Si chiama AMLA. È il frutto più ANTIOSSIDANTE in assoluto, è in grado di disintossicare il fegato e, pensate, ha 20 volte più vitamina C del succo d’arancia.

AMLA

 

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Si chiama AMLA. È il frutto più ANTIOSSIDANTE in assoluto, è in grado di rigenera il fegato e, pensate, ha 20 volte più vitamina C del succo d’arancia.

 

Nell’ayurveda si fa spesso riferimento ad un piccolo frutto chiamato amla (nome scientifico Phyllanthus Emblica Linn). Questo frutto viene usato da più di 5000 anni in India, col fine di ringiovanire il corpo e rinforzare il sistema immunitario.

Di colore giallo e verde, l’amla è molto diffusa in Asia ma poco conosciuta in Italia. Possiede antiossidanti come polifenoli e vitamina C, che proteggono da malattie croniche come cancro, malattie cardiache e diabete.

100 grammi di amla possono apportare al nostro corpo circa 450 milligrammi di vitamina C. Di seguito tutti i benefici di questo frutto:

  1. Cura il mal di stomaco. Tanti problemi addominali si possono risolvere con l’amla: diarrea, vomito, coliche, infezioni e altri problemi digestivi.
  2. Previene il diabete. L’amla migliora la funzione del fegato, aiuta a curare la pancreatite, il gonfiore e il dolore del pancreas. Il suo consumo regolare riduce il livello di zucchero nelle persone con diabete di tipo 2.
  3. Disintossica il fegato. E’ stato dimostrato scientificamente che l’amla è ottima nella pulizia del fegato in quanto aiuta ad espellere le tossine.
  4. Combatte il cancro. Gli antiossidanti contenuti nell’amla possono giocare un ruolo importante nel trattamento contro il cancro.
  5. Rigenera la pelle. Questo incredibile frutto viene usato contro eruzioni cutanee, brufoli e altri problemi della pelle.
  6. Stimola la crescita dei capelli. Mescola della polvere di amla con dell’acqua calda, poi applica sul cuoio capelluto effettuando massaggi. Dopo 30 minuti i tuoi capelli saranno più idratati, protetti e luminosi.

E’ possibile acquistare l’amla in erboristeria, spesso viene venduta sotto forma di frutto, ma sono diffusi anche polveri ed estratti di amla.

Fonte: rimedio-naturale.it

Vergogna – La Cassazione conferma maxi sequestro (un milione di chili) di spaghetti di un notissimo marchio per violazione delle norme sul “made in Italy” …ingannavano la Gente, ma il prodotto era 100% Turco!!

made in Italy

 

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Vergogna – La Cassazione conferma maxi sequestro (un milione di chili) di spaghetti di un notissimo marchio per violazione delle norme sul “made in Italy” …ingannavano la Gente, ma il prodotto era 100% Turco!!

Violazione Made in Italy: Cassazione conferma maxi sequestro spaghetti

Confermato dalla Cassazione, per violazione delle norme sul ‘made in Italy’, il maxi sequestro nel porto di Genova di circa un milione di chili di spaghetti prodotti in Turchia per il pastificio campano ‘L. Garofalo’ di Gragnano, noto marchio in vendita anche sugli scaffali della grande distribuzione.

Ad avviso della Cassazione, in maniera “argomentata e logica”, il Tribunale del riesame nel congelare l’ingente carico “ha ritenuto fallaci le indicazioni apposte sulla pasta, tali da ingannare il consumatore sulla provenienza della merce e da integrare l’ipotesi penale”. La scritta ‘made in Turkey’ era poco vedibile e facilmente cancellabile, mentre era in bella vista il richiamo all’Italia e a Gragnano.

In particolare, con riferimento alla dicitura sulle confezioni, la Suprema Corte – nella sentenza 25030 che inaugura una linea molto severa in tema di tutela dei brand nazionali – rileva che “mentre i caratteri relativi all’area geografica (‘Napoli Italia‘) e alla ditta produttrice (‘prodotta e confezionata for pastificio l.Garofalo spa Via Pastai 42 Gragnano NA Italy‘) erano ben evidenti sulla confezione, la dicitura ‘made in Turkey‘, sulla base di un esame diretto ad opera degli stessi giudici liguri, era confinata sotto la data di scadenza, poco leggibile e apposta con inchiostro diverso, facilmente rimuovibile”.

