Amarcord – Il fantastico spot di Natale anni ’80 di Coca Cola…

 

Coca Cola

 

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Amarcord – Il fantastico spot di Natale anni ’80 di Coca Cola…

Durante gli anni Ottanta è stato tra le colonne sonore più ricorrenti del periodo natalizio e ancora oggi è ricordato con affetto e nostalgia da chiunque abbia vissuto quella decade. Stiamo parlando del brano “Vorrei cantare insieme a voi”, che accompagnava lo spot di Natale della Coca-Cola, trasmesso in tv per molti anni a partire dal 1983.

Protagonista era un coro di ragazzi di varie etnie, che, riuniti sul versante di una collina, intonavano tutti insieme la canzone, lanciando un messaggio di pace e fratellanza universale.

La pubblicità era stata ideata qualche anno prima negli Stati Uniti, per portare agli spettatori gli auguri della bevanda più famosa al mondo.

La canzone faceva così:

“Vorrei cantare insieme a voi
in magica armonia (magica armonia)
auguri Coca Cola e poi
un coro in armonia (canta insieme a noi)
auguri Coca Cola e poi, un coro in armonia(coro in armonia)
cantate tutti insieme a noi…nana NA na na na”

 

Nel dicembre del 1983 il vero tormentone pubblicitario fu realizzato dalla Coca Colae Oscar Prudente, autore della versione italiana del jingle, riprende e adatta la versione originale intitolata I’d Like To Buy The World A Coke.

Il brano in origine era stato utilizzato ben dieci anni prima in uno spot americano della Coca Cola chiamato Hilltop, girato nel 1971 su una collina vicino… a Roma.

Per colpa delle ostili situazioni metereologiche, la pubblicità diventò uno dei più cari della storia, pensate che allora furono spesi ben 250.000 dollari, un enormità al cambio di quei tempi. Ma il successo fu grandioso.

Dieci anni più tardi Coca-Cola Italia decise di riutilizzare le immagini di Hilltop per la pubblicità natalizia, riadattando testo e musiche per la versione italiana.
Anche il montaggio video fu rielaborato, utilizzando primi piani, adattando alla meglio il labiale inglese con la versione italiana della canzone e sfruttando la sequenza finale che mostrava i ragazzi che formano un albero.

La cosa bizzarra era però vedere ragazzi con abiti estivi anni ’70 interpretare una canzone natalizia degli anni ’80!

Nonostante ciò lo spot divennne rapidamente uno dei più famosi degli anni ’80 e a distanza di anni risulta essere ancora uno dei più ricordati e amati della storia pubblicitaria di Coca Cola in Italia.

Qui sotto il video orginale Hilltop:

 

Carpe diem – Cogliete l’attimo, rendete straordinaria la vostra vita – Robin Williams ed il fantastico monologo tratto da “L’attimo fuggente”

 

Carpe diem

 

 

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Carpe diem – Cogliete l’attimo, rendete straordinaria la vostra vita – Robin Williams ed il fantastico monologo tratto da “L’attimo fuggente”

“Cogli l’attimo, cogli la rosa quand’è il momento”. Perché il poeta usa questi versi? […] Perché siamo cibo per i vermi, ragazzi. Perché, strano a dirsi, ognuno di noi in questa stanza un giorno smetterà di respirare: diventerà freddo e morirà. Adesso avvicinatevi tutti, e guardate questi visi del passato: li avrete visti mille volte, ma non credo che li abbiate mai guardati. Non sono molto diversi da voi, vero? Stesso taglio di capelli… pieni di ormoni come voi… e invincibili, come vi sentite voi… Il mondo è la loro ostrica, pensano di esser destinati a grandi cose come molti di voi. I loro occhi sono pieni di speranza: proprio come i vostri. Avranno atteso finché non è stato troppo tardi per realizzare almeno un briciolo del loro potenziale? Perché vedete, questi ragazzi ora sono concime per i fiori. Ma se ascoltate con attenzione li sentirete bisbigliare il loro monito. Coraggio, accostatevi! Ascoltate! Sentite? “Carpe”, “Carpe diem”, “Cogliete l’attimo, ragazzi”, “Rendete straordinaria la vostra vita”!

 

 

15 dicembre 1890 – Ricorre oggi l’anniversario dell’assassinio, per mano dei criminali bianchi, di un uomo leggendario: Toro Seduto

 

Toro Seduto

 

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15 dicembre 1890 – Ricorre oggi l’anniversario dell’assassinio, per mano dei criminali bianchi, di un uomo leggendario: Toro Seduto

“Il giorno in cui si sarebbe realizzata la sua visione si stava avvicinando, il governo decise di inviare quarantatrè poliziotti Lakota ad arrestare Toro Seduto. All’atto dell’arresto di fronte alla capanna di Toro Seduto si radunò molta gente che inveì contro i poliziotti che stavano effettuando l’arresto; dalla confusione si passò all’utilizzo delle armi da fuoco, uno dei poliziotti colpì alla testa Toro Seduto, ferendolo a morte.
Correva il quindici dicembre del 1890 quando venne assassinato un grande uomo. Per l’ennesima volta un uomo che non chiedeva altro che poter vivere in pace con la sua gente si spegneva a causa di azioni subdole. I suoi resti vennero sepolti in primo luogo a Forte Yates nel Nord Dakota e nel 1953 alcuni dei suoi discendenti fecero in modo che le spoglie venissero spostate da dove si trovavano per essere sepolte a Mobridge sulle rive del Missouri, qui venne eretta una effige di granito in memoria dell’uomo.”

Toro Seduto nacque nei pressi del Grand River (Sud Dakota), nel 1831 (circa), e morì nei medesimi luoghi nel 1890.

E’ universalmente considerato il più celebre capo indiano, perché durante la sua vita seppe incarnare le virtù degli indiani delle pianure, che, unite ad una grande forza e ad un immenso coraggio, lo resero un condottiero amato dai suoi amici e temuto dai suoi avversari.

Toro seduto guidò l’alleanza di tutte le tribù Sioux nella resistenza indiana contro l’invasione dei bianchi nelle Grandi Pianure. Non si fidò mai degli “americani” e non firmò mai con loro alcun trattato. Sotto la sua bandiera si raccolse la più grande coalizione di pellerossa di ogni tempo, che riuscì a sconfiggere l’esercito guidato dal Generale Custer.

Toro Seduto era figlio di Four Horses, un capo minore della tribù Hunkpapa. Da giovanissimo veniva chiamato Hakada o Jumping Badger (Tasso che salta), ma a dieci anni, dopo aver abbattuto un giovane bisonte con una freccia, gli fu dato il nome “Buffalo Bull Sitting Down”.

Non divenne famoso per il suo coraggio o per i suoi atti eroici, ma per le sue capacità tattiche e organizzative nell’insurrezione contro gli americani, di cui sarebbe diventato il nemico più accanito e pericoloso.

Era un uomo forte, un po’ tarchiato, con un viso intenso ricoperto da cicatrici, pelle piuttosto chiara e capelli castani che portava legati in due grandi trecce. Era un “politico” di razza; aveva il dono di affascinare chi gli stava vicino e di sapersi contornare di uomini capaci, valorosi e fedeli. Come oratore, grazie alle sue argomentazioni chiare e convincenti, possedeva una grande forza di persuasione. Veniva interpellato in molte occasioni, anche politiche, tanto che era diventato il punto di riferimento principale per risolvere le controversie tra Sioux.

La vita di Toro Seduto è conosciuta perché la illustrò personalmente attraverso la scrittura pittorica. E dai disegni si evince che fino al 1870 aveva preso parte a sessantatré battaglie (la prima a 14 anni), sia contro la tribù dei Corvi (i nemici storici), che contro gli invasori bianchi. Più tardi era diventato un allevatore di cavalli e poi nominato stregone degli Hunkpapa.

Nel 1863 fece visita alla tribù dei Santee nella riserva destinata loro dai bianchi; vedendo come erano miseramente trattati, in lui aumentò la rabbia e il rancore per i coloni americani. Da quel momento combattè con ogni mezzo i soldati che, infischiandosene delle promesse e dei trattati, continuavano a invadere e occupare i territori dei Sioux. Ancor giovane, Toro Seduto divenne il leader della Società dei Guerrieri Coraggiosi e, più tardi, membro autorevole dei Silent Eaters – Mangiatori Silenziosi – un gruppo responsabile del benessere tribale.

