Un Cult – Mariangela Melato e Giancarlo Giannini in “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”

 

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Un Cult – Mariangela Melato e Giancarlo Giannini in “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”

Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto con Mariangela Melato e Giancarlo Giannini, regia di Lina Wermuller fu un vero cult degli anni ’70.

Tra le parti più indimenticabili del film sono gli insulti di Gennarino nei confronti di Raffaella, ingiurie in cui si ritrova tutta l’amarezza e la rabbia della classe operaia nei confronti della “razza padrona”. Fra i due, Gennarino è forse il personaggio più complesso: rappresenta il proletariato sfruttato del sud che si ribella all’oppressione del capitalismo industriale del nord. Ma Gennarino non riesce veramente, come molti suoi contemporanei, a stare al passo coi tempi. Non comprende che la rivoluzione operaia dovrebbe andare di pari passo con altre rivoluzioni, una fra tutte quella femminista, e quindi da una parte riscatta la sua classe oppressa ma dall’altra continua a molestare e tormentare Raffaella non solo in quanto rappresentante del capitalismo industriale, ma anche in quanto donna.

Secondo la filosofia pratica di Gennarino, le donne servono solo per lavare le mutande degli uomini. Quindi se da una parte ridiamo, nostro malgrado, quando Gennarino impartisce la sua punizione fatta di calci e schiaffi a Raffaella mentre declama il catalogo delle colpe della sua classe per l’aumento della carne, del parmigiano, della benzina, per gli ospedali che non funzionano, per l’evasione fiscale, dall’altra non possiamo non sentire un profondo disagio quando lo stesso Gennarino schiavizza Raffaella facendole lavare la sua biancheria, facendosi servire, schiaffeggiandola e violentandola. Gennarino non capisce che il sessismo è una forma di oppressione equiparabile allo sfruttamento del proletariato.

Raffaella, d’altra parte, è politicamente conservatrice e razzista, anticlericale ma anche sessualmente emancipata. La sua trasformazione e sottomissione sull’isola, per quanto difficili da comprendere, rappresentano una liberazione dalle convenzioni della sua vita precedente. Forse solo una volta arrivata su un’isola deserta Raffaella si rende conto di quanto sia stata infelice per tutta la sua vita precedente. La teme ma, una volta tornata, non può non riaccostarvisi.

Il film offre uno spaccato di vita impossibile, il ritorno a una condizione primitiva che la regista ha definito ritorno alla natura, ai ruoli tradizionali di uomo e donna. A quarantacinque anni di distanza i due naufraghi fanno ancora discutere: Gennarino a causa del suo atteggiamento violento e sessista e Raffaella per i suoi modi razzisti. Ma, a pensarci bene, non sono poi così anacronistici. Basta dare uno sguardo alle prime pagine per trovare tanti personaggi fin troppo simili a Raffaella e Gennarino anche nel nostro secolo.

Ricordava la mitica Mariangela Melato “per due mesi Lina (Wermuller) ci obbligava, me e Giancarlo, a pestarci a sangue, come ricorderà chi ha visto il film. E non erano botte tanto finte, da cinema, ma erano sberle, calci, spintoni, slogature vere, si era in pieno realismo e ci sono rimaste le ammaccature e i lividi anche tornati a Roma». Nel film la Melato è una ricca signora snob alla milanese e Giannini il proletario al suo servizio: naufraghi, sarà un redde rationem sociale senza esclusione di colpi.

 

 

 

Per non dimenticare: 16 marzo 1968, il massacro di My Lai in Vietnam – Quando i soldati del Glorioso Esercito Americano massacrarono 504 civili inermi, torturando i vecchi, stuprando le donne e ammazzando senza pietà bambini e neonati…!

 

16 marzo

 

 

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Per non dimenticare: 16 marzo 1968, il massacro di My Lai in Vietnam – Quando i soldati del Glorioso Esercito Americano massacrarono 504 civili inermi, torturando i vecchi, stuprando le donne e ammazzando senza pietà bambini e neonati…!