Non regge la sosta tecnica durante transito verso il mercato africano

L’amministratore delegato della ‘Garofalo’, Massimo Menna, in Cassazione ha contestato senza successo la sussistenza delle accuse di vendita di prodotti industriali con segni contraffatti, frode contro le industrie nazionali, e violazione del ‘made in Italy’, spiegando che i 2700 colli di pasta della linea ‘Santa Lucia’ erano destinati al mercato africano, al Benin Mali, e la sosta ligure era solo tecnica per l’imbarco delle merci verso l’Atlantico. Secondo la difesa di Menna, non era stato commesso alcun illecito penale perchè la pasta non era per il mercato italiano nè europeo, erano spaghetti in transito da un paese straniero ad altro paese, entrambi extracomunitari, “non era stata posta in essere alcuna attività di sdoganamento funzionale a una commercializzazione in Italia della pasta, solo temporaneamente depositata in area doganale“.

Il Fob non conta, ha valore la fattura e il territorio italiano per integrare l’importazione

Quale invece il percorso logico seguito dai giudici di Cassazione? Secondo gli ‘ermellini’, invece, correttamente i giudici liguri hanno ritenuto “esservi stata introduzione almeno temporanea nel territorio italiano e risultando la commercializzazione da parte del pastificio Garofalo con sede a Gragnano proprio dalla fattura emessa in favore della ditta francese ‘Franco Africanine del Negoce sas’ con sede a Parigi”.

L’emissione della fattura in Italia rileva come “parte del processo di messa in circolazione della merce” e non importa se “nella fattura è indicata la clausola FOB, ossia l’indicazione del porto di imbarco in Turchia”. Inoltre “il magazzino dove era temporaneamente custodita la merce sequestrata si trova nell’area doganale e quindi in territorio italiano” pertanto – afferma la Cassazione – “anche la presenza temporanea della merce, ancorchè destinata all’estero, appare condotta idonea a integrare l’importazione, nel senso di introduzione, della stessa nel territorio italiano”.

E’ la seconda volta che il maxi sequestro, emesso nell’ottobre 2015, approda in Cassazione che nel giugno 2016 lo aveva annullato con rinvio. Ora il riesame bis dello scorso settembre, è stato convalidato. Nel frattempo la pasta sarà quasi scaduta.

Fonte:http://www.ansa.it/canale_terraegusto/notizie/istituzioni/2017/05/24/cassazione-conferma-maxisequestro-spaghetti-made-in-turkey_f94cd755-9255-43ae-bfe2-e23cc120f4f1.html

tramite: http://zapping2017.myblog.it/2017/05/26/vergogna-la-cassazione-conferma-maxi-sequestro-un-milione-di-chili-di-spaghetti-di-un-notissimo-marchio-per-violazione-delle-norme-sul-made-in-italy-ingannavano-la-gente-ma-il-prodotto-era/

La Cannabis per la cura dei tumori? Una ricerca italiana fa sperare.

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La Cannabis per la cura dei tumori? Una ricerca italiana fa sperare.

 

Cannabis e cura dei tumori: la ricerca (italiana) che fa sperare

Nonostante i pregiudizi, sono centinaia gli studi sulle cure a base di cannabinoidi. E i risultati sono molto importanti. Intervista al Prof. Massimo Nabissi

C’è chi pensa che la pianta della cannabis sia usata esclusivamente per produrre prodotti “di svago”. E c’è chi invece su questa pianta ci ha scommesso molto: non solo agricoltori e imprenditori ma anche ricercatori e medici. Se l’uso della cannabis per alleviare le sofferenze dei pazienti è ormai una realtà, non sempre accettata, ma conosciuta, molto meno conosciuto è il campo della ricerca nel ridurre la crescita, o indurre la morte, delle cellule tumorali.