Nel giugno del 1863 avvenne il suo primo scontro con i soldati americani.

Nel 1865 guidò l’assedio a Fort Rice, da poco insediato nei territori dell’odierno Nord Dakota.

Rispettato ormai da tutti per la intelligenza e la sua audacia, nel 1868 divenne capo della Nazione Lakota.

Nel 1872, durante una battaglia contro i soldati, nei pressi della ferrovia dello Yellowstone River, Toro Seduto (con altri quattro guerrieri) si sedette con tranquillità tra le due linee che combattevano, fumò la pipa mentre le pallottole fischiavano sopra la sua testa, la arrotolò quando finì e, con estrema noncuranza andò via camminando. Dopo quel gesto il coraggio di Toro Seduto divenne leggendario.

Nel 1874, una spedizione di coloni scoprì ingenti quantità d’oro nelle Black Hills (Colline Nere), situate nel territorio Dakota, su un’area sacra a molte tribù e preclusa agli insediamenti colonici dal Trattato di Fort Laramie (stipulato tra i bianchi e alcune tribù pellerossa nel 1868). In barba a quel divieto i cercatori d’oro invasero le Colline Nere provocando la reazione dei Lakota. Quando il successivo tentativo del Governo degli Stati Uniti di acquistare le Black Hills fallì, il trattato di Fort Laramie fu messo da parte e il commissario americano per gli affari indiani decretò che tutti i Lakota al di fuori delle riserve dopo il 31 gennaio 1876 sarebbero stati considerati ostili.

Non volendo cedere alle prepotenze dei bianchi, Toro Seduto riunì le tribù Lakota, Cheyenne e Arapaho e le guidò nella Danza del Sole, offrendo preghiere a Wakan Tanka, il Grande Spirito, e tagliando le sue braccia cento volte in segno di sacrificio. Durante la cerimonia ebbe la visione di soldati che cadevano nel campo dei Lakota, come cavallette dal cielo.

Ispirato dalla visione, il capo guerriero degli Oglala Lakota, il celeberrimo Cavallo Pazzo, condusse in battaglia 500 guerrieri, e il 17 giugno 1876 colse di sorpresa le truppe di Crook, costringendole alla ritirata. Per celebrare la vittoria, i Lakota si diressero nella valle del fiume Little Big Horn, dove furono raggiunti da altri 3000 indiani che avevano lasciato le riserve per unirsi a Toro Seduto.

In quel luogo, il 25 giugno, furono attaccati dal Settimo Cavalleggeri comandato dal Generale Custer, che però venne interamente annientato (come aveva predetto Toro Seduto nella sua visione).

La sete di vendetta portò gli americani a concentrare in quell’area migliaia di soldati, e i rapporti di forza si ribaltarono al punto che la maggioranza dei capi Lakota, che nel frattempo s’erano di nuovo divisi, nel giro di un anno dovettero arrendersi.

Toro Seduto non fu tra questi, e nel maggio 1877 riparò con la sua gente in Canada. Poco dopo il Generale Terry gli offrì, in cambio del perdono, di farlo stabilire in una riserva, ma il grande Capo indiano non prese neanche in considerazione l’ipotesi.

Quattro anni più tardi, tuttavia, il 19 luglio 1881, viste le enormi difficoltà nello sfamare la sua tribù (il Bisonte in quelle zone era ormai quasi estinto), Toro Seduto si arrese. Consegnò il fucile al comandante di Fort Buford in Montana e chiese di attraversare il confine canadese e di risiedere in una riserva sul Little Missouri River, presso le Colline Nere. In un primo tempo fu inviato alla Riserva di Standing Rock e, successivamente, temendo nuove rivolte, a Fort Randall, dove trascorse due anni come prigioniero di guerra.

Infine, il 10 maggio 1883, Toro Seduto potè ricongiungersi alla sua gente a Standing Rock.

Nel 1885 lasciò la riserva (su permesso degli americani) per lavorare nel Buffalo Bill’s Wild West (lo spettacolo del leggendario Buffalo Bill), dove veniva pagato 50 dollari la settimana per un giro a cavallo dell’arena (guadagnando anche con gli autografi e le fotografie). Quattro mesi dopo però abbandonò il Circo e fece ritorno tra la sua gente, incapace com’era di integrarsi nella società dell’uomo bianco.

Tornato a Standing Rock si stabilì sul Grande Fiume, dove era nato, rifiutando di rinunziare alle sue tradizioni, come imponevano i regolamenti della riserva. Continuò a vivere con due mogli e a rifiutare la cristianità, ma non mancò di mandare i suoi figli a una vicina scuola cristiana, convinto com’era dell’importanza dell’istruzione per le future generazioni Lakota.

Nell’autunno del 1890, un Lakota Miniconjou di nome Orso Scalciante gli recò notizia della preparazione di una Danza degli Spiriti, che avrebbe scacciato i bianchi dalle loro terre e ristabilito il modo di vivere degli indiani. Le autorità bianche di Standing Rock, temendo che Toro Seduto potesse partecipare al rito, inviarono 43 poliziotti Lakota a prelevarlo. Il 15 dicembre 1890, prima dell’alba, i poliziotti irruppero nella cabina di Toro Seduto e lo trascinarono all’esterno, dove i suoi seguaci stavano accorrendo per proteggerlo. Nel conflitto a fuoco che seguì un poliziotto Lakota lo colpì al capo ferendolo a morte, e giustiziando a sangue freddo anche suo figlio diciassettenne, che aveva implorato di essere risparmiato.

Toro Seduto probabilmente non venne ucciso incidentalmente, dato che i bianchi, visto il suo carisma, lo percepivano come un pericolo costante per la loro sicurezza.

Come successe ad altri capi indiani, anche Toro Seduto cadde per mano di un appartenente al suo stesso popolo. Fu sepolto a Fort Yates, in Nord Dakota, e nel 1953 i suoi resti furono trasferiti a Mobridge, nel Sud Dakota, dove riposano sotto un cippo di granito che segna la sua tomba.

 

Un ricordo – il 2 dicembre di 37 anni fa ci lasciava, troppo presto, l’indimenticabile Marty Feldman

 

Marty Feldman

 

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Un  ricordo – il 2 dicembre di 37 anni fa ci lasciava, troppo presto, l’indimenticabile Marty Feldman

 

Il 2 dicembre 1982 ci lasciava Marty Feldman.

Passato alla storia come il servo Igor del Dottor Frankenstin, Marty Feldman è un personaggio impossibile da dimenticare: far ridere gli era naturale come respirare e sfruttò i suoi soli 48 anni di vita al massimo. Sempre propenso a gettarsi in nuovi progetti si spostò instancabilmente dalla radio alla televisione al cinema; più di una volta fu anche attratto dall’idea di pubblicare un proprio libro di versi, cosa che però non avverrà mai.

Tuttavia è necessario riconoscere che la sua fama non fu unicamente dovuta alla contagiosa ilarità che lo caratterizzava, ma anche a quell’aspetto così peculiare e buffo, con gli occhi strabuzzati e divergenti che furono un suo cruccio ma anche, senza dubbio, la sua fortuna. Se infatti «da bambino era bello e somigliava ad una Shirley Temple gotica», crescendo il volto di Marty finì per «riflettere in pieno il disastro della sua vita»: gli incontri clandestini di boxe a cui partecipava in gioventù conferirono al suo naso quella particolare forma schiacciata, mentre negli anni ’60 il morbo di Basedow-Graves rese prominenti i suoi occhi.

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Frankenstein Junior - Potrebbe piovere

Figlio di ebrei originari di Kiev, Martin Alan Feldman nacque a Londra l’8 luglio 1934 e visse il periodo della Seconda Guerra Mondiale nella più tranquilla campagna inglese. È forse ripensando a questo soggiorno che maturò poi in lui il pensiero di diventare vegetariano quando realizzò effettivamente che «un bel giorno, George “il coniglio” era diventato “George la cena”».