 

Il massacro di Mỹ Lai, conosciuto anche come massacro di Sơn Mỹ, fu un massacro di civili inermi che avvenne durante la guerra del Vietnam, quando i soldati statunitensi della Compagnia C, 1º Battaglione, 20º Reggimento, 11ª Brigata della 23ª Divisione di Fanteria dell’esercito statunitense, agli ordini del tenente William Calley, uccisero 504 civili inermi e disarmati, principalmente anziani, donne, bambini e neonati.

I soldati americani – senza pietà – torturarono i vecchi, stuprarono le donne, uccisero anche i bambini e i neonati

Il massacro avvenne il 16 marzo 1968 a My Lai, una delle quattro frazioni raggruppate nei pressi del villaggio di Sơn Mỹ, sito nella provincia di Quang Ngai e a circa 840 chilometri a nord di Saigon. I soldati si abbandonarono anche alla tortura e allo stupro degli abitanti. Come fu poi riferito da un tenente dell’esercito sudvietnamita ai suoi superiori, fu la vendetta per uno scontro a fuoco con truppe Viet Cong che si erano mischiate ai civili.

“I soldati puntarono le armi alle nostre teste e ci costrinsero a entrare nei rifugi antiaerei. Spinta dall’istinto di proteggerci, e sapendo che i soldati avevano già ucciso i nostri vicini, nostra madre ci fece entrare per primi nel rifugio. Aveva in braccio mia sorella di due anni. Mentre mia madre stava entrando, i soldati presero a lanciare granate. I miei familiari, mia madre e mia sorella, furono fatti a pezzi. Di mia sorella non rimase nulla e io svenni all’interno del rifugio”.

“C’era un uomo con due bimbi al seguito e un cestino in mano che andava incontro ai soldati, sul volto la disperazione. Gridava ‘No VC, No VC, No VC!’. Cercava di dire che loro non erano vietcong. Uno dei militari, non fece una piega. Sparò a tutti e tre”

La strage fu arrestata dall’equipaggio di un elicottero statunitense in ricognizione, che atterrò tra i soldati americani e i superstiti vietnamiti. Il pilota, il sottufficiale Hugh Thompson, affrontò le truppe, ordinando di puntare le armi (dell’elicottero) contro di loro e aprire il fuoco se non si fossero arresi. I soldati a quel punto si fermarono, e Thompson fece evacuare i civili sopravvissuti. Solo il comandante del plotone è stato condannato all’ergastolo per omicidio, ma venne graziato dopo appena tre anni dal presidente Nixon.

By Eles

 

“C’era un uomo con due bimbi al seguito e un cestino in mano che andava incontro ai soldati, sul volto la disperazione. Gridava ‘No VC, No VC, No VC!’. Cercava di dire che loro non erano vietcong. Uno dei militari, non fece una piega. Sparò a tutti e tre”

Un Cult – L’indimenticabile Carosello di Cimabue.

 

Cimabue

 

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Un Cult – L’indimenticabile Carosello di Cimabue.

Dom Bairo è uno storico amaro italiano a base di vino aromatizzato alle erbe molto apprezzato negli anni ’70 e ormai fuori produzione da tempo. L’amaro fu pubblicizzato, dal 1972 al 1976, da una nota serie di caroselli, Le avventure di Cimabue, realizzati gracamente da Paolo Piarerioper la Gamma Film.

Il protagonista delle animazioni era uno sfortunato fraticello di nome appunto Cimabue che veniva costantemente canzonato dai suoi confratelli ogni volta (sempre praticamente) commetteva qualche sciocchezza.

Le avventure di Cimabue” il titolo delle pubblicità dell’amaro  Dom Bairo.

“Oggi fu giorno di letizia per lo convento e per li frati tutti” così iniziavano gli spot con Cimabue che volonterosamente si prestava a fare ogni cosa non combinandone mai una giusta, tanto che i frati gli intonavano in coro: “Cimabue, Cimabue, fai una cosa, ne sbagli due”.

