Nativi Americani contro i colossi petroliferi

Da più di sei mesi centinaia di Nativi americani manifestano lungo il tracciato di un oleodotto in costruzione vicino alla riserva di Standing Rock Sioux, tra il North Dakota e il South Dakota. Si oppongono alla costruzione dell’oleodotto fin dal 2014, quando per la prima volta fu presentato il progetto, sostenendo che profanerà le terre sacre e metterà in pericolo le risorse idriche.

Il 2 settembre scorso, accompagnati dall’intenso rullo dei tamburi, i rappresentanti di più di 50 ‘Prime Nazioni’ hanno firmato nella città di Vancouver, in Canada, il Trattato di alleanza contro le sabbie bituminose. Questa collaborazione si propone di bloccare tutti i progetti di costruzione degli oleodotti il cui passaggio è previsto nelle terre di queste popolazioni: la Trans Canada’s Energy East pipeline, la Trans Mountain expansion, la Line 3 pipeline, e il Northern Gateway.

I popoli indigeni – ha affermato uno dei Capi Indiani firmatari – non sopporteranno più che vengano realizzati sui loro territori dei progetti pericolosi per le popolazioni e per il clima. Forti del loro diritto all’auto-determinazione, hanno deciso tutti insieme di assumersi le loro responsabilità nei confronti della terra, delle acque, delle persone.

Questo Trattato impegna i firmatari a darsi reciproco sostegno nella lotta contro l’espansione delle estrazioni petrolifere, e a lavorare insieme per orientare la società verso stili di vita più sostenibili. I popoli delle Prime Nazioni, gli ambientalisti e altri gruppi coinvolti nella controversia sostengono che l’estrazione del petrolio e il suo trasporto con oleodotti, camion cisterne e treni aumentano i rischi di sversamenti catastrofici, che minacciano gli ecosistemi terresti e marini; inoltre impediscono di raggiungere i traguardi stabiliti dai trattati sul clima.

L’opposizione all’oleodotto Dakota Access si trasforma in un movimento indigeno globale. Il 24 settembre Dave Archambault II, in rappresentanza della Tribù dei Sioux di Standing Rock, si  presenta davanti ai 49 membri del Consiglio delle Nazioni Unite sui Diritti Umani, a Ginevra, e chiede ai presenti di unirsi ai manifestanti a Standing Rock per fermare la costruzione dell’oleodotto. Durante l’estate il movimento è cresciuto fino a contare migliaia di persone.

A STANDING ROCK I “PROTETTORI DELLE ACQUE” CANTANO PER L’ACQUA DI FRONTE A UOMINI ARMATI

Intanto ha inizio la repressione contro gli accampamenti di protesta. Scontri con la polizia militarizzata. Blindati e gas lacrimogeni a fine ottobre disperdono 300 dimostranti in un accampamento allestito su terreni agricoli privati. Ancora un altro attacco portato nella tarda notte del 20 novembre dalla polizia, che ha bersagliato con cannoni ad acqua i manifestanti mentre le temperature erano scese parecchio sotto lo zero. I Nativi e gli ambientalisti hanno riferito di essere stati attaccati anche con proiettili di gomma, gas lacrimogeni e spray al pepe. L’ultimo attacco risale a venerdì scorso, in concomitanza con il Black Friday, il giorno più commerciale dell’anno, nel corso di una manifestazione tenuta presso il Centro commerciale della capitale del Nord Dakota nel tentativo di attirare più attenzione al progetto del gasdotto. Più di trenta attivisti sono stati arrestati, facendo salire a 450 il numero dei manifestanti arrestati da agosto.

I NATIVI SFIDANO L’ORDINE FEDERALE DI LASCIARE L’ACCAMPAMENTO DI PROTESTA ENTRO IL 5 DICEMBRE

Sabato scorso i Nativi hanno manifestato chiaramente la loro intenzione di non lasciare l’accampamento di protesta contro il Dakota Access, dopo che le autorità degli Stati Uniti in una lettera hanno imposto lo sgombero entro il 5 dicembre. Lo hanno comunicato durante una conferenza stampa gli organizzatori dall’accampamento principale di protesta, dove sono accampati circa 5000 persone. Ai Protettori delle acque che dicono “Noi siamo custodi di questa terra. Questa è la nostra terra e non è possibile rimuoverci”. “Abbiamo tutto il diritto di stare qui per proteggere la nostra terra e per proteggere la nostra acqua”. “La Rimozione Forzata e l’oppressione dello Stato? Questa non è una novità per noi come indigeni”, noi rispondiamo che la storia che avete imparato è ormai scritta.