Come tutti i comici che si rispettano, Feldman era uno dalla battuta sempre pronta; ciononostante gli ci volle del tempo per realizzare che avrebbe potuto impiegare quella sua dote come mestiere. A 15 anni lasciò gli studi e lavorò presso un parco divertimenti, cercando di sopravvivere mentre cercava di sfondare come trombettista jazz; ma una volta trovata la sua strada, Marty la percorse con falcate grandi e profonde.

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Frankenstein Junior - Il consiglio

"Quando la sorte ti e' contraria e mancato ti e' il successo, piantala di fare castelli in aria e vai a piangere sul...!"

Recitò dapprima in commedie per teatri minori e successivamente nel trio MorrisMarty and Mitch che aveva contribuito a fondare nei primi anni ’50. La sua comicità stralunata e surreale alla maniera dell’idolo Buster Keaton attirò su di lui una certa visibilità e da lì il cammino si fece meno accidentato: scrisse i suoi stessi sketch radiofonici insieme all’amico Barry Took e in poco tempo si trovò a lavorare per la televisione, diventando uno dei personaggi più apprezzati dal pubblico britannico. La malattia non fece arretrare Feldman di un solo passo e nel corso degli anni ’60 fu letteralmente sommerso di lavoro, arrivando a collaborare con i futuri Monthy Piton per The Frost Report. Le sue battute erano sulla bocca di tutti e per la BBC non fu affatto difficile assegnargli una propria serie, Marty: andato in onda nel 1968, lo show valse a Feldman ben due BAFTA.

Nel nuovo decennio non smise di raccogliere applausi, tutt’altro: volò negli Stati Uniti, dove in poco tempo debuttò con il fortunato programma L’occhio che uccide (Marty Feldman’s Comedy Machine il titolo originale).  Nemmeno nel Nuovo Mondo Marty rinunciò a frequentare i party più alla moda, così come già nel Regno Unito: pare che fosse solito presentarsi con degli occhiali da aviatore e in compagnia della madre, almeno fino a quando non sposò Lauretta Sullivan nel 1959.

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Frankenstein Junior - Il malocchio

Forte dei trionfi che andava ottenendo, il debutto al cinema sembrò abbastanza prevedibile: nel 1970 recitò in Ogni uomo dovrebbe averne due di Jim Clark e quattro anni dopo fu accolto a braccia aperte da Mel Brooks, il quale decise insieme a Gene Wilder di scritturare Marty per il ruolo che l’avrebbe reso celebre. Frankenstein Junior (1974) incassò trenta volte il budget di produzione e fu un vero e proprio boom che procurò a Feldman il nuovissimo Saturn Award come miglior attore non protagonista. Successivamente Marty apparve ancora in Il fratello più furbo di Sherlock Holmes (diretto da Wilder), L’ultima follia di Mel Brooks e nell’italiano film a episodi 40 gradi all’ombra del lenzuolo.

Sul finire degli anni ’70 tentò la regia con due pellicole: la parodia Io, Beau Geste e la legione straniera e Frate Ambrogio (malriuscita traduzione di In God we tru$t), aspra satira del modo tutto statunitense di commercializzare la religione.

Un attacco di cuore lo colse mentre era impegnato in Barbagialla, il terrore dei sette mari e mezzo e Marty Feldman si spense il 2 dicembre 1982, in un albergo di Città del Messico. La causa del decesso è tutt’oggi avvolta nel mistero: un’intossicazione alimentare o la sua sconsigliabile dieta fatta di sigarette, caffè e latticini sono le motivazioni più accreditate.

Il suo humour dal riso facile ci ha lasciato una grandissima lezione: disse con una certa mestizia di essere troppo vecchio per morire giovane, ma era unico. Un pioniere della commedia che ispirò altri pionieri della commedia.

Fonti: http://www.artspecialday.com/9art/2018/07/07/marty-feldman/ e altre dal web

Buon compleanno Federico Monti Arduini il pioniere del Moog italiano, conosciuto dai più “vintage” come “Il Guardiano del Faro” – La sua storia e i suoi capolavori

 

Il Guardiano del Faro

 

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Buon compleanno Federico Monti Arduini il pioniere del Moog italiano, conosciuto dai più “vintage” come “Il Guardiano del Faro” – La sua storia e i suoi capolavori

Buon compleanno Guardiano.
Il primo dicembre 1940 nasceva Federico Monti Arduini – Il Guardiano del Faro

Gli anni ’70 sono stati un periodo folle per l’Italia (e non solo): erano sì gli anni di piombo e della crisi del petrolio, ma erano anche l’epoca dei movimenti femministi e studenteschi, dell’eccentricità e della voglia di cambiare il mondo, proprio come qualche anno più tardi illustrerà Andrea Pazienza nel suo “Pentothal”. In strada si poteva incontrare chiunque: eroinomani, forze armate, cortei, intellettuali e giovinastri. O, a essere estremamente fortunati, un conte-compositore a bordo della sua Austin-Healey 3000 gialla. Il nome di quel conte è Federico Monti Arduini, noto in quegli anni al grande pubblico come Il Guardiano del Faro.

Questo ragazzo, allievo di Von Karajan (direttore d’orchestra considerato tra i migliori tre al mondo, e habitué di casa Monti Arduini), ha lasciato un breve ma indelebile segno nella musica italiana grazie all’uso del Moog, che fino a quel momento era un suono mai sentito dal grande pubblico italiano, tanto che una rivista dell’epoca lo descriveva come “un suono strano, mai sentito prima. Non era né un violino, né un clarino, né un flauto, né uno zufolo, eppure sembrava un po’ tutti questi strumenti messi insieme“. Una peculiarità di cui lo stesso Guardiano era ben cosciente:

A differenza di altri gruppi o artisti, che utilizzavano il Moog come elemento aggiuntivo degli arrangiamenti dei loro brani, io davo allo strumento un ruolo di primo piano: lo facevo cantare, lo facevo ridere. Non lo trattavo come una comparsa, ma come un protagonista. La musica che io proponevo insieme al mio sintetizzatore Moog era una musica di rottura rispetto a quanto circolava allora in Italia, alle canzonette incentrate sulle rime tra ‘cuore’ e ‘amore’: e credo sia stato proprio questo ad aver suscitato tutta quella curiosità intorno al progetto de Il Guardiano del Faro”

Niente “cuore” o “amore” quindi, anzi proprio niente testi. In un paese la cui musica si è sempre poggiata sul potere narrativo della canzonetta, il proporre canzoni solo strumentali poteva essere una scelta da pazzi, persa in partenza; e invece, complice un periodo musicale in cui l’Italia stava scoprendo un certo amore per la sperimentazione, il giovane conte riuscì addirittura a vincere l’edizione del 1975 di “Un disco per l’estate”, vendere 3 milioni di copie ed entrare nelle case e nei cuori del grande pubblico. Ma chi si celava davvero dietro questo strano moniker?

Dietro Il Guardiano del Faro c’è un ragazzo nato nel 1940 e diplomato in pianoforte al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. Il suo esordio da cantautore arriva presto: a 21 anni pubblica a suo nome “Dolci sogni/Così”, il primo 45 giri, a cui ne seguono altri per la stessa etichetta, la Blueball di Antonio Casetta. Entro breve ne diventa addirittura produttore artistico e arriva a collaborare con Claudio Lippi (che inciderà “Cosa importa”) e altri artisti ben noti all’epoca come Sal Da Vinci o i Nuovi Angeli. Oltre che alla propria carriera solista, si dedicherà negli anni successivi anche al lavoro di autore per grandi della canzone italiana come Mina (“Ma ci pensi“), Gigliola Cinquetti (“Il primo bacio che darò“), Giorgio Gaber (“Parole parole“, “Suona Chitarra“) e Orietta Berti (“Solo tu“).

