Ecco come i Nativi Americani stanno salvando il bisonte dall’estinzione voluta dalla crudeltà, dalla scelleratezza e dalla meschinità dell’uomo bianco

 

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Ecco come i Nativi Americani stanno salvando il bisonte dall’estinzione voluta dalla crudeltà, dalla scelleratezza e dalla meschinità dell’uomo bianco

Nella foto: Una montagna di teschi – Con crudeltà, scelleratezza e meschinità, l’uomo bianco voleva l’estinzione del bisonte per affamare i Nativi Americani…

Leggendo qua e là

…L’Esercito non aveva tra i suoi compito quello di accompagnare i ricconi dell’est a cercare emozioni nelle battute di caccia, ma era molto interessato a tutto ciò perché era tra i suoi interessi quello del controllo dei nativi americani e, se possibile, del loro annullamento e questo era possibile raggiungerlo anche attraverso il controllo dei bisonti che erano fonte primaria di cibo e di mille altre cose per gli indiani…

“Uccidi tutti i bufali che puoi! Ogni bufalo morto è un indiano in meno”.

…Oggi può sembrarci assurdo, eppure al tempo del west i coloni ed i cacciatori americani uccisero bisonti senza sosta fino quasi a portare quella specie animale alla quasi completa estinzione. I turisti dell’est fecero la loro parte, sparando agli animali dai finestrini dei treni come se il massacro potesse durare per sempre…

 

Da GreenMe:

I nativi americani stanno salvando così il bisonte dall’estinzione

Le tribù native americane stanno salvando il bisonte dall’estinzione. Questo mammifero, oltre ad essere una forma di sostentamento, svolge un ruolo fondamentale nella spirituale della tribù, ecco il perfetto equilibrio che si è stabilito nel Nord America.

5mila ettari di praterie non arate nel nord-est del Montana e centinaia di bisonti selvaggi che vagano. Ma questa mandria non si trova in un parco nazionale o in un santuario protetto, ma bensì nelle terre ancestrali delle tribù di Assiniboine e Sioux di Fort Peck Reservation.

Proprio qui c’è il più grande allevamento di bisonti e solo grazie ai nativi. Fino a centinaia di anni fa, sulla Terra vivevano 30milioni di bisonti, un mammifero ricordiamolo, sopravvissuto anche all’Era glaciale, ma non all’intervento dell’uomo.

Dopo il viaggio di Colombo, i colonizzatori bianchi per occupare i territori dei nativi utilizzarono ogni mezzo, compreso quello del massacro dei bisonti, prima fonte si sostentamento delle tribù. Aggiungendo a questo i cambiamenti climatici, nel giro di poche decine di anni, il bisonte è passato da decine di milioni all’orlo dell’estinzione.

Vogliamo riportare questi importanti bisonti nella loro dimora storica delle Grandi Pianure”, dice Jonathan Proctor, direttore del programma di Rockies and Plains dell’Ong Defenders of Wildlife , che lavora accanto alle tribù per salvare questo animale.

Dopo il massacro del 19esimo secolo, erano sopravvissuti solo 23 bisonti in una remota valle di Yellowstone. Oggi la mandria è di 4mila e questi animali vivono allo stato brado, non sono addomesticati né stati fatti accoppiare con altro bestiame, mantenendo così la purezza genetica.

Da anni, le tribù difendono i mammiferi dalla legislazione del Montana che è anti bufali. Ma per i nativi questi animali giganteschi sono una risorsa.

Grazie a loro, abbiamo visto l’ecosistema rivivere. Gli uccelli delle praterie sono tornati, le erbe autoctone prosperano. Li accogliamo con gioia e aspettiamo i benefici che portano nelle nostre terre tribali”, dicono.

Grazie a un trattato con il governo, l’anno scorso, Blackfeet Reservation, sempre nel Montana, ha ricevuto 89 bisonti geneticamente puri da Elk Island in Canada. Adesso le tribù stanno negoziando con i funzionari statali per consentire a questi bufali, che sono sani e senza la temuta brucellosi, di recarsi liberamente nel parco nazionale del ghiacciaio e persino, si spera, un giorno a nord del parco nazionale dei laghi di Waterton.

“Le tribù delle pianure settentrionali sono la guida giusta per il ripristino dei bisonti selvatici in questo momento”, ha detto Proctor.

E tra 50 anni, la comunità di conservazione spera di avere almeno 10 mandrie di bisonti con mille animali.

Felix Finkbeiner, il ragazzo che pianta alberi per salvare il pianeta – E guardate che c’è poco da sorridere: ad oggi, a soli 21 anni, mentre voi fate gli ecologisti col culo ben saldo sul divano, di alberi ne ha già piantati 15 miliardi…!

 

 

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Felix Finkbeiner, il ragazzo che pianta alberi per salvare il pianeta – E guardate che c’è poco da sorridere: ad oggi, a soli 21 anni, mentre voi fate gli ecologisti col culo ben saldo sul divano, di alberi ne ha già piantati 15 miliardi…!