L’unico migrante privilegiato al mondo, il famigerato viso pallido, è sbarcato sulle vostre terre, ha distrutto e massacrato. Ha mentito sulle sue nefandezze, travestito da prode cowboy. Forse domani vincerà questa vostra ultima guerra perché quelli del petrolio non perdono mai. Ma la vostra sarà una magnifica sconfitta, che forse risveglierà le coscienze addormentate.

 

Fonte: http://zapping2017.myblog.it/2017/08/11/la-guerra-sconosciuta-dei-nativi-americani-contro-i-colossi-petroliferi/

 

La voce degli Indiani d’America: “L’uomo bianco è come un serpente che si mangia la coda per vivere”.

 

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La voce degli Indiani d’America: “L’uomo bianco è come un serpente che si mangia la coda per vivere”.

“L’uomo bianco è come un serpente che si mangia la coda per vivere. E la coda diventa sempre più corta. Le nostre usanze sono diverse dalle vostre. Noi non viviamo bene nelle vostre città, che sembrano un’infinità di nere verruche sulla faccia della terra. La vista delle città dell’uomo bianco fa male agli occhi dell’uomo rosso, come la luce del sole che colpisce gli occhi di chi emerge da una grotta buia.

Nelle città dell’uomo bianco ci si sforza sempre di superare in velocità una valanga. Il rumore sembra perforare le orecchie. Ma che senso ha vivere se non si riesce a sentire il verso solitario del tordo o il gracidare delle rane di notte intorno ad uno stagno? Ma io sono un uomo rosso e non capisco. Io preferisco il vento che dardeggia sulla superficie di uno stagno e il profumo del vento stesso, purificato da uno scroscio di pioggia a mezzogiorno.

L’aria è preziosa per l’uomo rosso, perchè tutte le cose condividono lo stesso respiro; gli animali, gli alberi, e l’uomo, partecipano tutto dello stesso respiro. L’uomo bianco non si preoccupa dell’aria fetida che respira. Come un uomo che ormai soffre da molti giorni, è insensibile al tanfo.

Tutte le cose sono collegate. Tutto ciò che accade alla terra accade ai figli e alle figlie della terra. L’uomo non ha intrecciato il tessuto della vita; ne è solamente un filo. Tutto ciò che egli fa al tessuto, lo fa a se stesso. IL DIO DELL’UOMO BIANCO GLI DIEDE IL POTERE SUGLI ANIMALI, SUI BOSCHI E SULL’UOMO ROSSO, per qualche scopo preciso, ma questo destino è un mistero per l’uomo rosso.

Noi forse potremmo arrivare a capire, se sapessimo che cosa sogna l’uomo bianco, quali sono le speranze di cui parla ai propri figli nelle lunghe notti d’inverno, quali sono le visioni che marcano a fuoco i suoi occhi e che questi desidereranno all’indomani. I sogni dell’uomo bianco sono ignoti, noi ce ne andremo sulla nostra strada”.

Capo Seattle Degli Suquamish, 1853

 

“I nostri figli devono andare a scuola per essere civilizzati. Lì vengono a conoscenza delle chiese. Sembra che esse siano state costruite con l’intenzione di addossarsi colpe l’uno con l’altro. Quando la gente trova da ridire sulle chiese anche Dio viene coinvolto nelle loro contese.

La chiesa di mio nonno non era costruita da uomini: quindi lui non avrebbe mai potuto insegnarmi a litigare con Dio. La nostra chiesa era la natura. Abbiamo perso così tanto. Sebbene le circostanze fossero contro di noi, la colpa è anche nostra. Non abbiamo saputo affrontare lo shock che l’uomo bianco ci inflisse.

Sono nato in una cultura che viveva in case aperte a tutti.Tutti i figli di mio nonno e le loro famiglie vivevano in un’abitazione di 26 metri e mezzo di lunghezza, vicino alla spiaggia, lungo una insenatura. Le loro camere da letto erano separate da una tenda composta di canne, ma un unico fuoco comune nel mezzo, serviva ai bisogni culinari di tutti. In case come queste, la gente imparava a vivere e a rispettare i diritti di ognuno.

I bambini dividevano i pensieri del mondo degli adulti e si trovavano circondati da zie e zii e cugini che li amavano e non li minacciavano. Oltre a questa reciproca accettazione, c’era un profondo rispetto per ogni cosa presente in natura che li circondasse. Per mio padre la terra era la sua seconda madre. Era un dono del Grande Spirito e l’unico modo di ringraziarlo era quello di rispettare i suoi doni.