Proprio la versione inglese di “Solo Tu” (“All My Love”) cantata da Cliff Richard supera le oltre 12 milioni di copie vendute nel mondo e l’impressione che la sua sia una carriera in ascesa si conferma nel 1972: passa dall’altra parte della barricata e diviene direttore generale della Ricordi, carica che manterrà tra l’altro per circa 15 anni. Da quell’anno, fino al 1975, sarà anche direttore artistico e assistente alla Direzione Generale della Polydor Italia.
Lo pseudonimo di Guardiano del Faro (ispirato da un faro vicino la residenza estiva della sua famiglia, quello di Lividonia nei pressi di Porto Santo Stefano, dove la leggenda vuole si chiudesse per comporre sotto effetto di sostanze ricreative) arriva nel 1972 quando produce un 45 giri con su incisi “Il gabbiano triste” e “Oceano”, brani che sono l’uno la versione registrata al contrario dell’altro. Il primo è un rifacimento di “Amazing Grace” di John Newton ed il protagonista indiscusso del brano è proprio lo strumento che caratterizzerà tutta la sua carriera.

Scoprii il sintetizzatore Moog, casualmente, negli anni in cui lavoravo come dirigente per la Ricordi, grazie ad un mio amico importatore che aveva fatto arrivare questo nuovo strumento nella nostra sala di registrazione: lo provai e rimasi affascinato dal suono. Sin da subito, cominciai a registrare un po’ di materiale e al suono del sintetizzatore Moog pensai bene di sovrapporre quello di un pianoforte, di una chitarra e di altri strumenti: nacque così il brano “Il gabbiano infelice”.”

Proprio in occasione della pubblicazione di questo brano (come raccontato da Lucio Salvini, all’epoca direttore generale di Ricordi), visto il conflitto d’interessi causato dalla carica di dirigente del Conte Arduini, Paolo Limiti e Felice Piccarreda (produttore ed ex-funzionario Durium) si propongono come produttori del Guardiano. Salvini, da parte sua, accetta di pubblicare “Il gabbiano infelice” senza sapere nulla dell’autore, aggirando inconsapevolmente tutti i problemi connessi alla figura di Arduini e non facendosi scappare un disco di probabile successo.

Il risultato dell’idea di Arfemo (un altro dei suoi pseudonimi, ottenuto tramite le iniziali del nome e dei due cognomi) piace tanto, sicuramente per l’assoluta novità che rappresenta e forse anche per quell’alone di mistero che circondava la sua figura. Per un periodo piuttosto lungo, infatti, nessuno sapeva chi fosse esattamente questo Guardiano del Faro se non gli amici di cui sopra; nel frattempo “Il gabbiano triste” ha un successo commerciale straordinario, e con pochissime spese il pezzo raggiunge la posizione numero 1 della classifica italiana: 400.000 45 giri e 50.000 LP venduti in pochi mesi. L’anonimato sarebbe durato ancora a lungo se non fosse stato per Mike Bongiorno, che lo invitò nel pubblico di “Lascia o raddoppia” con la promessa di non coinvolgerlo in diretta – una promessa ovviamente disattesa di fronte a milioni di telespettatori.

Nonostante il successo, Il Guardiano del Faro va avanti nella sua sperimentazione con il sintetizzatore ottenendo risultati alterni. Più avanti, affascinato dalla trasversalità dello strumento, visiterà anche la fabbrica di Robert Moog, il quale gliene regalerà un modello polifonico (Polymoog) e si complimenterà per la sua musica scrivendogli una lettera.

In una continua ambivalenza fatta di riletture di temi editi e composizioni proprie, nel 1978 arriva “Oasis” (l’ottavo di una discografia di 14), un album che è un’ottima summa dello stile di Arduini: tra la scala araba del brano che dà il nome al disco, le chitarre e i pianoforti, il risultato è in tutto e per tutto un antesignano di moltissimi generi che sarebbero nati di lì a qualche anno, fino ad arrivare alla più recente chill-wave. Con grafiche di Mario Convertino e disegni di Paolo della Valle, la copertina si presenta con l’illustrazione di un’oasi; il disco, invece, nonostante per alcuni momenti ricordi le colonne sonore dell’epoca (lo stesso Arduini non era nuovo a esperienze simili, d’altra parte: compose la colonna sonora di “La Orca” e “Amore grande, amore libero” film che prende il titolo da un suo stesso brano), si snoda in ottimi brani con un forte richiamo all’esotico e il moog che rimane incontrastato protagonista del disco.

La sua carriera musicale si conclude all’alba degli anni ’80, e dopo qualche assurda apparizione televisiva (tra cui la pubblicità dell’Amaro Ramazzotti!), nel giugno del 1996 Monti Arduini fonda la casa discografica Café Concerto, per poi continuare con esperienze più istituzionali: nel 1998 entra nel Comitato Estero di SIAE, nel 2005 è nel Comitato Studi Regolamenti e Statuti e nel 2009 nel Comitato Elettorale della Società (nelle ultime elezioni, che hanno visto la nomina di Filippo Sugar, si paventava anche il suo nome come possibile Presidente).

Al di là delle sorti artistiche, quello che emerge dalla carriera di Federico Monti Arduini è l’indubbia capacità di fondere gli studi classici a uno strumento d’avanguardia di cui è stato tra i pionieri in Italia, riuscendo a raggiungere il grande pubblico con qualcosa di molto diverso dalle tendenze pop del tempo, e firmando uno dei tormentoni più strani e atipici che l’Italia avesse mai ascoltato.

 

 

Rosa Parks, dopo quel Primo Dicembre di 63 anni fa il mondo non è stato più lo stesso…

 

Primo Dicembre

 

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Rosa Parks, dopo quel Primo Dicembre di 63 anni fa il mondo non è stato più lo stesso…

Il mondo di Rosa Parks, prima e dopo il giorno del bus
Chi era la sarta arrestata nel 1955 a Montgomery per essersi seduta dove non doveva? Non fu l’unica donna attivista per i diritti dei neri. Molta influenza la ebbero le parrucchiere! La professoressa Nadia Venturini ci racconta i retroscena delle storiche svolte negli Usa

Quando si domanda chi era Rosa Parks, la risposta più comune, la più sbrigativa ed essenziale è: “Quella sarta di colore che si era rifiutata di alzarsi nell’autobus riservato ai bianchi ed era stata messa in prigione”.

Tutto vero, ma intorno alla figura della donna che nel 1955, con un gesto semplicissimo, diede il via alla reazione di massa dei neri a Montgomery con il conseguente boicottaggio (per un anno) dei mezzi di trasporto, sono nate e si sono sviluppate molte altre realtà sociali e politiche.

Rosa Parks fu la scintilla e poi la bandiera della protesta afroamericana negli stati del Sud, un personaggio chiave che da oltre mezzo secolo ispira la letteratura mondiale.

In Italia, uno dei massimi esperti in materia è NADIA VENTURINI, professore associato di Storia del Nord America presso l’Università di Torino. Autrice di testi quali «Neri e Italiani ad Harlem» e «Con gli occhi fissi alla meta», la docente ha appena pubblicato «La strada per Selma – La mobilitazione afroamericana e il Voting Rights Act del 1965».

Le abbiamo chiesto un contributo autografo. Ecco il suo ricco approfondimento.

IL SUD 50 ANNI FA  

E’ difficile crederlo, guardando Obama e Michelle, ammirando gente dello spettacolo come Oprah Winfrey e Denzel Washington. Eppure la segregazione esisteva davvero negli undici stati che avevano fatto parte della Confederazione durante la Guerra Civile. 

 

 

Era un sistema rigido che teneva i neri separati dai bianchi nei luoghi pubblici e sui mezzi di trasporto. Relegava i neri in scuole di livello inferiore, li escludeva da molte occupazioni e prevedeva salari più bassi. Ma soprattutto ogni stato elaborava stratagemmi legali per impedire ai neri di registrarsi per votare, come ha descritto molto bene la regista Ava DuVernay nel film Selma. 

I NERI SAPEVANO DOVE NASCONDERSI PER ORGANIZZARE LE LORO AZIONI 

La segregazione conteneva un paradosso: la legislazione del sud obbligava a mantenere ad uso esclusivo dei neri una serie di spazi pubblici molto eterogenei (chiese, bar, associazioni ricreative, barbieri e beauty shop) e quindi permetteva agli afroamericani di avere luoghi in cui potersi nascondere e organizzare all’insaputa dei bianchi, senza dover ricorrere a stratagemmi. Un fenomeno che riguardava in modo particolare le donne, spesso escluse dai livelli dirigenti delle organizzazioni per i diritti civili. Perfino nel memorabile giorno della Marcia su Washington, nessuna donna parlò sul palco. Per questo motivo, la vicenda di Rosa Parks ci consente di scoprire un risvolto ancora poco conosciuto di quella che fu la lotta per i diritti civili degli afroamericani. 