Felix Finkbeiner aveva 9 anni quando decise che avrebbe realizzato il suo sogno: piantare un milione di alberi in ogni paese del mondo per cercare di salvare il pianeta. Oggi Felix ha 21 anni e di alberi ne ha piantati 15 miliardi, grazie al suo movimentoPlant-for-the-Planet, il cui motto “stop talking start planting”, la dice lunga sulla determinazione di un ragazzo che già da bambino comprese le problematiche inerenti al clima e decise di farsi portavoce di un nuovo modo di pensare e di guardare al mondo. Oggi la sua vocazione green non si è spenta, ma si è consolidata tanto da porsi un obiettivo veramente improbo: piantare 1000 miliardi di alberi in modo tale da assorbire un quarto della CO2 prodotta dall’uomo.
Sul pianeta, al momento, ci sono circa 3000 miliardi di alberi, ma questo numero è in forte calo, a causa della deforestazione mondiale. Deforestazione e cambiamenti climatici sono strettamente legati alla povertà sociale, a problemi economici e migratori; ma anche politiche economiche sbagliate sono responsabili della crisi climatica.

alberi

La povertà rende vulnerabili anche ai cambiamenti climatici, e viceversa. Infatti i paesi poveri dipendono ancora dalla pioggia per l’irrigazione e di conseguenza per il loro sostentamento. La frequenza e l’intensità crescente degli shock climatici incide sulla loro capacità di vendere un surplus agricolo, il che significa minor capacità di reinvestire gli utili nelle attività di sussistenza e minore possibilità di rispettare una dieta nutriente. Il timore è che 100 milioni di persone possano essere spinte nel baratro della povertà estrema dal riscaldamento globale.

I cambiamenti climatici hanno un impatto negativo non solo sulla salute e sulla sicurezza ambientale, ma anche sulla società: la scarsità delle risorse è spesso fonte di conflitto fra le diverse comunità e di migrazione esterna ed interna. L’innalzamento del livello degli oceani è destinato a provocare enormi migrazioni dalle regioni di bassa quota, come il Bangladesh, o dalle aree molto esposte agli uragani, come il sud degli Stai Uniti. Tali spostamenti sono però resi difficili da una moltitudine di confini e sono destinati a provocare gravissimi tumulti politici e sociali. Nessuno vorrebbe lasciare le proprie case e famiglie e per questo devono aumentare progetti ed investimenti per lo sviluppo all’interno dei paesi in sofferenza, mentre a livello internazionale, si devono ridurre le emissioni.

Ma non serve andare troppo lontano per vedere con i propri occhi le conseguenze dei cambiamenti climatici. Dal Veneto alla Siciliasono tanti i comuni italiani colpiti da frane, esondazioni, trombe d’aria. Nonostante il cambiamento climatico sia un dato di fatto, l’Italia continua ad essere impreparata. Il rischio idrogeologico è evidente sul nostro territorio, ma si continua a costruire in aree soggette a vincoli idrogeologici, sismici e paesaggistici. La cementificazione eccessiva e il condono non fanno bene all’Italia che, ogni anno, è provata e prostrata da calamità di una frequenza e violenza inaudita. E questo senza tener conto dei costi della ricostruzione che invece sarebbero ridotti se si investisse maggiormente sulla prevenzione, su progetti di adattamento ai cambiamenti climatici, sulla manutenzione e riqualificazione del rischio, a partire dagli spazi pubblici e di allerta dei cittadini.

Si può mettere un freno alla crisi climatica?

Considerato che il clima sta cambiando sopratutto a causa dell’ingerenza dell’uomo, sì qualcosa si può fare per riequilibrare il pianeta. Innanzitutto far comprendere ai governi e ai potenti che salvare il pianeta significa anche salvare noi stessi da un’estinzione che a dirla tutta ci saremmo meritata già decenni, se non centinaia di anni fa. Il secondo passo è educare: educare al rispetto della Natura, alla bellezza, agli essere viventi. Infine, come ci ha insegnato Felix, piantare alberi, dovunque, ogni anno, così da ridare ossigeno a un malato che sta collassando non per cause naturali, ma esterne.

E se non dovesse essere chiaro….le cause esterne siamo noi.

Rosa Araneo per MIfacciodiCultura

tratto da: http://www.artspecialday.com/9art/2018/11/30/felix-finkbeiner-ragazzo-pianta-alberi-salvare-pianeta/?fbclid=IwAR3sXjoHDhYAvWHIRQ98mB9H6Zxz1PNm9sirB7k47ortWYj3ZOMlWlzhIsY

Per non dimenticare quanto la razza umana possa fare schifo – Non vi potete sbagliare, la CAROGNA non è il bellissimo e rarissimo esemplare di giraffa nera ammazzato…!

 

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Per non dimenticare quanto la razza umana possa fare schifo – Non vi potete sbagliare, la CAROGNA non è il bellissimo e rarissimo esemplare di giraffa nera ammazzato…!

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Lo scorso anno, aveva sparato e ucciso una giraffa in Sud Africa. Nei giorni successivi la cacciatrice, originaria del Kentucky, in memoria delle crudeli gesta ha pubblicato la foto sul proprio profilo Facebook. E il mondo dei social non è rimasto a guardare. Nel giro di qualche ora, le foto sono diventate virali e sono arrivati migliaia di commenti di insulti.

In posa con il cadavere dell’animale, Tess Thompson Talley, 37 anni, aveva inizialmente caricato le foto scattata dopo una una battuta di caccia avvenuta un anno fa, a giugno 2017. Il suo post è stato cancellato, ma le foto sono state ampiamente condivise online.

Il giornale Africlandpost ha condiviso le foto il 16 giugno, in un tweet diventato virale, in cui la donna è stata accusata di avere ucciso “una rarissima giraffa nera per gentile concessione della stupidità del Sud Africa”. Il tweet è stato condiviso oltre 45.000 volte.

Visualizza l'immagine su TwitterVisualizza l'immagine su Twitter

AfricaDigest@africlandpost

White american savage who is partly a neanderthal comes to Africa and shoot down a very rare black giraffe coutrsey of South Africa stupidity. Her name is Tess Thompson Talley. Please share

Eppure, non c’è indicazione che la battuta di caccia di Talley fosse illegale. La donna ha addirittura detto che uccidere la giraffa abbia contribuito agli sforzi di conservazione.

“La giraffa che ho cacciato era la sottospecie sudafricana della giraffa. Il numero di questa sottospecie è in realtà in aumento dovuto, in parte, ai cacciatori e agli sforzi di conservazione pagati in gran parte dalla caccia grossa” si è difesa.