Sono centinaia gli studi in questo senso, svolti in silenzio nei laboratori di tutto il mondo fin dagli anni ’90, che hanno l’obiettivo di ampliare le conoscenze attuali sui farmaci antitumorali e dare nuove speranze ai malati.

Come nel laboratorio di Camerino, dove il Dr.Massimo Nabissi, ricercatore del gruppo di Patologia ed Immunologia della Scuola del Farmaco e dei Prodotti della Salute, lavora fin dal 2008 allo studio sul ruolo anti-tumorale dei cannabinoidi sia nel GBM (tumore del cervello) sia nel mieloma multiplo. E i risultati sono davvero importanti.

“L’idea dello studio nel mieloma è nata – ci racconta Nabissi – da una collaborazione con il Dipartimento di Ematologia degli Ospedali Riuniti di Ancona. Il nostro lavoro aveva dimostrato che la maggior parte delle cellule tumorali isolate dai pazienti analizzati mostrava la presenza di un recettore di membrana che rispondeva se stimolato con i cannabidiolo (CBD). Da questo dato siamo andati a valutare “in vitro” l’effetto del CBD sia da solo sia in combinazione con un farmaco utilizzato di solito nella terapia del mieloma multiplo (il Bortezomib). I dati hanno dimostrato un ruolo anti-proliferativo del CBD e un’azione sinergica della combinazione CBD insieme al farmaco.”. Che cosa vuol dire in concreto? Che l’aggiunta del principio attivo della cannabis, insieme al farmaco già conosciuto, permette di ottenere una risposta maggiore rispetto a quella dei due farmaci usati singolarmente.Da qui la spinta a continuare. “Nel lavoro successivo – continua Nabissi- abbiamo testato la combinazione THC/CBD in combinazione con un nuovo farmaco (Carfilzomib) sempre nel mieloma multiplo e anche in questo caso i dati hanno dimostrato che la combinazione è più efficace dei singoli farmaci ed inoltre riduce la migrazione (processo di metastasi) delle cellule tumorali. Questi dati “in vitro” che abbiamo ottenuto, sono stati presi ad esempio, da una Biotech Israeliana, per la richiesta di avvio del primo studio “in vivo”, in pazienti affetti da mieloma multiplo”.

 Per la prima volta quindi la sperimentazione non si limiterà ad essere studiata su delle cellule (fasi pre cliniche di una ricerca) ma arriverà su veri e propri pazienti che utilizzeranno, insieme al farmaco “ufficiale”, anche quello a base di THC e CBD.

Se quindi per il mieloma multiplo la sperimentazione sui pazienti sta per cominciare,per altri tipi di tumori la ricerca è già molto avanti. Ci spiega Nabissi: “La sperimentazione con THC/CBD in combinazione con Temodal (il farmaco attualmente in uso nella terapia per il tumore al cervello), ha ormai superato la fase clinica II, con risultati che sono stati appena pubblicati nel sito della casa farmaceutica che ha svolto la sperimentazione . Da quello che si legge, a breve organizzeranno la fase clinica III che se darà risultati positivi potrà permettere di utilizzare questa combinazione nella terapia futura su centinaia o migliaia di pazienti. Per altri tipi di tumore, come il tumore al seno, al polmone, melanoma, pancreas la ricerca è in una fase avanzata a livello di studi pre-clinici”.