CHI ERA ROSA PARKS PRIMA DI DIVENTARE FAMOSA  

Non era né anziana, né stanca: però si era stancata di subire. Aveva 42 anni, faceva la sarta, era attiva nel volontariato della sua chiesa e da vent’anni attivista della NAACP di cui, a Montgomery, era segretaria del responsabile locale E.D. Nixon.

Rosa McCauley Parks aveva accumulato esperienze come attivista per i diritti civili, fin da quando negli Anni 30 aveva partecipato col marito Raymond Parks alla campagna per la liberazione dei 9 ragazzi di Scottsboro, ingiustamente accusati di stupro. Dopo la fine del boicottaggio di Montgomery era diventata un’icona nazionale, ma sia lei che il marito avevano perso il lavoro. Dovettero trasferirsi a Detroit e ripartire da zero. Rosa veniva invitata a convegni e manifestazioni, ma non le offrirono mai un impiego adeguato alla sua esperienza di attivista. Continuò come volontaria ad impegnarsi sul tema della giustizia criminale e del trattamento dei neri nel sistema giudiziario.

L’ARRESTO: NON ERA SEDUTA NEL SETTORE DEI BIANCHI  

Quando venne arrestata a Montgomery nel 1955, non si era seduta nella parte bianca del bus, ma in quella intermedia di separazione delle razze, che veniva occupata solo quando il bus era molto affollato. L’autista le ordinò comunque di alzarsi per cedere il posto a un uomo bianco, Rosa rifiutò, venne imprigionata e liberata la sera stessa grazie alla cauzione pagata dall’avvocato bianco antirazzista Clifford Durr. E.D. Nixon progettò la causa giudiziaria che avrebbe portato la Corte Suprema, un anno dopo, a decretare l’incostituzionalità della segregazione sui mezzi di trasporto. Intorno alla vicenda di Rosa si creò una mobilitazione della comunità nera: 40mila persone fra chiese, associazioni, donne di ogni estrazione sociale.

L’INTERVENTO DI MARTIN LUTHER KING IN DIFESA DELLA PARKS  

Il 5 dicembre, giorno del processo, in un’affollata assemblea tenuta in chiesa, alla Parks non venne data la parola ma fu Martin Luther King a sottolineare la sua reputazione di buona cittadina. Una rispettabilità inattaccabile, quella più compatibile con la definizione della femminilità nel dopoguerra, in cui la maggior parte degli afroamericani tentavano di aderire ai valori della società dominante per ritagliarsi uno spazio personale e professionale anche nel mondo segregato del sud. Parks divenne così una sorta di bandiera della causa per la desegregazione dei mezzi pubblici di Montgomery e poi un’icona del movimento.

NON SOLTANTO ROSA: LE ALTRE DONNE DELLA RIBELLIONE  

Nel 1955 Rosa Parks era un’attivista molto consapevole, cosciente che la scandalosa situazione dei bus di Montgomery non era dovuta solo alla segregazione , ma ai deliberati maltrattamenti degli autisti bianchi verso la prevalente utenza nera . Rosa e Nixon avevano partecipato ad una Leadership Training Conference della NAACP, organizzata da Ella Baker , che aveva contribuito a rafforzare i progetti di azioni legali contro la segregazione. Inoltre durante l’estate la Parks aveva partecipato ad un seminario presso Highlander Folk School (link) dove aveva conosciuto Septima Clark e Bernice Robinson: un incontro fra donne formidabili.

 

JO ANN ROBINSON: FU LEI A IDEARE IL BOICOTTAGGIO DEI BUS 

Il boicottaggio degli autobus di Montgomery iniziò il 5 dicembre 1955 e si concluse il 21 dicembre 1956: fu una delle più straordinarie dimostrazioni di resistenza non violenta che si ricordino. Migliaia di afroamericani rinunciarono al trasporto pubblico per un anno intero.

I NERI PAGAVANO IL BIGLIETTO E POI VENIVANO LASCIATI A TERRA  

Ma quel boicottaggio non fu progettato da Rosa Parks o da Martin Luther King o dai leader afroamericani. Fu ideato da Jo Ann Robinson, presidente del Women’s Political Council, un’associazione femminile afroamericana. Occorre spiegare che tre quarti dei passeggeri degli autobus erano neri e subivano vari abusi. Il regolamento prevedeva che dopo aver pagato la propria tariffa, gli utenti neri scendessero per risalire dalla porta posteriore, ma talvolta venivano lasciati a terra, e le donne spesso subivano maltrattamenti. Molte lamentele arrivavano al WPC della Robinson la quale già nel 1954 aveva avvisato il sindaco che 25 organizzazioni locali erano pronte ad avviare un boicottaggio degli autobus.

QUELLA NOTTE PASSATA A STAMPARE VOLANTINI DI PROPAGANDA 

Quando seppe dell’arresto di Rosa Parks, Robinson agì con prontezza e segretezza. Nella notte fra il 1° e il 2 dicembre 1955, stilò un breve comunicato anonimo, nel quale riferiva che «un’altra donna negra è stata arrestata e gettata in carcere perché ha rifiutato di alzarsi e cedere il posto ad una persona bianca sull’autobus». Invitava quindi i cittadini neri a non prendere gli autobus il 5 dicembre, giorno del processo. Il volantino era anonimo, conciso e privo di retorica. Fu stampato nella notte in diecimila copie. La Robinson, con l’aiuto di studenti e colleghi, utilizzò di nascosto il centro stampa del college e all’alba venne organizzata la distribuzione presso scuole, negozi, birrerie, saloni di bellezza e barbieri. Alle due del pomeriggio ogni volantino era stato passato più volte di mano: «Praticamente ogni uomo, donna o ragazzo nero a Montgomery conosceva il progetto e faceva passaparola. Nessuno sapeva da dove fossero venuti i volantini o chi li avesse fatti circolare, e a nessuno importava. Nel profondo del cuore di ogni persona nera vi era una gioia che non osava rivelare», raccontava tempo dopo la Robinson.

LE DOMESTICHE DI COLORE OSTENTAVANO CALMA A CASA DEI BIANCHI  

Insomma, era stato un gruppo di donne che, con furtiva abilità, aveva innescato la protesta. Il che testimonia ancora una volta come negli Anni 50 per i neri dissenzienti del sud la dissimulazione della protesta fosse considerata vitale.Le domestiche, ad esempio, che lavoravano fino a tardi presso le famiglie dei bianchi, quel giorno lessero di corsa e di nascosto il volantino per poi distruggerlo subito dopo e continuare a lavorare di buon umore, per non fare trapelare nulla. 

BERNICE ROBINSON E L’ATTIVISMO DELLE PARRUCCHIERE  

I volantini del boicottaggio di Montgomery venivano lasciati soprattutto nei saloni di bellezza. Già, perché molte parrucchiere ed estetiste erano attiviste dei diritti civili, ormai da decenni. Parecchie di loro erano aderenti alla NAACP e diffondevano fra le loro clienti i materiali per potersi registrare e votare.

Le beauticians nere erano professioniste indipendenti, mediamente più colte di altre donne che svolgevano lavori umili. Talvolta disponevano di un negozio attrezzato, talvolta esercitavano nelle proprie case, ma erano tutte piccole imprenditrici libere dal controllo bianco, che potevano affermare una leadership riconosciuta nelle loro comunità. L’importanza di questa professione traeva origine da uno dei tratti distintivi delle donne nere, disprezzato dal razzismo bianco e invece esaltato dalla cultura del Black Power: i capelli ricci, difficili da trattare, che richiedevano l’uso di prodotti specifici e l’abilità di professioniste specializzate. Fino agli Anni 60 prevaleva lo stile conformista che imitava le acconciature delle donne bianche: poi emerse la scelta ribelle di portare i capelli afro, come Angela Davis.