È emerso che la giraffa uccisa non era del tutto rara ma ciò non toglie che ucciderla e vantarsene sia stato un gesto crudele.

Talley ha pubblicato ulteriori commenti sulla sua pagina Facebook, alcuni da rabbrividire, sostenendo che gli animali, in quanto tali, non hanno diritti.

Purtroppo finché la caccia non sarà resa illegale, i cacciatori potranno agire indisturbati e condividere le loro gesta sui social.

Un progetto straordinario: far fiorire il deserto del Sahara grazie a eolico e fotovoltaico.

 

Sahara

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Un progetto straordinario: far fiorire il deserto del Sahara grazie a eolico e fotovoltaico.

Il deserto del Sahara può essere trasformato in una valle verde e rigogliosa? Secondo alcuni ricercatori, sì.

Uno studio dell’Università dell’Illinois ha provato a calcolare l’impatto che avrebbero impianti eolici e fotovoltaici sulle precipitazioni nel Sahara. E quindi di quanto potrebbe crescere la vegetazione nell’area.

Vediamo insieme cos’hanno scoperto.

9 milioni di km quadrati nel deserto del Sahara

Lo scopo della ricerca era indagare cosa accadrebbe se un’are di 9 milioni di km quadrati nel deserto del Sahara fosse coperta da impianti per l’energia rinnovabile. Hanno preso in considerazione un’area del Sahel, regione semi-arida a sud del Sahara. Qui, nei territori dove sono state installate diverse pale eoliche, le piogge sono aumentate mediamente di 1,12 millimetri al giorno.

Riportando i risultati al deserto del Sahara hanno quindi provato a stimare cosa succederebbe in uno scenario simile. Hanno considerato un’area scarsamente popolata, esposta al vento e, ovviamente, dove il sole picchia abbondantemente.

 I ricercatori hanno previsto che l’installazione di enormi pannelli solari e di numerose turbine eoliche, potrebbe aumentare le precipitazioni e quindi aiutare la vegetazione a crescere.
Il deserto del Sahara potrebbe diventare verde:

 

«I risultati del nostro modello mostrano che impianti solari ed eolici su larga scala nel Sahara potrebbero raddoppiare le precipitazioni, specialmente nel Sahel, dove l’incremento delle precipitazioni potrebbe arrivare a 20-500 millimetri ogni anno».

Lo spiega il dottor Yan Li, principale autore dello studio. Che prosegue:

«Di conseguenza, la vegetazione potrebbe aumentare di circa il 20%».

L’impatto sarebbe positivo anche per le popolazioni locali. Lo spiega Safa Motesharrei, un altro degli autori della ricerca:

«L’incremento delle precipitazioni porterebbe al miglioramento sostanziale dell’agricolturadella regione. Così come la crescita della vegetazione spontanea potrebbe favorire gli allevamenti».

Motesharrei ricorda che “il Sahara, il Sahel e il Medio Oriente sono tra le regioni più aride al mondo”. Allo stesso tempo, “le loro popolazioni sono in crescita, così come la povertà”. Incrementare le precipitazioni porterebbe importanti miglioramenti “alla sfida che il ciclo energia/acqua/cibo comporta nella regione”.

Come avviene il processo?

Ma com’è possibile che le pale eoliche e i pannelli fotovoltaici riescano a far piovere di più?

A quanto pare, la rotazione delle pale causa il mescolamento dell’aria. L’aria più calda, presente più in alto, viene spinta verso il basso. Questo provoca a sua volta maggiore evaporazione e quindi più precipitazioni. E infine, la crescita della vegetazione.

«Gli impianti eolici spingono il vento a convergere verso aree di bassa pressione. Quest’aria deve quindi risalire, raffreddandosi e facendo condensare l’umidità, il che porta all’incremento delle piogge».

Allo stesso tempo, i pannelli solari riducono la riflessione della luce solare operata dal nostro pianeta (il cosiddetto effetto albedo). Di conseguenza, i terreni desertici assorbono maggiore energia solare, aumentando ancora il calore in superficie. Il che può aumentare la probabilità di precipitazioni del 50%, secondo i ricercatori.

Ma tutto questo calore in più, non va a peggiorare il global warming? Secondo gli autori no. O perlomeno non in misura considerevole:

«Il riscaldamento locale prodotto da impianti eolici e solari è molto piccolo, se comparato alla riduzione del surriscaldamento che il ricorso all’energia rinnovabile implica».

L’idea è: se usiamo più energia solare ed eolica, ridurremo le emissioni di gas serra. E questo ridurrà di molto le temperature globali, anche se quegli stessi impianti contribuiscono in minima parte al riscaldamento.

Alimentare tutto il pianeta quattro volte

I benefici non sarebbero solo per il deserto del Sahara e le regioni limitrofe. I ricercatori hanno infatti calcolato l’area dove installare gli impianti a energia rinnovabile, anche in base alla possibilità di trasferire l’elettricità prodotta in altre regioni, come l’Europa. Secondo i loro calcoli, questi mega impianti potrebbero produrre coprire il fabbisogno energetico mondiale di quattro volte. Ogni anno.

D’altronde non è una novità. Già negli anni ’80, Gerhard Knies, ricercatore tedesco, esperto di fisica delle particelle, calcolava che i deserti di tutto il mondo ricevono in sei ore più energia dal Sole di quanta ne sia necessaria per l’intera umanità.

La domanda allora è: cosa stiamo aspettando? Perché continuiamo a incaponirci con le fonti di energia fossile?

Se lo chiede anche il dottor Li:

«Il messaggio principale per le persone, i politici e gli investitori è: installare questi impianti solari ed eolici porterebbe un enorme beneficio alle persone, alla società e all’ecosistema. La nostra speranza è di cambiare il modo in cui otteniamo energia. Il che porterà a incrementare le scorte di cibo e acqua potabile, migliorando la vita sul nostro pianeta».