Lui non ci sta e reagisce: “Ma che cagnara, sbagliando si impara!”

Finchè il Frate Priore che è un intenditore tirò fuori un liquore al mondo raro. Anno di grazie 1452, nacque così Dom Bairo, l’uvamaro. Amaro di uva, bontà e benessere di preziose uve silvane ed erbe salutari…

Un Cult: Frankenstein Junior – La mitica cena e la frase motivatrice di Igor…

 

Frankenstein Junior

 

 

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Un Cult: Frankenstein Junior – La mitica cena e la frase motivatrice di Igor…

Una delle scene più divertenti… A cena dopo l’esperimento fallito:

Inga: Oh, dottore, lei non deve torturarsi in questo modo, deve cercare di evitare di pensarci. Guardi lì, non ha nemmeno toccato suo cibo!

Frederick: … ecco! [sbatte le mani sul suo piatto] ora lo ho toccato, contenta?!

Igor: E già… [Con tono pacato e confidenziale] Eh già, non dimenticherò mai il mio povero babbo. Quando questo capitava a lui, be’, sa che cosa soleva dirmi?

Frederick: …Cosa diceva?

Igor: …”Quando la sorte ti è contraria e mancato ti è il successo, smetti di far castelli in aria e va a piangere sul…!”

 

Mostro: Mmm!

Igor: Questo cos’è?

Dr. Frankenstein: Torta di mele della nonna.

Mostro: Mmm!

Dr. Frankenstein: Ti piace eh? Io non vado matto per i dolci, sai, però ti capisco.

Igor: Ma a chi sta parlando?

Dr. Frankenstein: A te. Hai fatto un verso da ghiottone, quindi ti piace il dolce.

Igor: Io non ho fatto nessun verso, ho solo chiesto che cos’era.

Dr. Frankenstein: Ma sì, ti ho sentito.

Igor: Non ero io.

Inga: Io nemmeno.

Dr. Frankenstein: Ah scusate ma, se non eri tu e neppure…

Mostro: Mmm! Mmm! 

Un Cult: Il mitico balletto di Stanlio e Ollio sulle note di At the Ball, That’s All!

 

 

Stanlio e Ollio

 

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Un Cult: Il mitico balletto di Stanlio e Ollio sulle note di At the Ball, That’s All!

I Fanciulli del West nella prima versione italiana e Allegri Vagabondi nella successiva ridoppiata degli anni ’80 è un film straordinario del duo più amato al mondo che si segnala per trovate comiche godibilissime ancorché improbabili, come il pollice accendino di Stanlio che sfregandolo con le altre dita si accende gettando il compare nel più incredulo sconcerto possibile e per le bellissime esibizioni canore dei due.

Ma la scena cult del film è il mitico balletto sulle note di At the Ball, That’s All!

Questo balletto è un vero e proprio inno alla gioia, che riempie il cuore ogni volta che lo si vede…

Amarcord – “La storia infinita”, il capolavoro di Michael Ende, il libro cult dei ragazzi negli anni Ottanta e Novanta, compie 40 anni.

 

La storia infinita

 

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Amarcord – “La storia infinita”, il capolavoro di Michael Ende,  il libro cult dei ragazzi negli anni Ottanta e Novanta, compie 40 anni.

“La storia infinita”: il capolavoro scritto da Michael Ende compie 40 anni

Divenuto famoso soprattutto grazie al lungometraggio di Wolfgang Petersen, il romanzo di Michael Ende è ormai un vero e proprio classico della letteratura per ragazzi: ma quando uscì quarant’anni fa, “La storia infinita” fu molto più di questo. L’indimenticabile regno abitato dai Mordipietra ha dimostrato che, attraverso la fantasia, pensare un altro mondo era possibile.