Le «beauticians» nere controllavano uno spazio fisico, il beauty shop, che era nel contempo pubblico e privato: forniva uno spazio intimo riservato alle donne, in cui le estetiste potevano parlare liberamente con altre donne per incoraggiarle all’attivismo o alla registrazione elettorale . La specificità professionale e l’indipendenza economica le portavano a sostenere diverse forme di attivismo politico. Highlander aveva organizzato alcuni seminari di formazione dedicati proprio a queste professioniste all’inizio degli Anni 50: essendo in contatto con tutti i settori della popolazione afroamericana, con donne di classi e formazione diverse, le beauticians erano in grado di raccogliere inf ormazioni di ogni tipo e diffonderle fra le loro clienti.

SEPTIMA POINSETTE CLARK, INSEGNANTE E RIVOLUZIONARIA  

Bernice Robinson venne coinvolta in questi contesti nel 1955 dalla cugina Septima Poinsette Clark (link). Insegnante elementare a Charleston, nel 1956 venne licenziata perchè non aveva voluto dimettersi dalla NAACP. Bernice aveva vissuto a lungo a New York, dove aveva appreso il mestiere di estetista e di sarta: quando dovette tornare a vivere a Charleston, trovò difficile abituarsi nuovamente alle restrizioni della segregazione. Divenne attiva nella NAACP locale, e costruì a lato della sua casa un laboratorio da estetista. Mentre faceva una messa in piega, incitava le clienti a registrarsi per votare.

Septima Clark condusse la Robinson al centro culturale Highlander, dove incontrarono Rosa Parks. Ognuna di loro nell’estate del 1955 prese decisioni che avrebbero sconvolto le loro vite. Bernice si fece convincere da Septima ad organizzare una scuola di cittadinanza nelle zone rurali più povere della South Carolina. Gli afroamericani erano in gran parte analfabeti, per cui non potevano registrarsi. La scuola di cittadinanza doveva dare un’alfabetizzazione primaria e un’educazione civica per conseguire questo obiettivo. 

Il modello di scuola popolare che aveva creato ebbe successo, molti afroamericani riuscirono a registrarsi, e vennero aperte scuole analoghe in tutto il sud. Dopo tre anni, Bernice lasciò il suo beauty shop, perché ottenne il ruolo di coordinatrice della formazione in tutto il sud. Viaggiava continuamente ed era in contatto con tutti i leader afroamericani. Nel 1965 andò con Septima a Selma per alcuni mesi, per insegnare ai neri locali a scrivere la propria firma.

Il Voting Rights Act del 1965 coronò gli sforzi di migliaia di donne afroamericane che avevano lottato per superare gli ostacoli posti dagli stati del sud al diritto di voto. Avevano creato oltre 900 scuole popolari, permettendo la registrazione di centinaia di migliaia di afroamericani. Erano donne determinate e coraggiose, venivano spesso dalle classi popolari, e alcune di loro avevano cominciato pettinando e truccando altre donne.

Fonte: La Stampa

Primo dicembre: quando, 64 anni fa, Rosa Parks con il suo “NO” sfidò il razzismo

 

Rosa Parks

 

 

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Primo dicembre: quando, 64 anni fa, Rosa Parks con il suo “NO” sfidò il razzismo

La donna di colore (una negra) si rifiutò di cedere a un bianco il suo posto sul bus. Fu arrestata ma da allora nulla fu più come prima…

E’ stata un’eroina dei diritti civili. Tanta strada è stata fatta, ma tanta ancora ne resta da fare: con il suo  rifiuto di cedere il posto su un autobus a un bianco, Rosa Parks ha mutato la storia dei diritti civili.

L’episodio risale al primo dicembre del 1955 a Montgomery, in Alabama, uno stato particolarmente razzista.

Rosa Parks, figlia di James e Leona McCauley e moglie di Raymond Parks, attivo nel movimento dei diritti civili, stava tornando a casa dopo il lavoro di sarta in un grande magazzino. Faceva molto freddo e la donna, non trovando posti liberi nel settore riservato agli afroamericani, decise di sedersi al primo posto dietro alla fila per i bianchi, nel settore dei posti “comuni”.

Dopo di lei salì un uomo bianco, che restò in piedi. Dopo qualche fermata l’autista chiese a Rosa di lasciare libero quel posto. Lei non si scompose e rifiutò di alzarsi con dignitosa fermezza.

Per quel “no” fu arrestata e portata in carcere per condotta impropria e per non aver rispettato il divieto che obbligava i neri a cedere il proprio posto ai bianchi nei settori cosiddetti comuni. Un atto coraggioso e determinato in seguito al quale si avviò una protesta storica. Quella stessa notte, infatti, Martin Luther King, insieme ad altre decine di leader delle comunità afroamericane, pose in atto una serie di azioni di protesta. Tra queste, il boicottaggio dei mezzi pubblici di Montgomery, che andò avanti per 381 giorni, affinché fosse cancellata una norma odiosa e discriminatoria che comprometteva persino la normale possibilità quotidiana di sedersi, come gli altri, su un autobus. Una protesta che assunse proporzioni sempre più ampie e che ottenne il sostegno dei tassisti afroamericani che avevano adeguato le loro tariffe a quella degli autobus.

Il 13 novembre 1956, la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò fuorilegge la segregazione razziale sui mezzi di trasporto pubblici poiché giudicata incostituzionale.

Da allora Rosa Parks è considerata The Mother of the Civil Rights movement, la donna che, come disse Bill Clinton consegnandole un’onoreficenza nel 1999, “mettendosi a sedere, si alzò per difendere i diritti di tutti e la dignità dell’America”.

Rosa Parks morì a Detroit il 24 ottobre 2005. Ma il suo ricordo è immortale.

Amarcord – Iso Isetta: la “Smart” tutta italiana che salvò la BMW

 

Iso Isetta

 

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Amarcord – Iso Isetta: la “Smart” tutta italiana che salvò la BMW

Iso Isetta: la “Smart” italiana che salvò la BMW

La Isetta fu prodotta in Italia dalla Iso e in Germania dalla BMW, grazie alla quale conobbe una diffusione inimmaginabile. 

Nel 1954 la Germania vinse i campionati del mondo di calcio, battendo in finale l’Ungheria di Puksas, o meglio, di quel che ne rimaneva visto che il campione Ungherese era stato omaggiato da un intervento assassino alla caviglia nell’incontro che i magiari avevano avuto con i tedeschi al primo turno del mondiale. Il mondiale del doping: si ricorderà così, quello che vide l’intera nazionale tedesca ricoverata in ospedale per una intossicazione epatica il giorno dopo la finale, con gli Ungheresi che ancora recriminano e i tedeschi che invece fanno finta di nulla, mentre si continua a mormorare di una postuma e misteriosa fornitura di trattori che avrebbe varcato i confini della Germania per essere consegnata al governo ungherese.

Di altro doping e di altre richieste di fornitura invece aveva, in quegli anni, bisogno la BMW. La casa dell’elica, serrata dai debiti, era in cerca del rilancio e al salone dell’Auto di Ginevra proprio del 1954, aveva presentato la 502, ponendosi in concorrenza con la connazionale Mercedes Typ 300. Fu un fiasco. La vettura fu accolta tiepidamente e le vendite non decollarono mai, sebbene le numerose declinazioni sia per la carrozzeria (berlina, coupé e cabriolet) che per la motorizzazione dell’auto testimoniano lo sforzo dei dirigenti BMW per posizionarsi in un mercato in cui non erano graditi.

La BMW navigava in acque agitate. Ma quando tutto sembrava compromesso, la soluzione arrivò da un imprenditore italiano che aveva avuto un’idea molto innovativa che all’epoca era quasi fuori mercato, almeno in Italia. Per capire come questo fu possibile, bisogna fare un piccolo passo indietro e arrivare nel 1939 a Bolzaneto in provincia di Genova, dove cercava fortuna Renzo Rivolta, giovane imprenditore con il pallino della meccanica che produceva frigoriferi (per lo più) industriali.