 

tratto da: https://www.ambientebio.it/ambiente/energia/il-deserto-del-sahara-fiorira-eolico-e-fotovoltaico/

Una casa per tutti: costruire con il bambù

 

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Una casa per tutti: costruire con il bambù

Nel mondo mancano alloggi a prezzi accessibili. Il problema è così grande che in tutto il mondo servirebbero 3.000 miliardi di dollari. Solo nel 2015 sono stati spesi tra i 300 e i 500 miliardi di dollari.

Poiché l’edilizia popolare beneficia sia di sovvenzioni che di garanzie statali, i suoi risultati finanziari hanno attirato gli investimenti privati.

I programmi di edilizia popolare in Brasile offrono un’idea dell’entità della domanda su scala globale. Dal 2010 al 2014 il Brasile ha costruito 2 milioni di case popolari ad un costo medio di 15.000 euro l’uno, a fronte di un’iniezione di liquidità da parte dello Stato per 30 miliardi di euro.

Tuttavia, la domanda in Brasile è di 5,6 milioni di unità abitative, e così anche con questo sforzo straordinario, oltre il 60% delle famiglie bisognose è ancora lasciato senza casa.

Ciò crea molto spazio per iniziative private che integrano l’azione del governo. Il Sudafrica, alla fine dell’Apartheid nel 1994, aveva l’obiettivo dichiarato di costruire un milione di case in più, soddisfacendo oggi solo il 14% di quelle esigenze abitative.

L’investimento nell’edilizia popolare è l’unico settore edilizio caratterizzato da una crescita a livello mondiale e da un interessante ritorno sugli investimenti.

Ma c’è un problema?

Mentre nel settore immobiliare tradizionale c’è un guadagno che va dal 25% al 35% di utile sul capitale investito, i programmi di edilizia residenziale sostenuti dallo Stato, in generale, offrono solo il 10% di ritorno. Tuttavia, sono investimenti a basso rischio e che attraggono chi è in cerca di rendimenti stabili e sicuri.

Ecco cosa si può fare.

Architetti e urbanisti hanno speso molto tempo e impegno nella progettazione di case a prezzi accessibili, concentrandosi principalmente sulla riduzione dei costi, in particolare eliminando la manodopera attraverso sistemi di costruzione prefabbricati. Le case popolari in Brasile costano ancora 15.000 euro per unità, mentre in India l’investimento di capitale in una casa può arrivare fino a 4.500 euro. Ovviamente non sono prezzi alti e, inoltre, si offrono case migliori delle baraccopoli, ma non consentono di avere case soddisfacenti.

Uno dei problemi principali è che l’edilizia popolare consuma enormi quantità di cemento e calcestruzzo e questo crea importanti emissioni di gas a effetto serra.

Da qui l’innovazione.

Simon Velez, architetto colombiano, e Marcelo Villegas, ingegnere di spicco, hanno beneficiato entrambi del grande lavoro pionieristico di Oscar Hidalgo, il maestro dell’architettura del bambù. Si resero conto che quando gli spagnoli colonizzarono gli altopiani andini della Colombia e dell’Ecuador, non incontrarono foreste pluviali, ma piuttosto scoprirono massicce foreste di bambù dominate dalla Guadua angustifolia, un’erba gigante che poteva produrre per settant’anni fino a sessanta pali da 25 metri all’anno.

Il bambù è un ottimo materiale da costruzione, e come testimonianza si trovano ancora centinaia di case coloniali di più di 200 anni. In Cina ce ne sono molte e quelle più antiche si dice abbiano 3.000 anni. Così Simon e Marcelo studiarono cosa si poteva fare per poter costruire case per tutti senza generare rifiuti e gas serra.

Simon capì che il bambù ha bisogno di essere protetto dal sole e dalla pioggia, mentre Marcelo progettò un’ingegnosa tecnica di giunzione.

Quando Klaus Steffens, dell’Università di Brema, ha eseguito le stesse prove, è rimasto così impressionato che si è impegnato a ottenere una licenza edilizia per questo materiale da costruzione naturale e per questa innovativa tecnica costruttiva. Il bambù non è solo un acciaio vegetale, ma è anche bello e, inoltre, contribuisce al problema dell’anidride carbonica.

Simon ha rapidamente convertito il successo dei suoi progetti in programmi di edilizia popolare in risposta al terremoto che ha colpito la regione Eje Cafetero, donando i disegni al governo locale per l’uso open source.

Sessantacinque pali di bambù bastano esattamente per costruire una casa di 65 metri quadrati a due piani con un grande balcone. Questo edificio costa meno di 15.000 dollari, e mentre la maggior parte della popolazione considera il bambù un simbolo di povertà, questa casa con un balcone (simbolo della classe media superiore) ha trasformato la costruzione in una casa molto desiderata. A dieci anni di distanza da questi edifici pionieristici sparsi in tutta l’America Latina, gli alloggi in bambù si sono affermati come una delle più promettenti innovazioni nella progettazione di edifici a emissioni zero sia per i ricchi che per i poveri.

Ma c’è qualcosa di più.

Simon e Marcelo non si sono mai preoccupati di brevettare nessuna delle loro invenzioni, ma hanno condiviso liberamente le loro intuizioni, trascorrendo molto tempo con i lavoratori che spesso non sanno leggere o scrivere, per trasferire le loro intuizioni sulle tecniche su come costruire. Migliaia di edifici sono emersi in tutto il mondo utilizzando questa tecnica open source, riassunte nel libro “Crescere la propria casa”.

Oggi oltre un miliardo di persone vivono in case di bambù, sono nati posti di lavoro, si è risparmiato CO2, ma pochi si rendono conto che le foreste di bambù temperano l’effetto isola di calore, con fino a dieci gradi in meno.