Nonostante i risultati diano ragione a queste ricerche e suggerirebbero di continuare su questa strada, Nabissi non nasconde il suo rammarico: “Quello che noto in Italia è che ci sono due principali prese di posizione, chi è a favore e chi è contro all’uso terapeutico dei cannabinodi. Trattandosi di farmaci, facendo una comparazione semplicistica, è come se in Italia ci fossero due prese di posizione pro e contro alla morfina, agli anti-depressivi o agli oppiacei. Se i cannabinoidi vengono viste come “droghe”, lo stesso dovrebbe valere per la morfina, per gli oppiacei (utilizzati nei cerotti antidolorifici ed acquistabili in farmacia) o per gli anti-depressivi (es. le benzodiazepine), tutti farmaci che possono indurre dipendenza psicologica e fisica (tutti dati reperibili sul sito del Ministero della Salute o nel sito dell’Agenzia Italiana del Farmaco). Quindi mi chiederei, perché esiste questo pregiudizio per i farmaci cannabinodi? All’estero, almeno in alcuni paesi europei e negli Sati Uniti d’America, l’argomento cannabis terapeutica viene trattato in modo molto più approfondito e lo sviluppo d’imprese che lavorano nell’ambito della cannabis è in forte espansione. Solo in Europa (Olanda, U.K., Germania, Spagna Svizzera, Repubblica Ceca, ecc…) sono presenti diverse ditte che si occupano nello sviluppare nuovi incroci di piante, nella purificazione di cannabinodi, nello sviluppo di nuove formulazioni, nella ricerca pre-clinica”. In Italia fare ricerca in questo campo è davvero difficile da punto di vista burocratico o di autorizzazioni, chissà se nel futuro qualcosa cambierà seguendo il caso della Repubblica Ceca ha investito milioni di euro nel 2015 per avviare il primo centro per lo studio dei cannabinoidi in ambito terapeutico.

“Personalmente – ci dice ancora Nabissi – credo che in futuro l’uso terapeutico, in specifiche patologie tumorali, avrà applicazione clinica. A livello di ricerca, sono abbastanza convinto che la sperimentazione sui cannabinoidi avrà un grosso sviluppo in alcuni stati europei.”

La catastrofe ambientale nascosta: in fondo ai nostri mari ordigni chimici e radioattivi abbandonati dagli americani dopo il ’43 e dopo le guerra in Jusoslavia. Si calcola siano oltre un milione di pezzi.

 

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La catastrofe ambientale nascosta: in fondo ai nostri mari ordigni chimici e radioattivi abbandonati dagli americani dopo il ’43 e dopo le guerra in Jusoslavia. Si calcola siano oltre un milione di pezzi.

Un altro grande reportage di Gianni Lannes

UN MILIONE DI BOMBE SPECIALI USA IN FONDO ALL’ADRIATICO E AL TIRRENO

Sul belpaese incombe una catastrofe ambientale con cui bisogna fare i conti. Ecco il segreto dei segreti: nel 1943 gli “alleati” angloamericani sbarcarono in Italia un arsenale proibito di armi chimiche, non le usarono affondandole nel Mare Adriatico (Golfo di Manfredonia) e nel Mar Tirreno (Golfo di Napoli e dinanzi all’isola di Ischia) al termine del secondo conflitto mondiale. Negli anni ‘90 la guerra in Jusoslavia determinò lo scarico di migliaia di bombe radioattive da Grado a Santa Maria di Leuca, sganciate  dai velivoli di rientro in Italia dopo i bombardamenti nei Balcani. A conti fatti: più di un milione di bombe chimiche e radioattive, senza contare quelle convenzionali imbottite di tritolo.

I documenti storici dell’US Army sepolti dal segreto militare anglo-americano imposto da Eisenhower e Churchill parlano chiaro, basta compulsarli a dovere. Quelle bombe caricate con aggressivi chimici erano armi proibite dalla Convenzione di Ginevra del 1925, ma il generale statunitense Eisenhower si giustificò nel 1949 sostenendo che erano state stivate «nell’incertezza delle intenzioni tedesche sull’uso di quest’arma».

Non a caso il bombardamento del porto di Bari del 2 dicembre 1943 è stato definito la Pearl Harbour italiana. 105 aerei della Lutwaffe alle 19,30 piombarono sulla città e in una pioggia di fuoco riuscirono ad affondare 17 navi, ne danneggiarono gravemente 8 ed il porto venne quasi completamente distrutto. Si registrarono ingenti perdite tra i militari alleati e i civili italiani. I danni maggiori arrivarono dal carico di iprite della nave americana John Harvey. Ogni bomba, che era lunga quasi 120 centimetri, conteneva circa 30 chilogrammi di questo gas tossico e vescicante. Sommozzatori e palombari italiani che operarono a costo della salute e della vita dal 1947 al 1953, recuperarono 20 mila bombe speciali nell’area portuale e le affondarono a poca distanza dalla costa. Non è tutto. Anche altre navi USA come la John Motley erano cariche di iprite, mentre quelle inglesi contenevano bombe della RAF con fosforo e acido clorosolforico, cloripicrina e cluoruro di cianogeno.