Nel 1943 Rivolta decise di spostare la sua attività nei capannoni dove veniva prodotta l’Isotta Fraschini (e la cosa sarà funzionale al suo successo) e lì iniziò a produrre dapprima grandi elettrodomestici, poi motocicli e infine, fiutando il cambiamento, decise di convertire l’azienda nella produzione di auto, dando vita alla “Iso Automobili S.p.a.”.

Erano gli anni del dopo guerra, l’Italia aveva già acceso la miccia che di lì a poco avrebbe fatto esplodere il boom economico e la Fiat Topolino faceva sognare milioni di italiani, ancora privi del potere di acquisto necessario ad averla. Rivolta voleva produrre un’auto che fosse piccola, comoda e alla portata del grande pubblico, una utilitaria che permettesse a tutti di diventare automobilisti. Per realizzare l’auto (e il sogno) Rivolta si rivolse all’ingegner Preti, giovane e di provenienza aeronautica, il quale dopo aver definito i requisiti di progetto passò la palla all’ingegner Raggi, anche lui di provenienza aeronautica, per disegnarne la carrozzeria. Raggi e Preti (rifacendosi al progetto che Preti aveva presentato per la propria tesi di laurea) disegnarono un’auto caratterizzata da un corpo a uovo con l’aperura sul davanti, con un grande portellone dalla base al tetto, vetri molto grandi, due ruote anteriori e, inizialmente, una ruota posteriore, sostituita immediatamente con una struttura a due ruote (molto vicine per evitare il differenziale) per diminuire i rischi in caso di foratura.

Il motore, chiamato Iso 200, di 198cc di cilindrata e 8,5 cv di potenza, raffreddato ad aria fu realizzato partendo dai disegni del motore di accensione degli aerei attrezzati con propulsore Isotta Fraschini, in uso all’aviazione italiana durante la seconda guerra mondiale. Il cambio era a 4 marce e non era prevista la retromarcia, mentre la trazione era posteriore.

Le linee del disegno originale, che diedero vita al primo prototipo, furono addolcite mediante l’apposizione di due parafanghi laterali mentre il piantone dello sterzo fu agganciato al portellone anteriore: di fatto si piegava su un lato quando il portellone veniva aperto, lasciando libero l’accesso al guidatore e al passeggero. Sulla parte posteriore trovava spazio un piccolo portabagagli. Il paraurti anteriore copriva solo i due spigoli dell’auto, che si distingueva, oltre che per la forma, anche per l’ampia superficie vetrata che assicurava una visibilità superiore agli standard dell’epoca. Il tetto, fatto di tela, era apribile.

Il motore di 8 cavalli e mezzo assicurava una velocità di circa 75 km/h ma soffriva in salita mentre il prezzo, inferiore a quello della Topolino, non era così basso da essere abbordabile dalla grande utenza. Nonostante dopo il lancio l’auto avesse ben figurato alla 1000 miglia e ad altre competizioni famose, incuriosiva il pubblico ma non riusciva a convincere il mercato e le vendite stentavano.

Si arrivò così al 1954 quando al salone di Ginevra la piccola vettura della Iso venne notata da un importatore svizzero della BMW, che la segnalò alla casa madre, che a sua volta pochi mesi dopo inviò il responsabile della sezione collaudi al salone di Torino a parlare con Rivolta e a chiudere un accordo preliminare per la concessione del brevetto. Preludio all’accordo definitivo (verrà chiuso a Milano pochi giorno dopo) grazie al quale la BMW poté iniziare a produrre la Isetta.

I tempi erano stretti e il lancio della nuova vettura, denominata BMW 250, avvenne nel marzo del 1955, con la presentazione alla stampa. Rispetto alla Isetta, la versione tedesca aveva i finestrini laterali abbassabili e un impianto di riscaldamento che la rendeva più confortevole, inoltre era spinta da un propulsore di 250cc (da cui il nome) che erogava una potenza di 12,5 cv.

L’auto, data subito in prova ai giornalisti, piacque e molto. Convinse subito la stampa e anche gli automobilisti, colpiti dai bassi consumi (33 km circa con un litro di benzina), il buon livello di comfort, il design assolutamente innovativo, il prezzo abbordabile.

La BMW 250 fu un vero e proprio successo. Rivolta ricevette una lettera di ringraziamento al raggiungimento delle 50.000 unità vendute, ma era solo l’inizio: la BMW mise in produzione anche la 300 e la 600 equipaggiate con propulsori più potenti e più confortevoli rispetto alla versione 250. La piccola Isetta che in patria non piaceva ed era considerata brutta divenne la prima vettura a basso consumo prodotta in serie e il monocilindrico più venduto nella storia dell’automobile. Grazie ai guadagni provenienti dalle vendite di questa piccola utilitaria la casa tedesca trovò la liquidità per riprendere la ricerca e lo sviluppo di nuovi modelli di auto da lanciare sul mercato.

Il sogno di Renzo Rivolta, di creare un’auto piccola, funzionale, economica, ma con un design ricercato e ricca di soluzioni tecniche è arrivato fino ad oggi. È di questi giorni difatti l’annuncio della Tezzari di Imola, casa specializzata nella costruzioni di auto a emissioni zero, dell’accordo con la Micro Mobility System di Küsnacht in Svizzeraper la produzione e la vendita della Microlino (qualcuno li perdoni per il nome). Auto identica alla vecchia Isetta, ma totalmente elettrica di cui si prevede una vendita che potrà arrivare alle 15.000 unità ma per la quale ci sarebbero già 1.500 prenotazionidi utenti che ne hanno visto il prototipo all’ultimo salone di Ginevra.

Sembra difficile da credere, ma la storia dell’auto insegna che senza la Isetta forse la BMW oggi non sarebbe il leader mondiale nella produzione di auto di lusso che tutti conosciamo e che parte della sua fortuna la deve alla più piccola delle auto che ha mai prodotto, nel dopoguerra, nata dalle idee innovative (per alcuni addirittura visionarie) di un imprenditore e di due ingegneri, che volevano costruire aeroplani e si trovarono a dar forma ai sogni di Renzo Rivolta, Italiano, nato a Desio.

Iso Isetta – BMW Isetta

Prodotta dal 1953 al 1962
Esemplari prodotti: 161.728
Cilindrate: 200cc, 250cc, 300cc, 600cc

 

27 novembre 1868 – 151 anni fa la carneficina (impropriamente chiamata battaglia) di Washita – Altra luminosa pagina della gloriosa storia Americana che non conoscete: quando l’esercito comandato da Custer prese di sorpresa e sterminò anziani, donne e bambini Cheyenne che vivono nelle riserve…

 

Washita

 

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27 novembre 1868 – 151 anni fa la carneficina (impropriamente chiamata battaglia) di Washita – Altra luminosa pagina della gloriosa storia Americana che non conoscete: quando l’esercito comandato da Custer prese di sorpresa e sterminò anziani, donne e bambini Cheyenne che vivono nelle riserve…

 