Abbiamo di fronte un programma di edilizia popolare che fornisce acqua potabile supplementare e abbassa la temperatura della Terra. Mettiamolo in atto.

fonte: http://www.beppegrillo.it/una-casa-per-tutti-costruire-con-il-bambu/

Ricordate l’Agente Smith in Matrix? “L’essere umano è un virus, è un’infezione, una piaga, un cancro su questo pianeta” …Forse aveva ragione: Abbiamo cancellato dal Pianeta il 60% delle specie animali in soli quarant’anni…!

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Ricordate l’Agente Smith in Matrix? “L’essere umano è un virus, è un’infezione, una piaga, un cancro su questo pianeta” …Forse aveva ragione: Abbiamo cancellato dal Pianeta il 60% delle specie animali in soli quarant’anni…!

 

Prima di leggere l’articolo, ecco cosa dice l’agente Smith a Morfeus…

La popolazione mondiale continua a crescere, le foreste abbattute per creare campi agricoli, abbiamo riempito il pianeta di pozzi, raffinerie, impianti chimici, plastica nel mare, abbiamo causato cambiamenti climatici, abbiamo praticato la pesca irresponsabile, tollerato i bracconieri nelle foreste, ci siamo avvelenati con i pesticidi e tutti vogliono vivere come gli occidentali, portando al consumismo sfrenato a livello planetario.

Siamo oggi a 7.5 miliardi di persone, il doppio di 40 anni fa.

Trecento specie di mammiferi sono in via di estinzione perche’ ne mangiamo troppi.

Abbiamo usato energia, terra ed acqua piu di quanto non potessimo permetterci.

Dal 1950 ad oggi abbiamo tirato su dal mare 6 miliardi di pesci, grazie alla pesca industriale, sostiutendoli con plastica.

Il 90% dei coralli a livello mondiale e’ a rischio di estinzione.

Abbiamo abbattuto le foreste per farci piantagioni di soya o di olio di palma.

Nella savana tropicale ogni due mesi scompare un area grande quanto Londra.

Le meta’ delle orche assassine morira’ per inquinamento chimico nel mare.

Il risultato di queste nostre azioni e’ del tutto consequenziale: il numero di animali che vivono allo stato selvaggio e’ in declino, con la scomparsa del 60% delle specie animali nel corso degli scorsi 40 anni.

Sono cifre impressionanti, rilasciate dal WWF mondiale Living Planet Report 2018. 

Lo studio ha coinvolto 59 scienziati in tutto il pianeta ed ha concluso che noi uomini stiamo distuggendo gli equilibri che in milioni di anni ci hanno permesso di sviluppare la nostra civita’, basata su acqua pulita e aria respirabile.

Sono stati studiati gli impatti dell’attivita’ umana su popolazioni di mammiferi, uccelli, pesci, anfibi e rettili, dal 1970 al 2014, e l’analisi ha riguardato 4,005 specie animali distinte, con 16,704 esemplari in totale. di Appunto, il 60% delle specie selvagge e’ andato estinto.

Le popolazioni di rinoceronti sono calate del 63% fra il 1980 e il 2006 a causa del mercato illegale delle loro corna.

Le popolazioni di orsi polari, gia’ in declino, caleranno del 30% entro il 2050 a causa dello scioglimento delle nevi.

Le popolazioni di squali nell’oceano indiano e in quello pacifico sono scese del 63% negli scorsi 75 anni.

Le popolazioni di pappagalli grigi africani nel Ghana sono calate del 98% fra il 1992 e il 2014 a causa della perdita di habitat.

Le popolazioni di pulcinelle di mare, uccelli acquatici, in Europa caleranno del 79% fra il 2000 e il 2065.

Le specie piu a rischio sono nei Caraibi e nell’America centrale e meridionale, con il declino dell’83% delle specie animali selvagge e dei pesci, dal 1970 al 2014. A rischio oranghi-tanghi, rinoceronti, elefanti, e altre specie della foresta tropicale.

La cosa importante da ricordare e’ che le foreste non sono terra sprecata, di nessuno, oppure un qualche cosa di carino, ma tutto sommato nonesseniziale. La natura ci consente di vivere, e’ il nostro habitat.

Le foreste mantengono un sacco di equilibri climatici, con gli alberi e l’assorbimento di CO2. Ma gli alberi sono la casa di tante specie animali che vivono in simbiosi con lei: gli animali fertlizzano la terra, e aiutano a diffondere i semi; estinti gli animali, la foresta ne soffre, e viceversa, senza foresta gli animali selvatici non hanno casa.
Perche’ non ne parliamo troppo della diversita’ che continua a declinare? Perche’ e’ un processo incerementale, che accade lontano. Non ce ne accorgiamo, gli squali e gli orsi sono fuori dagli occhi, fuori dal cuore.

E invece occorrerebbe ripensare lo status quo, smettere il sovrasfruttamento del pianeta e dei costi in tutto quello che facciamo. Le risorse naturali, si calcola, se dovessero essere quantificate in una cifra economica sarebbero $125 trillioni di dollari.

Tutto quello che abbiamo cercato di fare finora, non e’ stato sufficente ed occorre fare di piu’.

Si e’ gia’ parlato della sesta estinzione di massa, causata da noi uomini.