Esiste un libro che, per chi era ragazzo negli anni Ottanta e Novanta (e non solo), è stato un vero e proprio best seller: si tratta de “La storia infinita”, del tedesco Michael Ende. In Italia arriva nel 1981, poco prima del celeberrimo adattamento cinematografico di Petersen, ma la prima edizione risale al 1979: esattamente quarant’anni fa. Un best seller in senso classico, con 10 milioni di copie vendute e traduzioni in oltre 40 lingue. Ma anche in senso più ampio, perché ha letteralmente reinventato un genere letterario e, soprattutto, perché ha parlato ai più giovani e non di una risorsa fondamentale ma spesso taciuta e dimenticata dall’essere umano: la fantasia.

“Restituire al mondo il suo segreto sacro e all’uomo la sua dignità” e “ridare alla vita magia e mistero”: questa è stata l’ispirazione che ha spinto Ende a scrivere un romanzo che, oltre che ai bambini, parla anche e soprattutto agli adulti. E lo fa non per risvegliare l’infante nascosto dentro ognuno di noi, né per spronarci a guardare il mondo con i suoi occhi: ma per ricordare che, sia da bambini che da adulti, rinnegare l’enorme potere della fantasia e dell’immaginazione non aiuta ad affrontare il mondo in modo più lucido e consapevole. È, secondo Ende, proprio nel guardare alla realtà come se fosse un mondo fantastico che possiamo in ogni momento modificare che sta il vero cambiamento.

Bastiano, l’eroe del libro nel libro

I ventisei capitoli scritti da Ende sono ricchissimi di avventure, personaggi e avvenimenti collegati l’uno agli altri da un abile gioco combinatorio: lo stesso romanzo altro non è che un libro nel libro. È proprio attraverso le pagine di un vecchio tomo rilegato che avviene l’incontro fra il piano “reale” e quello “fantastico”: Bastiano sta scappando dall’ennesimo brutto scherzo dei suoi compagni di classe quando si ritrova nella libreria del signor Coriandoli dove ruba, incuriosito, un misterioso libro intitolato “La storia infinita”.

Bastiano è un bambino solitario e chiuso in se stesso: l’improvvisa morte della madre e l’incomunicabilità con il padre lo spingono a rifugiarsi nella lettura di storie fantastiche. Nel mondo immaginato da Ende è in qualche modo il libro a trovare lui perché, anche se inconsapevolmente, il bambino ha già dentro di sé la scintilla del cambiamento. Un cambiamento che avverrà entrando, letteralmente, nel mondo di Fantàsia, e partecipando attivamente alle sue avventure: leggendo, Bastiano si trova di fronte ad un mondo in pericolo, dove il Nulla rischia di inghiottire tutte le forme di vita e gli abitanti.

Come sempre accade, anche questa storia ha un eroe: inizialmente Bastiano lo identifica in Atreiu, coraggioso bambino guerriero del popolo dei Pelleverde, al quale l’Imperatrice Bambina affida il compito di salvare il suo regno. Proseguendo con la lettura Bastiano si accorge di esserne egli stesso protagonista, riuscendo ad influenzare gli eventi narrati: è qui che i due piani del reale e del fantastico si sdoppiano, quando cioè il bambino si accorge di essere egli stesso l’eroe che salverà Fantàsia.

Ma come ogni atto eroico, anche questo comporta un sacrificio: più si immedesima nella storia, più Bastano perde il contatto con la propria realtà. Quanto più diventa simile ad Atreiu, coraggioso e forte, quanto più perde la cosa più preziosa che ha: i suoi ricordi. Sarà solo alla fine di una lunghissima serie di difficoltà e consapevolezze che Bastiano comprenderà che la vera missione è quella di salvare se stesso, e non Fantàsia.

Vivere la fantasia o fuggire la realtà?