L’uomo bianco invece ama solo le cose che possiede: non ha mai imparato ad amare le cose che sono al di fuori e al di sopra di lui. In realtà o l’uomo ama tutto il creato o non amerà niente di esso. La mia cultura dava valore all’amicizia e alla compagnia, e non guardava alla privacy come a una cosa cui tenersi aggrappati, poiché la privacy costruisce muri su muri e promuove la sfiducia.

La mia cultura viveva in grandi comunità familiari, e fin dall’infanzia le persone imparavano a vivere con gli altri.La mia gente non dava valore all’accaparramento di beni privati: tale azione era disonorevole per la nostra gente.L’indiano guardava a tutte le cose presenti in natura come se appartenessero a lui e supponeva di dividerle con gli altri e di prendere solo quelle di cui aveva bisogno. Ognuno ama dare nello stesso modo in cui riceve. Nessuno desidera continuamente ricevere.

Tra poco sarà troppo tardi per conoscere la mia cultura, poiché l’integrazione ci sovrasta e presto non avremo valori se non i vostri. Già molti fra i nostri giovani hanno dimenticato le antiche usanze, anche perché sono stati presi in giro con disprezzo e ironia e indotti a vergognarsi dei loro modi indiani”.

Testo di Capo Dan George

La differenza tra un cacciatore bianco e un cacciatore indiano

cacciatore

 

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La differenza tra un cacciatore bianco e un cacciatore indiano

“Un tempo noi eravamo felici nella nostra terra e solo raramente eravamo affamati.

Creature a 2 e 4 gambe vivevano insieme in pace come fratelli, e tutti avevano più del necessario. Ma poi vennero i Wasichu, gli uomini bianchi e fecero delle piccole isole nella terra per noi (riserve) ed altre piccole isole per le creature a 4 zampe, e queste isole divennero sempre più piccole…

Io posso ancora ricordare quei tempi, quando c’erano così tanti bisonti , che noi non potevamo contarli. Ma vennero sempre più uomini bianchi e li uccisero, fino a che giacevano là, dove le mandrie di bisonti avevano pascolato, ormai solo mucchi di ossa sbiancate.

I bianchi non uccidevano per sostentamento, ma per l’oro, che li rende pazzi. Essi prendevano solo le pelli, per venderle.
Talvolta non prendevano neppure queste: 

Ammazzavano per il piacere di uccidere.
 

Quando noi andavamo alla caccia del bisonte, abbattevamo solo quel tanto che ci serviva per vivere. (Alce Nero – Stregone indiano).

IL CACCIATORE INDIANO SI RIVOLGE AL CERVO ABBATTUTO (preghiera):
 

Mi dispiace di averti dovuto uccidere, piccolo fratello.

Ma io ho bisogno della tua carne, perché i miei figli soffrono la fame. Perdonami piccolo fratello.

Io voglio onorare il tuo coraggio, la tua forza e la tua bellezza – guarda!

Io appendo le tue corna a questo albero, ogni volta che vi passerò davanti, penserò a te e renderò onore al tuo spirito.

Mi dispiace di averti ucciso, perdonami piccolo fratello.
Guarda, in tua memoria io fumo la pipa, io brucio questo tabacco.
Jimalee Burton

Trovi qualche differenza con l’andare a caccia dell’uomo bianco?

“Gli animali che il Grande Spirito ha posto in questa terra, devono andarsene. Solo gli animali domestici, gli animali addomesticati dall’uomo, sono autorizzati a vivere, per lo meno fino a che non li si conduce al macello.

Questa tremenda superbia dell’uomo bianco, che si arroga di essere più di Dio, più della natura!

Il bianco dice; “Io lascio vivere questo animale, perché mi frutta denaro” ed egli dice: “Quell’animale deve morire, non posso trarne alcun guadagno, il posto che occupa posso utilizzarlo meglio. Solo un cojote morto è un buon cojote.”