Perche’ la cosa migliore e’ mangiare meno carne? Perche’ la deforestazione e’ dovuta alla produzione di soya spesso esportata per dare da mangiare a maiali e a galline. Anche i corpi d’acqua, fiumi e laghi sofforono perche’ l’acqua viene usata a scopi di irrigazione per queste enormi piantagioni.
Il mondo parlera’ di tutte queste cose nel 2020, ad un meeting all’ONU per discutere ancora, di cambiamenti climatici, di oceani e biodiversita’.
Chissa’ quante altre specie saranno perse in questi due anni che ci stanno avanti.  Chissa’ quante parole nel frattempo.
tratto da: https://dorsogna.blogspot.com/

 

Se non vi vergognate già abbastanza di far parte della “razza umana”, leggete un po’ questo: “Leoni allevati in Sudafrica per diventare ingredienti di dolci, vino e medicine”

 

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Se non vi vergognate già abbastanza di far parte della “razza umana”, leggete un po’ questo: “Leoni allevati in Sudafrica per diventare ingredienti di dolci, vino e medicine”

 

In Sudafrica succede che animali selvatici come leoni vengano allevati per poi commercializzare le loro ossa. Nonostante l’indignazione internazionale da parte delle organizzazioni per la conservazione, tutto ciò continua ad accadere. Ecco cosa viene denunciato in due report.

Nel 2017, il ministro dell’Ambiente sudafricano, Edna Molewa aveva fissato a quota 800 il numero di leoni da abbattere, ma nel 2018 lo stesso ministro ha quasi raddoppiato a 1500 e il Dipartimento per gli affari ambientali non ha mai specificato i motivi su cui stabilire o espandere la quota.

 A denunciarlo sono due ricerche investigative che raccontano il triste mondo dell’allevamento di leoni in cattività in Sudafrica dove gli animali selvatici ‘servono’ per il commercio di ossa, legale e illegale, in Asia.

Il primo report è The Extinction Business curato dalla EMS Foundation con BAN, Animal Trading, il secondo è The economics of captive predator breeding in South Africa prodotto dal South African Institute of International Affairs (SAIA).

Secondo i report si stima che tra 7mila e 8mila leoni vivano in cattività in 300 strutture, letteralmente sono allevati per la cosiddetta ‘caccia in scatola’, ovvero per le loro ossa che vengono poi utilizzate nella medicina cinese.

In realtà, le ossa di leone sono spacciate nel mercato nero come ossa di tigre che secondo i cinesi, avrebbero il potere di curare reumatismi e impotenza. Vengono poi utilizzate per produrre un dolce, una barretta fatta anche con guscio di tartaruga e il vino di ossa di tigre che conferirebbe a chi lo beve energia e vigore.

Il tutto è documentato nei report dove si sottolinea che nessun altro paese, oltre il Sudafrica è autorizzato ad esportare le ossa di leone. C’è poi da dire, denunciano i report, che non esiste un database, quindi non si sa neanche quante strutture ci siano o un numero reale dei leoni in cattività.

“Sono decisamente costernato perché non esistono legittime motivazioni scientifiche per esportare gli scheletri”, dice Luke Hunter, direttore della conservazione di Panthera, gruppo internazionale per la conservazione dei grandi felini.

Come funziona?

Lo scheletro di un leone può arrivare a costare fino a 1500 dollari, le ossa sono vendute a quasi 800 dollari al chilo. Queste vengono importate in Asia e poi rivendute a peso d’oro. Una relazione di CITES sostiene che nel 2017 sono stati esportati 3469 scheletri.

 

tratto da: https://www.greenme.it/informarsi/animali/29089-leoni-ossa-sudafrica

A partire dalla Cina, è boom del traffico di pelle di elefante – La carogna umana è riuscita a trovare il modo più rapido per far estinguere questa stupenda specie…!

 

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A partire dalla Cina, è boom del traffico di pelle di elefante – La carogna umana è riuscita a trovare il modo più rapido per far estinguere questa stupenda specie…!

Gli esemplari vengono uccisi soprattutto in Birmania, ma anche in Laos, Tailandia e Malesia. I bracconieri uccidono i pachidermi con arco e freccia intrise di pesticidi, provocando la morte dell’animale in tempi rapidi ma tra atroci sofferenze. E il commercio avviene anche online, senza nessun controllo

Il commercio illegale di pelle di elefante sta aumentando. Vertiginosamente. Nel rapporto Skinned: The growing appetite for Asian Elephants, frutto di anni di ricerche sul campo e contatti diretti con i trafficanti, l’ong inglese Elephant Family ha acceso i riflettori sul fenomeno, in costante crescita a partire dal 2010. E lo ha fatto alla vigilia della conferenza sui traffici illeciti di specie animali protette che si terrà a Londra la prima settimana di ottobre.

Teatro di questo traffico è soprattutto la giungla birmana, ma casi simili sono stati riportati anche in Laos, Tailandia e Malesia. La Birmania vanta la seconda più numerosa comunità di pachidermi asiatici dopo quella tailandese. Solo nell’ultimo anno nel triangolo d’oro, la zona di confine tra Laos e Tailandia, sono state ritrovate 59 carcasse di elefante, un numero che mette a rischio estinzione i circa 2000 esemplari rimasti in cattività in Birmania. Da lì i carichi entrano in Cina transitando per Mong La, piccola cittadina e ormai avamposto cinese in Birmania ed epicentro di attività illegali sulla via per Kunming.

Il traffico pelle di elefante è molto più insidioso di quello di avorio, questione a cui la Cina, dopo essere finita nell’occhio del ciclone, ha di recente cercato di porre rimedio. Solo gli esemplari maschi dell’elefante asiatico sono dotati di zanne quindi, benché grave, il danno è limitato e non ha conseguenze significative sulle comunità di elefanti che sono poligame. Il traffico di pelle invece non discrimina per sesso od età, mettendo egualmente in pericolo maschi, femmine e giovani esemplari e rappresentando “il modo più efficace per portare una specie all’estinzione nel più rapido tempo possibile”, come ha affermato il biologo dello Smithsonian Institute Peter Leimgruber. In più, causa delle severe leggi birmane sul possesso di armi da fuoco, i bracconieri uccidono i pachidermi con arco e freccia intrise di pesticidi, provocando la morte dell’animale in tempi rapidi ma tra atroci sofferenze.