“Ma ci sono cose che non si possono capire con la riflessione, bisogna viverle”: quest’unica frase, tratta dal romanzo, riassume appieno il senso del libro. L’insegnamento più importante che Ende ha regalato alle generazioni cresciute con “La storia infinita” è stato quello che anche la fantasia può essere vissuta: vissuta e sfruttata per creare qualcosa di nuovo, e non semplicemente per fuggire ciò che già esiste e non va come vorremmo. Bastiano vive sulla propria pelle il potere rivoluzionario della fantasia, e riesce a farlo perché essa non è un mero esercizio stilistico o una banale uscita d’emergenza dalla vita.

Michael Ende impiegò molto più tempo del previsto a scrivere il suo romanzo. Alle pressanti richieste dell’editore, raccontava, si trovava a dover rispondere: “Non posso darti niente, Bastiano non torna più indietro. Cosa devo fare? Devo aspettare il momento giusto, quando emergerà dal personaggio stesso la necessità di ritornare”. Ed è stato il ricordo, e quindi il suo legame con il suo essere più profondo e non privo di contraddizioni, a far sì che Bastiano finalmente tornasse.

In questo senso “La storia infinita” è molto più che un fantasy fiabesco, o un libro per ragazzi: molti lo hanno definito un vero e proprio romanzo di formazione. Ma c’è ancora qualcosa che sfugge a questa etichetta: negli anni in cui Ende scrive il libro, le giovani generazioni stanno iniziando a scoprirsi figlie di un mondo che non esiste più, ma che ha lasciato delle tracce indelebili, dolorose, nella loro vita. Molti di questi stessi giovani accusarono lo scrittore di “escapismo”, ovvero di aver suggerito che l’unica alternativa possibile fosse fuggire da quel mondo: Ende non la pensava così. Ende credeva che la fantasia, insieme al ricordo, non cancella l’identità, semmai la forma per il futuro. È soltanto chi non è capace di assumere su di sé tutto il peso di questa avventura impossibile ma estremamente reale, che non esce più da essa.

fonte: https://www.fanpage.it/la-storia-infinita-il-capolavoro-scritto-da-michael-ende-compie-40-anni/

Un Cult: Banana Joe alle prese con la burocrazia…

 

Banana Joe

 

 

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Un Cult: Banana Joe alle prese con la burocrazia…

 

Banana Joe – L’idea del film venne allo stesso attore protagonista Bud Spencer che la propose a Steno chiedendogli se poteva essere interessante per trarne una commedia leggera e divertente. Steno trovò nell’idea eccellente. Una degna continuazione della serie di Piedone.

Bud Spencer con la sua idea denunciava, in modo neanche velato, l’invasione del capitalismo, l’industrializzazione incombente e la burocrazia inefficiente; una critica della società e di alcune tipologie di esseri umani che erano già alla base della saga poliziesca di Piedone.

Bud, una novità, firmò il soggetto con il suo vero nome, Carlo Pedersoli, mentre la sceneggiatura venne scritta da Mario Amendola, Bruno Corbucci e Steno.

Una curiosità: il film uscito l’8 Aprile del 1982 in Italia non ebbe un clamoroso successo, piazzandosi solo al 90° posto dei film più visti della stagione 1981/82. Ebbe un colossale ritorno, invece, in Germania, Spagna ed in Sudamerica, dove è divenuto un vero e proprio cult, tanto che in Germania non è affatto difficile imbattersi in persone che indossano la maglietta o un indumento con la serigrafia di Banana Joe.

Ecco Banana Joe alle prese con la burocrazia…

Un Cult – Il mitico Carosello di Caballero e Carmencita

 

Caballero e Carmencita

 

 

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Un Cult – Il mitico Carosello di Caballero e Carmencita

Caballero e Carmencita – La serie è andata in onda dal 1965 al 1973, realizzata con pupazzi animati dall’agenzia Armando Testa.

Il Caballero Misterioso è un abilissimo pistolero che si muove “nella pampa sconfinata, dove le pistole dettano legge”. E’ in cerca della bellissima Carmencita, che però gli preferisce un altro uomo, con il “baffo che conquista”.