Cervo Zoppo
 
Infine alcune immagini della “caccia” dell’uomo bianco, una caccia che nulla ha a che fare con la sopravvivenza, ma che al contrario di quella indiana è impregnata d’odio, di violenza ingiustificata e di pura esibizione dei trofei:
Nella prima foto possiamo osservare un massiccio sterminio di bisonti da parte dei nostri antenati bianchi, quelli che vedete sono tutti teschi…
Agendo in questo modo barbaro, arrogante e perfido,  nostri antenati bianchi non solo si divertivano ad uccidere animali indifesi come passatempo, ma facevano in modo che i tanto odiati indiani non potessero più sopravvivere, in quanto i bisonti per gli indiani significavano cibo, abiti, utensili e pelli per costruire le loro tende.
 Risultati immagini per strage bufali
Qui un ricco uomo bianco espone fiero le sue vittime innocenti.
Immagine correlata
Qui una donna bianca, che in quanto donna, dovrebbe rappresentare la mente sensibile e amorevole, dimostra invece mancanza di sensibilità ed anch’essa va fiera della sua impresa tutt’altro che eroica.
Immagine correlata
Una bestia ha ucciso un’altra bestia…
Risultati immagini per trofei di caccia
Lo scopo del cacciatore bianco non è uccidere per sopravvivere, ma uccidere per divertirsi e quanti più animali egli abbatte, tanto più egli si sente fiero di sé.
Immagine correlata
Se il nostro “eroe” non avesse avuto in mano un fucile sarebbe finita diversamente.
Risultati immagini per caccia fagiano
Il culto della violenza e della fredda crudeltà viene passano in eredità fin dalla più tenera età, affinché i bambini trovino normale tutto questo.
Immagine correlata
Possiamo riassumere tutto questo con ASSENZA DI AMORE.
Assenza di Amore che, ci sta portando inevitabilmente verso la catastrofe, tutto ciò che accade oggi è conseguenza delle nostre azione, tutte le brutte notizie che sentiamo oggi sugli omicidi, sui suicidi, sulle violenze, sulle ingiustizie sono le cause del frutto avvelenato che ci è stato tramandato dalla nostra falsa civiltà.
Violenza genera violenza, e quando le nostre azioni sono malvagie noi stessi siamo destinati a perire a causa della nostra malvagità.
Il mondo oscuro d’oggi ne è l’esempio…
Stiamo semplicemente raccogliendo i frutti che abbiamo seminato.
Di Daniele Reale
tratto da: Il Nuovo Mondo

 

C’è un Indiano d’America in prigione da 40 anni. La sua colpa? Aver difeso il suo popolo! …E da 40 anni nessuno, proprio nessuno, ne parla!!

 

Indiano

 

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C’è un Indiano d’America in prigione da 40 anni. La sua colpa? Aver difeso il suo popolo! …E da 40 anni nessuno, proprio nessuno, ne parla!!

 

Chi è Leonard Peltier?

Leonard Peltier è un nativo americano in carcere da 40 anni per difendere i diritti del suo popolo. Nasce nel 1944 e già dalla sua infanzia capisce che la vita per i nativi d’America è dura, tra miseria, razzismo, emarginazione.

Cresce anche in un istituto dove conosce la prima “istituzione totale”, ma ha un buon carattere e la sua gioventù è carica di socialità, mentre impara a riparare vecchie automobili. Ma sono gli anni in cui lacomunità indiana comincia ad alzare la testa e si organizza.

Nasce l’AIM, American Indian Movement, di cui dopo poco Peltier entra a far parte. Nel 1973 oltre trecento indiani d’America tengono testa agli uomini del governo, che per scacciare i Lakota dal loro territorio, si erano alleati con il capo di un’altra tribù, Dick Wilson, che con una sorta di polizia privata mieteva terrore nella comunità indigena con pestaggi ed omicidi.

“Quando ci arrestarono, i soldati toccavano le donne davanti agli uomini, cercando di farci reagire così da poter giustificare le nostre esecuzioni.”
 
Leonard Peltier
 

Lo stesso Wilson stava trattando in gran segreto la vendita di parte delle terre della riserva dei Lakota Oglala di Pine Ridge, nel sud Dakota, agli Stati Uniti.

Consapevole della fierezza e dell’ostinazione delle popolazione native, il governo statunitense cerca in tutti i modi di cacciare i Lakota dal loro territorio per impossessarsi dei loro giacimenti. E’ un periodo durissimo, per due anni quella regione vede una presenza spropositata di agenti dell’FBI, e i morti tra i nativi sono almeno 60.

“Quelli di noi che furono riconosciuti come capi, vennero pestati nelle celle della prigione militare dell’esercito.”
 
 

Nel giugno del 1975 dalla comunità di Oglala viene lanciato un appello all’AIMperchè qualcuno vada ad aiutarli, la tensione è altissima. Arrivano 17 membri del AIM, di questi solo 6 sono uomini, tra loro c’è Leonard Peltier. Il 26 Giungo 1975 nei pressi della comunità indiana si presentano in auto, senza alcun segno di riconoscimento, due agenti dell’FBI: la scusa è la ricerca di un uomo che ha rubato degli stivali.