Nel mese di ottobre 1867, il Maggiore Elliot condusse una scorta di consulenti per la Medicine Lodge Creek nel Kansas. Qui firmarono il famigerato trattato di Medicine Creek. Il Congresso però non tenne conto del Trattato sino al luglio 1868, perciò i Cheyennes attesero invano le promesse che in definitiva non arrivarono mai. Durante questo tempo di tensione nelle pianure, il Generale Phillip Sheridan prese il comando del US. Army Department of Missouri nel marzo del 1868.
Presto si segnalarono delle proteste da parte dei Cheyennes che si sentivano nuovamente traditi dal Governo per il non rispetto dei Trattati di Medicine Lodge Creek a sua volta firmati con i Capi Tribù interessati. Perciò il Governo inviò l’ordine all’agente Indiano Wynkoop di recarsi dai Cheyennes per un suo giudizio obbiettivo sulla reale necessità degli Indiani per il rilascio di forniture. Ma l’ordine avvenne troppo tardi. I Cheyennes nel frattempo si misero in stato di guerra contro i coloni nella terra che consideravano la loro, uccidendoli e facendoli prigionieri. Il 22 novembre 1868, George A. Custer ricevette gli ordini dal Generale Sheridan di lasciare Il Campo dei Rifornimenti per 30 giorni di missione di esplorazione. Quando Custer raggiunse il fiume canadese, mandò sui monti il Maggiore Elliot a esplorare. Dodici miglia a monte gli scouts di Elliot trovarono un sentiero indiano tracciato di fresco e quindì lo notificò a Custer che gli ordinò di seguirne le tracce. Tre dei suoi scout trovarono l’esatta posizione di un villaggio Cheyenne costituito da oltre 50 Tipì che erano sistemati sulle rive del fiume Pole Lodge che faceva parte del FiumeWashita.
11 Compagnie del 7° Cavalleria erano sotto il comando del Ten. Col. George A. Custer, di cui 3 Compagnie del 3° Fanteria, 1 del 5° Fanteria, 1 della 38°ma Fanteria e circa 450 carri provenienti dal Territorio Indiano di Fort Dodgefor. 
All’alba di quella rigida mattina del 27 novembre 1868, circa 700 uomini del 7° Cavalleria si prepararono ad attaccare il campo, mentre gli indiani, ignari di quello che stava accadendo erano ancora nel loro sonno. Con le note del “Garry Owen”, Custer si attestò nei pressi del villaggio con i suoi quattro battaglioni: il Maggiore Joel Elliot con le Compagnie G, H e M proveniente da nord-est; il Capitano William Thompson con le Compagnie B ed F, da sud; il Tenente John M. Johnson con la Compagnia E attestata a sud-ovest; Custer con le Compagnie A, C, D e K, da ovest. L’intento di Custer era di assassinare il maggior numero di Indiani da lui considerati “ostili”
Questo campo indiano Cheyenne era guidato dal Capo Black Kettle, un Suhtia. Black Kettle non mise alcun scout a guardia del proprio villaggio perché ritenne che non ce n’era motivo ed era ignaro di un attacco imminente da parte dell’esercito.
Le truppe di Custer irruppero nel villaggio con violenza e determinazione. Gli ordini erano di non risparmiare nessuno. Una pallottola colpì in pieno petto un capitano uccidendolo, i suoi uomini al suo seguito furono feriti all’addome dai fucili indiani. Il Maggiore Elliot si trovò tagliato fuori ma con la sua Compagnia riuscì a farsi breccia a est e inseguì gli indiani fuggitivi. Fu nuovamente tagliato dalla fuori dalla mischia e la sua compagnia fu uccisa. Durante l’attacco i Cheyenne uccisero 4 prigionieri bianchi tenuti ostaggi. Non è chiarto se Custer è stato capace di salvare gli altri due. Nel frattempo la Cavalleria aveva diviso in due il campo e a colpi di sciabola vennero falcidiati tutti gli occupanti dei Tipì, la maggior parte costituita da donne, vecchi e bambini. Le donne incinte furono sventrate e i feti lasciati sul terreno con le loro madri. Donne, bambini e anziani furono inseguiti tra le loro tende e abbattuti uno a uno come animali a colpi di sciabola dai soldati a cavallo, mentre coloro che tentavano di salvarsi venivano prima colpiti dai fucilieri in postazione, poi finiti e sventrati dalle armi bianche dei  soldati. Ai cadaveri delle donne, degli uomini e dei bambini furono tagliati i genitali. I cavalli dei Cheyenne furono macellati così come furono abbattuti 875 pony indiani.
Dopo aver fatto strage del campo, ucciso Black Kettle e Little Rock, dato fuoco ai Tipì e ucciso tutto il bestiame rimanente, Custer il 1° Dicembre, riuscì a portare con sé presso il Campo di Approvvigionamento dell’Esercito, il suo trofeo di guerra costituito da 52 prigionieri, tutte donne e bambini, che furono successivamente trasferiti a Fort Hayes nel Kansas, come prigionieri di guerra. Sul campo di Washita River  l’esercito perse complessivamente 21 uomini e i feriti furono 16.  I militari di Custer contarono sul terreno “nemico” solo i Cheyenne maschi uccisi che furono 103, non tennero conto invece delle donne e dei bambini massacrati, nemmeno dei molti dispersi che finirono annegati nelle acque gelide del Fiume Washita. 
Geroge A. Custer con il massacro di Washita firmò il suo atto di morte, che avvenne nella battaglia del 1876 presso il Fiume Little Big Horn: i Sioux coalizzati si vendicarono dei suoi orrori commessi ai danni dei fratelli Cheyennes.
Custer fu un grande sostenitore dell’idea che la natura dei Nativi era molto più crudele e feroce di qualsiasi bestia selvaggia del deserto. In seguito lui stesso venne giudicato da un suo ufficiale superiore come “crudele, bugiardo e senza principi morali, disprezzato da tutti gli ufficiali del suo reggimento”
Questo inutile massacro, appena quasi quattro anni dopo quello di Sand Creek nel Sud-Est del Colorado nel 1864, spazzò via tutti coloro che a Sand Creek sopravvissero, delle intere famiglie Cheyennes di antiche discendenze, non sopravvisse nessuno.
Secondo George Bent, le persone che furono trucidate nel massacro di Lodge Pole del Washita River furono:
Black Kettle, (Suhtai) Capo Consiglio;  Little Rock, (Cheyenne) Capo Consiglio.
11 guerrieri: Bear Tongue, High Bear, Blind Bear, White Bear, Cranky Man, Blue Horse, Red Thoots, Few Heart, Red Bird, Hawk . Tra di loro ci furono anche 1 Arapaho e 2 Siouxs (Lakota), 16 donne e 9 bambini.
La maggior parte di loro sono stati abbattuti vicino il fiume ghiacciato Washita o uccisi durante il tentativo di fuggire attraverso il ruscello. C’era poca possibilità di fuga. Quelli che furono fortunati a fuggire furono in pochi, molti furono i feriti, in gran parte erano bambini.  Il massacro di Lodge Pole River (Whashita) del 1868 è stato un genocidio deliberato ad opera di George A. Custer.

Un Cult: Fantozzi ed il varo con la Contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare…!

 

Fantozzi

 

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Un Cult: Fantozzi ed il varo con la Contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare…!

Dal film “Il secondo tragico Fantozzi” il varo della nave con la Contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare – Una delle scene più esilaranti del cinema Italiano. Godetevi il dialogo ed a seguire il video.

Narratore: Parte da 32 metri la Serbelloni Mazzanti Viendalmare.

Contessa: Capovaro… posso andare?

Capovaro: Vadi, contessa; vadi!

(la contessa tira la bottiglia che va a finire in testa a Fantozzi che cade in acqua)

Capovaro: Ecco, contessa!

Contessa: Un’altra bottiglia?

Capovaro: Si, prego!

Narratore: Riparte da 46 metri la Serbelloni Mazzanti Viendalmare!

Contessa: Capovaro… ri-posso andare?

Capovaro: Rivadi contessa, ma più centrale!

(la contessa colpisce di nuovo Fantozzi che è appena uscito dall’acqua)

Narratore: Fantozzi, questa volta, preferì attendere in acqua la conclusione della cerimonia…

Contessa: Capovaro… ri-riprovo?

Capovaro: Ri-rivadi contessa, ma, un po’ più a destra!

Narratore: Qui lo raggiunsero nell’ordine: sindaco con fascia tricolore, ministro della Marina Mercantile, centoduenne baronessa Filiguelli de Bonchamps, mascotte a vita della società; tutte le autorità vennero poi furtivamente varate a parte… Finita la riserva di Champagne, fu deciso di cambiare il rituale della cerimonia… taglio di un cavetto metallico che avrebbe messo in moto il meccanismo del varo. Riparte da 76 metri la Serbelloni Mazzanti Viendalmare!

Capovaro: Vadi, vadi contessa!

Contessa: Taglio! In nome di Dio!

(la contessa colpisce con l’accetta la mano dell’Arcivescovo che urla)

Narratore: Mignolo netto dell’Arcivescovo con Anello Pastorale!

Arcivescovo: Porcaccia di quella… (la banda suona la marcia “sul ponticello” e l’Arcivescovo insegue la contessa con l’accetta in mano)

Narratore: La nave, fu poi varata nel tardo pomeriggio quando si fu placata la furia omicida del porporato…