Caballero: Bambina, sei già? mia. Chiudi il gas e vieni via.
Carmencita: Pazzo! L’uomo che amo è un uomo molto in vista. E’ forte, è bruno e ha il baffo che conquista.
Caballero: Bambina, quell’uom son mì… Oh yeh yeh yeh yeh yeh, oh yeh!
Carmencita: Paulista! Amore mio…

Un Cult – Da Amici miei, la mitica supercazzola al vigile…

 

supercazzola

 

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Un Cult – Da Amici miei, la mitica supercazzola al vigile…

In Amici miei la prima vittima di una supercazzola è il vigile Paolini, in procinto di multare in via dei Renai 17 a Firenze (dinanzi al bar Necchi) il Melandri per aver utilizzato in modo inopportuno il clacson. Il malcapitato è impossibilitato a compilare il verbale a causa della proverbiale entrata in scena del conte Mascetti (un Tognazzi leggendario), che gli si rivolge così: “Tarapia tapioco! Prematurata la supercazzola o scherziamo? No, mi permetta, no io… Scusi, noi siamo in quattro, come se fosse antani anche per lei soltanto in due oppure in quattro anche scribai con cofandina, come antifurto, per esempio”.

Preso in contropiede, il vigile porge l’indice al conte, sentendosi dire che il dito “stuzzica e prematura anche”. A dare manforte all’elegante Mascetti ci penserà il giornalista Perozzi, il quale, dinanzi all’ira del vigile, esclama: “No! Attenzione, no, pastène soppaltate secondo l’articolo 12, abbia pazienza, sennò posterdati per due anche un pochino antani in prefettura!”.

“Parola o frase senza senso, pronunciata con serietà per sbalordire e confondere l’interlocutore”; la definisce il dizionario. La dizione corretta della parola tuttavia sembra essere supercazzora: nel libro omonimo Amici miei (Rizzoli 1976), scritto dagli stessi autori della sceneggiatura (Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi e Tullio Pinelli), si legge “supercazzora” (oltre a “brematurata” al posto di “prematurata”), e nel sequel Amici miei atto III diretto da Nanni Loy il Melandri riceve una videocassetta che inizia con una schermata recitante: “La Supercazzora 69 presenta”. Dietro l’invenzione della supercazzola, però, ci sarebbe la figura del palermitano Corrado Lojacono, paroliere, cantante e attore, inventore di alcuni formidabili giochi di parole.

Il 24 febbraio di 17 anni fa ci lasciava Alberto Sordi. Il ricordo di un Marchese, soldato, americano a Roma, ma soprattutto di un Italiano

 

Alberto Sordi

 

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Il 24 febbraio di 17 anni fa ci lasciava Alberto Sordi. Il ricordo di un Marchese, soldato, americano a Roma, ma soprattutto di un Italiano

L’Albertone nazionale, scomparso il 24 febbraio del 2003, è stato uno degli artisti più amati dagli italiani: nella sua lunga e ricca carriera ha saputo raccontare pregi e difetti dell’italiano medio. Ha lavorato con i più grandi del cinema nazionale e ci ha fatto ridere, sognare e pensare.

 

Il 24 febbraio del 2003 moriva a Roma all’età di 83 anni uno dei più grandi artisti italiani. Per giorni, centinaia di migliaia di persone hanno reso omaggio all'”Albertone nazionale” che nella sua lunga e ricca carriera ha saputo raccontare pregi e difetti dell’italiano medio. Ha lavorato con i più grandi del cinema italiano, ricevendo onori in tutto il mondo: è stato governatore di Kansas City e sindaco di Roma, anche se solo per un giorno.

Più di 150 film (di cui 19 diretti da lui) in mezzo secolo di attività, tra cui molti capolavori come Il Marchese del Grillo (1981), o Un americano a Roma (1954), solo per citarne qualcuno. Un patrimonio culturale immenso. È stato seduttore e vedovo, marchese e sceicco, cialtrone e commissario, soprattutto Alberto Sordi è stato un italiano.