E’ probabilmente una trappola, tanto che nel giro di poco tempo si scatena una sparatoria tremenda con centinaia di agenti e militari.
 

Gli Oglala Lakota si difendono, rispondono al fuoco e alla fine sul terreno restano tre corpi: due agenti dell’FBI e un indigeno.

Tutta la comunità riesce a scappare e a nascondersi, si scatena una caccia all’uomo di dimensioni impressionanti. Per l’indiano americano morto non fu aperta alcuna indagine, mentre per i due agenti vennero imputate tre persone.

I primi due arrestati vengono processati ed assolti sulla base della legittima difesa, rimane il terzo accusato, Leonard Peltier, il quale nel frattempo è scappato in Canada. Su di lui si riversa tutta la rabbia dell’FBI, è il capo espiatorio.

Viene arrestato in Canada il 6 Febbraio 1976 e dopo pochi mesi estradato sulla base di false testimonianze, tanto che successivamente il governo canadese protesterà per i modi in cui si ottenne l’estradizione. Ma oramai Leonard Peltier è nelle mani dei coloro che vogliono letteralmente vendicare i due agenti morti.

Nel suo libro “La mia danza del Sole”, Leonard Peltier racconta:

A Milwaukee rimasi coinvolto in un episodio strano e inquietante.
Stavo mangiando in una trattoria con un paio di fratelli indiani, quando una coppia di uomini seduti al tavolo accanto cominciò a indicarci ridendo rumorosamente e facendo battute razziali.
Non potevo sapere che erano poliziotti in borghese.
 
Ci alzammo per andarcene, ma quei due ci aspettavano fuori, proprio davanti alla porta, impedendoci di uscire.
 
– Cosa c’è da ridere? – chiesi.
 
Ero furioso e pronto a battermi, ovviamente è quello che aspettavano.
 
Non appena parlai, prima ancora di poter alzare una mano, mi trovai due Magnum calibro 357 puntate alla testa. (…cercavo di ripararmi mentre loro mi colpivano a sangue. Venni poi a sapere che, a forza di picchiarmi, uno dei due, poverino, si era ferito una mano e aveva dovuto chiedere due giorni di  riposo.”
 
 

Questa volta il processo viene organizzato diversamente: si svolge nella città di Fargo, storicamente anti-indiana, la giuria è formata da soli bianchi e il giudice è noto per il suo razzismo.

Il processo prende ben altra piega e Peltier viene condannato a due ergastoli consecutivi. Durante il processo non si tiene conto delle prove a suo favore, ma solo di testimonianze manipolate, vaghe e contraddittorie.

Dopo cinque anni, accurati esami balistici riescono a provare che i proiettili che uccisero i due agenti non appartenevano all’arma di Leonard, e alcuni dei testimoni che lo avevano accusato ritirano le loro dichiarazioni, confessando di essere stati minacciati dall’FBI.

Leonard Peltier nel suo libro scrive:

“E’ così che fanno. Ti prendono di mira, t’incastrano, t’arrestano, ti picchiano a sangue, ti appioppano un’accusa falsa. Poi ti trascinano in prigione e in tribunale e t’impoveriscono con le spese legali.”

A Leonard è stata negata la possibilità di avere una revisione del processo, nonostante le prove che dimostrano la sua innocenza. Non gli è stato nemmeno permesso di presenziare ai funerali di suo padre, di sua madre, dei suoi zii. Per almeno due volte si è cercato di ucciderlo in carcere, mentre le sue condizioni di salute sono difficili. Operato ad una mascella solo grazie alle pressioni popolari, quasi cieco da un occhio, malato di diabete e di prostata, ma Leonard Peltierresiste e non rinnega nulla della sua lotta.

A settembre Leonard ha compiuto 70 anni.

Mentre tu stai leggendo Peltier è ancora in prigione. Fino a quando?

Leonard Peltier è in carcere perché lottava per i diritti del suo popolo e la sua storia è un esempio delle tante ingiustizie che avvengono in ogni parte del mondo e che vengono taciute perché “scomode”.

Perché punire con il carcere a vita questo indiano d’america di nome Leonard Peltier?

Per lanciare il messaggio a tutti gli indiani oppressi, per dire loro che se oseranno ribellarsi alla democratica civiltà americana moderna, essi pagheranno e saranno puniti anche se innocenti.

Ma i governi non sanno che gli indiani non hanno mai smesso di lottare, ne mai lo faranno, perché come dicevano i loro antenati, è meglio morire da uomini liberi che vivere da schiavi:


Fonte : Infoaut