Da sempre utilizzata nelle zone tribali del Sud est asiatico come unguento per curare l’eczema, la destinazione del traffico di pelle di elefante oggi è però un mercato ben più vasto e complesso, quello cinese. Nella medicina tradizionale la pelle di elefante è essiccata e ridotta in polvere come ingrediente per preparati contro i problemi di stomaco e della pelle. Ma viene anche impiegata nella fabbricazione di gioielli e oggettistica in generale: monili, suppellettili fino alla scoperta di gioielli fatti di perline di pelle di elefante dal caratteristico e ricercato colore rosso sangueper via dei vasi sanguigni presenti nello strato più superficiale dell’epidermide degli animali.

Un fenomeno quello del commercio di parti animali che si inscrive nella logica del wenwan, letteralmente “giocattoli di cultura”. Si tratta di un hobby con le caratteristiche ormai della sottoculturain Cina. Il possesso di oggetti rari, esotici, vietati e quindi costosi e di difficile reperibilità rimanda a un ideale di sofisticatezza e unicità nel gusto che molti nuovi ricchi perseguono. In questa logica, il prestigio dell’oggetto e la sua desiderabilità vanno di pari passo con le difficoltà nel procacciarselo. Il cultore del wenwan si riferisce alla triade “nero, rosso, bianco” per indicare: il ricercatissimo corno di rinoceronte, il becco rosso del bucero dall’elmo e il bianco dell’avorio degli elefanti come aspirazione massima.

Il commercio di pelle di elefante si nutre di sistemi di collusione interni al territorio birmanotrafficanti e guide conniventi e trova nelle piattaforme di e-commerce come Baidu  ma anche Amazon le vetrine ideali, senza l’ombra di un controllo.

Nel frattempo il WWF ha creato una squadra di ranger in grado di bloccare i bracconieri e il governo di Yangon, da anni sotto i riflettori internazionali per la questione della minoranza musulmana dei Rohingya e di recente per l’arresto dei giornalisti della Reuters, è stato ben contento di dare il proprio appoggio alla campagna, progettando un piano di intervento per la conservazione delle specie animali in pericolo da implementare quanto prima.

Di ChinaFiles per ilfattoquotidiano.it

 

tratto da: https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/10/09/cina-traffico-di-pelle-di-elefante-e-boom-il-modo-piu-rapido-per-estinguere-la-specie/4641584/

Il fenomenale caso della riforestazione del Niger

 

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Il fenomenale caso della riforestazione del Niger

Il Niger è un piccolo stato africano che non se la passa troppo bene. È uno dei paesi più poveri del mondo ed è anche il crocevia di tanti migranti che partono da Nigeria, Guinea, Costa D’Avorio, Malawi e Senegal per venire in Europa. Questa però è una storia bella e ha per protagonisti gli alberi del Paese.

Siamo a Droum nel sud est del Niger. Sorgono qui varie piantagioni spontanee di Gao, detto anche albero di acacia bianca, che secondo i residenti ha poteri magici. Si tratta di alberi autoctoni della zona ma solo in anni recenti la riforestazione è diventata un fenomeno: in trent’anni sono nati duecentomila nuovi alberi di Gao su un’area di cinquemila ettari di terreno prima infertile e degradato. Non li ha piantati nessuno, sono nati da soli, ma dozzine e dozzine di contadini della zona li hanno ben coltivati, dando loro l’opportunità di radicarsi nel terreno e di moltiplicarsi.

I contadini hanno osservato che questi alberi creavano un micro ecosistema che portava miglioramenti alle coltivazioni agricole – le radici di questa pianta sono estese, assorbe azoto dall’atmosfera e lo rilascia nel terreno, aiutando a fertilizzare il suolo – e così li hanno accuditi, non abbattuti, e hanno attribuito al Gao poteri speciali.

In Niger la temperatura spesso si mantiene attorno a 40 gradi e l’ombra degli alberi fa miracolidando rinfresco agli animali selvatici, come i conigli, e alle caprette. I suoi rami sono utili come legna da ardere e dei suoi baccelli è ghiotto il bestiame domestico.
La leggenda narra che il Gao può curare infezioni respiratorie, sterilità, problemi digestivi, malaria, mal di schiena e pure l’influenza così Cooperative di donne lavorano la legna per farne medicine e sapone.

Secondo vari studiosi di botanica e di economia, si tratta di una delle trasformazioni più radicali di tutta l’Africa in termini di ecologia e di benessere comune. Non ci sono state qui le Nazioni Unite a portare soldi, ONG dall’Europa o missionari mormoni. È stata la gente del posto a capire e a aiutarsi da sola.

 

fonte: https://www.dolcevitaonline.it/il-fenomenale-caso-della-riforestazione-del-niger/

“NaturalMente contadini” il progetto nato alle pendici dell’Etna che si sta facendo conoscere in tutta Italia – La coltivazione responsabile, senza pesticidi e nel pieno spirito del recupero delle tradizioni.

 

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“NaturalMente contadini” il progetto nato alle pendici dell’Etna che si sta facendo conoscere in tutta Italia – La coltivazione responsabile, senza pesticidi e nel pieno spirito del recupero delle tradizioni.

 

“NaturalMente Contadini”: gli agrumi “responsabili” alle pendici dell’Etna

La loro è una coltivazione responsabile, senza pesticidi e nel pieno spirito del recupero delle tradizioni di una terra ricca di frutti se la si ama e la si rispetta. “NaturalMente contadini” è un progetto che si è insediato alle pendici dell’Etna e che sta facendosi conoscere in tutta Italia.

«Abbiamo deciso di chiamarci NaturalMente Contadini non a caso, in questo nome è racchiusa la nostra mission» spiega Ottone Carmelo Viscardo, uno dei promotori del progetto. «Siamo ragazzi della provincia di Catania che da qualche anno sperimentano un percorso di coltivazione e produzione “responsabile” di agrumi, in particolare del frutto principe della valle del Simeto e del comprensorio Etneo, ovvero il Tarocco di Sicilia, una qualità unica di arance con proprietà introvabili in nessun’altra parte del mondo».