GLI INIZI – Già prima della guerra la voce da basso di Sordi risuonava nelle orecchie degli italiani che andavano a vedere i film con Oliver Hardy doppiati da lui (Stanlio e Ollio). Il suo talento comico cominciò a farsi strada prima con la rivista poi via radio con la trasmissione ‘Vi parla Alberto Sordi’, in cui nacquero personaggio come Mario Pio. In decine di gag, ripetute da lui stesso in diverse occasioni ma anche imitate da tutti, dai colleghi alla gente comune, nelle quali si era come cristallizzata quella maschera del romano e dell’italiano medio che è stata la caratteristica più tipica di Alberto Sordi.

"Maccarone, m'hai provocato e io ti distruggo..."

L’AMICIZIA CON VERDONE – Alberto Sordi ha avuto un legame speciale con Carlo Verdone, da molti designato come suo erede. I due attori hanno recitato insieme in alcuni film, come “In viaggio con papà” e “Troppo forte”. A Verdone però non piace l’etichetta di erede, per lui Alberto Sordi è semplicemente un maestro unico, inimitabile e irragiungibile.

I PREMI – Sordi nella sua lunga carriera è stato premiato per sette volte ai David di Donatello (più quattro riconoscimenti speciali), ha vinto quattro Nastri d’Argento, un Leone d’oro alla Carriera, infiniti trofei e il titolo di Cavaliere di Gran Croce, oltre alla cittadinanza italiana di Kansas City. La sua città, Roma, lo ha eletto sindaco per un giorno solo in occasione del suo ottantesimo compleanno, poi gli ha dedicato una via e una galleria in centro.

LA FEDE GIALLOROSSA – Alberto Sordi non ha mai nascosto il suo tifo per la Roma, anzi lo ha rappresentato con ironia anche in alcune gag dei suoi film. Come quando ne Il marito tira l’acqua dal balcone con una pompa ai tifosi della Lazio e fa le pernacchie al telefono a Peppino nel giorno di un derby. «Appena nato il mio primo vagito fu Forza Roma», dice alla moglie nel film per spiegarle che deve correre a vedere la partita allo stadio. I tifosi giallorossi all’Olimpico hanno reso spesso omaggio ad Alberto Sordi: tantissimi gli striscioni che sono apparsi in suo onore. In occasione di Roma-Empoli del 2 marzo 2003, ad una settimana circa dalla scomparsa dell’attore fu intonata la canzone “Ma ‘ndo vai…” ed esposto un grande striscione con su scritto: «Silenzio, il marchese s’è addormito».

Da il Marchese del Grillo: "Io so' io, e voi..."

SCENE CELEBRI – Tantissime le scene che sono rimaste nella storia del cinema: quella in cui Nando Moriconi, filo-americano ma romanissimo, in Un americano a Roma prova a mangiare cibo americano o presunto tale (mostarda, yogurt, marmellata), e poi si getta famelico sui maccheroni, è forse la più celebre di tutte. «Maccherone, m’hai provocato e io te distruggo, io me te magno…». Ma tutto il film è una collezione di gag citatissime: dalla frase «America’, facce Tarzan!», al celebre idioma anglo-maccheronico coniato da Sordi e dagli sceneggiatori (di cui si ricorda soprattutto l’espressione ‘santibailor’) fino all’ epiteto riservato a Carlo Delle Piane, ‘cicalò’ (‘e statte zitto, statte zitto a’ cicalò’).

LAVORATORI… – Nei Vitelloni di Federico Fellini (1953), sceneggiato dal regista con Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, Sordi, al termine di una notte brava, si prende gioco con irriverente cinismo di un gruppo di operai mattinieri passando in macchina e urlando: ”Lavoratori…” seguito dal gesto dell’ombrello e da una pernacchia. Celebri sono rimaste anche alcune frasi del Marchese del Grillo, come quella che il marchese rivolge ad un gruppo di popolani «Mi dispiace, ma io so’ io e voi non siete un c…!».