 

Un altro grave episodio, ignoto alla storiografia è l’esplosione avvenuta sempre nel porto di Bari il 9 aprile 1945 – a guerra ormai finita in Italia – della nave statunitense Charles Henderson, che aveva a bordo un carico di bombe all’iprite variamente assortite.

Carta canta. Anche l’archivio storico della Marina Militare italiana è una fonte di inedite rivelazioni che fanno luce sul più grave disastro chimico della seconda guerra mondiale, tenuto nascosto alla popolazioni italiana dalle autorità italiane. Le conseguenze sono incalcolabili, ma i governicchi tricolore hanno fatto sempre finta di niente.

In ogni caso, vale il principio internazionale “chi inquina paga”. Tocca a Washington e Londra pagare il conto, a noi esigerlo senza compromessi.

 

riferimenti:

Gianni Lannes, BOMBE A… MARE!, Nexus Edizioni, Padova, 2017 (di prossima pubblicazione).

http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/2017/04/bombe-amare_19.html

http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/search?q=bombe+a…mare

http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/2017/05/bombe-chimiche-e-radioattive-alleate.html

 

Fonte:

https://sulatestagiannilannes.blogspot.it/2017/05/un-milione-di-bombe-speciali-usa-in.html#more

L’allarme radiazioni nucleari viene lanciato dal giornalista Gianni Lannes sul suo blog: pasta Made in Italy prodotta con grano radioattivo proveniente dalla Russia!

 

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L’allarme radiazioni nucleari viene lanciato dal giornalista Gianni Lannes sul suo blog: pasta Made in Italy prodotta con grano radioattivo proveniente dalla Russia!

 

L’allarme radiazioni nucleari viene lanciato sul blog di Gianni Lannes, che denuncia che la pasta italiana viene prodotta con grano radioattivo coltivato in Russia. C’è da preoccuparsi?

Due navi arrivano nel porto di Manfredonia il 2 gennaio, con bandiere maltesi. Ma secondo Gianni Lannes, scrittore ed ex giornalista, sono il cargo Azov Coast, proveniente dal porto russo di Yeysk, e la bulk carrier Matteo Br da Nikolaev, Ucraina. E senza che nessuno le controllasse, hanno importato grano dall’estero.

L’accusa è rivolta verso i grandi brand della pasta italiana, che utilizzerebbero di nascosto questo grano, senza curarsi dei rischi legati alla radiazioni nucleari, per la produzione dei prodotti. Per venderli poi sotto il marchio made in Italy.

Radiazioni nucleari: l’eredità di Chernobyl

Citando l’ultimo rapporto di Greenpeace “Nuclear scars: the Lasting Legacies of Chernobyl and Fukushima”, Lannes ricorda che l’inquinamento nucleare causato dal disastro di Chernobyl colpisce proprio quelle zone di Russia e Ucraina destinate alla coltivazione.

Oltre 10.000 chilometri quadrati tra Russia, Bielorussia e Ucraina sono inutilizzabili per migliaia di anni per il plutonio che ha contaminato il terreno. Eppure, in queste stesse zone colpite dalle radiazioni nucleari, viene coltivato il grano che poi, secondo l’accusa di Lannes, finisce sulle tavole italiane.

Un fabbisogno interno soddisfatto grazie all’importazione

Se si considera che l’Italia produce appena il 30/40% del grano duro utilizzato per la produzione della pasta, ci si chiede come fa il paese a soddisfare il fabbisogno interno. Uno dei fornitori principali sarebbe proprio l’Ucraina, che nel 2016 ha quadruplicato la fornitura di grano all’Italia, arrivando a esportare fino a 600mila tonnellate.