«Il nostro giardino è situato alle pendici dell’Etna, più precisamente in contrada Sferro, un territorio situato tra Paternò e Centuripe ed è una delle zone maggiormente dedite alla coltivazione agrumicola – prosegue Viscardo – Il nostro è uno degli agrumeti più antichi della zona: impiantato negli anni 60 ed ereditato dalle mani amorevoli di mio padre, io (Carmelo) ho deciso, insieme all’appoggio della mia famiglia e ad alcune persone che hanno creduto in me, come Francesco, di continuare da dove lui aveva lasciato, convertendolo però verso un modello di agricoltura sostenibile e priva quindi di sfruttamento del suolo e dell’uomo. Crediamo infatti nella coltivazione attraverso metodi naturali e privi di pesticidi, nell’adozione di tecniche alternative come l’utilizzo di insetti antagonisti e nell’impiego di nutrienti naturali per le nostre piante. La nostra mission principale è quella di rispettare la terra, e quindi di “collaborare” con essa anziché sfruttarla, nella coltivazione dei nostri tarocchi».

«Ma NaturalMente Contadini nasce prima di tutto per trasmettere questo principio di biosostenibilità e rispetto per la natura – spiega ancora Viscardo – per questo sin da quando siamo nati abbiamo cercato di metterci in rete e di essere noi stessi il fulcro di una rete collaborativa ,  sia con i consumatori ma localmente anche con i produttori che hanno sposato i nostri stessi valori. Così abbiamo avuto il piacere di incontrare lungo il nostro cammino alcuni agricoltori locali che in modo naturale riescono a coltivare limoni e avocado; ed è proprio questa esperienza positiva, di relazione e condivisione che ci spinge ancora oggi a ricercare altri coltivatori che come noi amano la terra e la rispettano, perché crediamo che sia necessario comprendere che chiedere alla natura più di quanto questa riesca ad offrirci possa inevitabilmente ritorcersi contro di noi».

«Oltre all’aspetto prettamente agricolo, il progetto si pone altri due principi altrettanto importanti, i quali segnano profondamente il modus operandi delle attività svolte all’interno del progetto stesso: il primo principio può essere sintetizzato dicendo che non esistono clienti di NaturalMente Contadini, ma “sostenitori”, a cui, prima di vendere un prodotto, lo si racconta. Essi vengono resi partecipi del nostro lavoro durante tutto l’anno, informandoli di tutto ciò che si fa per portare i nostri frutti sulle loro tavole, secondo quali principi vengono pianificati gli interventi e quanto di naturale ed ecocompatibile ci sia in ognuno di essi. L’arrivo del prodotto sulle tavole dei nostri sostenitori infatti è solo la concretizzazione di un rapporto di fiducia genuino, che spesso parte da una conoscenza nata dalla nostra pagina facebook, dai nostri blog “appunti della terra” e “diario di campagna” contenuti nel nostro sito».

«L’altro principio a cui siamo fortemente legati è quello della filiera corta – proseguono i ragazzi di NaturalMente Contadini – Parlare di km0 specialmente per la vendita degli agrumi in Sicilia significherebbe intraprendere una fantastica battaglia contro i mulini a vento in perfetto stile Don Chisciotte, e non per quei banalissimi luoghi comuni che vedono il siciliano tipo come individuo “mentalmente arretrato” rispetto al resto del mondo, vi assicuro che non è così. Bensì semplicemente per il fatto che la grande disponibilità di prodotto locale ne azzera totalmente la domanda. La distribuzione diretta dal nostro giardino o dalla rete che abbiamo creato insieme agli altri produttori, direttamente fino alle tavole dei nostri amici ci permette di saltare totalmente gli step intermediari di compravendita, il che fa sì che il prodotto abbia un prezzo equo, e che su quel prezzo i coltivatori abbiano un guadagno dignitosamente accettabile».

«Bypassare la GDO specialmente nella vendita di frutta e verdura in Sicilia si traduce nel voltare le spalle ad una serie di politiche commerciali ed accordi locali che da anni opprimono l’agricoltura siciliana, la concorrenza spietata e l’abbattimento dei prezzi per l’aggressione dei mercati ha fatto nascere in Sicilia e soprattutto nel settore agrumicolo un vero e proprio cartello. I coltivatori tradizionali ogni anno sono costretti a cedere il loro raccolto accettando silenziosamente o quasi, prezzi di mercato indecenti che spesso non coprono le spese per gli interventi di coltivazione annuali. Ogni centesimo scontato sugli scaffali dei grandi ipermercati viene viscidamente negato ai produttori siciliani, i quali hanno nei commercianti locali il loro unico canale di vendita e per cui senza nessun’altra alternativa cercano di recuperare quanto più possibile per il loro raccolto. Noi di NaturalMente Contadini abbiamo detto no a questo sistema, e attraverso la pianificazione di raccolte e spedizioni settimanali riusciamo ad evitare tutto, dando così dignità sia al nostro lavoro che ai nostri amici consumatori attraverso ciò che mettiamo sulle loro tavole, direttamente dalla piante appena raccolti e totalmente naturali, in fase di coltivazione e distribuzione».

«Siamo consapevoli di quanto dura sia la nostra battaglia di fronte ai grandi colossi della distribuzione, ma il nostro obiettivo è quello di diffondere i nostri valori e di vedere crescere la nostra rete di sostenitori e produttori sempre di più, così… NaturalMente».

 

tratto da: http://www.ilcambiamento.it/articoli/naturalmente-contadini-gli-agrumi-responsabili-alle-pendici-dell-etna