Inoltre, Lannes spiega che la quasi assenza di regole fa sì che il prezzo del grano da importazione sia così basso da rendere quasi non conveniente la coltivazione in Italia. Ciò comporta il rischio che molti terreni coltivati con qualità di grano ad alta qualità vengano abbandonati.

Anche perché i maggiori costi di mano d’opera e di tassazione, rendono i produttori italiani meno competitivi, innescando una caduta dei prezzi, non sostenibili dai piccoli produttori. Risultato: pasta contaminata sulle nostre tavole.

Ma se così fosse, chi tutela il consumatore?

Fantastico Gino Strada: “Ecco perché nessuno mi ha mai chiesto di fare il ministro della Sanità” !!

 

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Fantastico Gino Strada: “Ecco perché nessuno mi ha mai chiesto di fare il ministro della Sanità” !!

 

Fantastico Gino Strada: “Ecco perché nessuno mi ha mai chiesto di fare il ministro della Sanità”

Gino Strada: “Io mi ostino a voler fare il mio lavoro, medico e chirurgo. Mi occupo giornalmente di sanità e medicina. Se qualcuno venisse a propormi di fare il ministro della Sanità, risponderei che il mio programma è molto semplice: faccio una sanità d’eccellenza, spendendo la metà di quello che si spende oggi, eliminando il conflitto di interesse introdotto nella mia professione dalla casta politica: il pagamento a prestazione.

Il nostro sistema sanitario era uno dei migliori al mondo, la casta, con la complicità dei medici, lo ha rovinato. L’interesse del medico è che la gente stia male, per fare più prestazioni. Ma nove milioni di persone non hanno più accesso alla sanità. Io eliminerei tutto questo. Ecco perché nessuno mi ha mai chiesto di fare il ministro della Sanità. A me piacerebbe in futuro aprire anche in Italia il primo ospedale di Emergency, per far rivedere agli italiani, dopo 30 anni, che cos’è un ospedale, non una fottuta azienda. La sanità è uno scandalo pubblico”

Cannabis in capsula: può sostituire qualsiasi antidolorifico, è naturale e non ha effetti collaterali. Ma da noi non si vende!

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Cannabis in capsula: può sostituire qualsiasi antidolorifico, è naturale e non ha effetti collaterali. Ma da noi non si vende!

Sempre più persone in tutto il mondo sono consapevoli dei rimedi naturali e della medicina alternativa.

Tuttavia, questo non cambia l’atteggiamento di Big Pharma che fa valere i suoi farmaci nonostante i loro numerosi e ben documentati effetti collaterali.

I benefici per la salute della cannabis sono sempre più accettati nella società odierna e vengono sostenuti da numerosi studi recenti.

La Foria Relief Company ha anche inventato una “supposta” vaginale, che è una sostituzione perfetta per Vicodin, Midol, e ibuprofene. Tratta efficacemente i crampi mestruali rilassando i muscoli.

E’ un prodotto a base di cannabis senza additivi. Gli ingredienti sono combinati con dosi esatte; 60 mg di tetraidrocannabinolo (THC) e 10 mg di cannabidiolo (CBD). Il dolore è bloccato dal THC, mentre il CBD rilassa i muscoli, tratta gli spasmi, e ha un effetto favorevole sui meccanismi infiammatori all’interno del corpo.

Secondo una donna che ha provato la supposta vaginale, l’area sotto la vita era come se “galleggiasse in un altra galassia”.

Eppure, questo incredibile rimedio è venduto solo in California, ma visto i risultati ottenuti, a breve si potrà acquistare ovunque la cannabis per uso medico sia legale.

 

fonte: http://laveritadininconaco.altervista.org/la-nuova-cannabis-capsula-cosi-potente-che-puo-sostituire-qualsiasi-antidolorifico/

Parla Luigi Di Bella: Così affossarono il mio padre ed il “Metodo Di Bella”

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Parla Luigi Di Bella: Così affossarono il mio padre ed il “Metodo Di Bella”

Grillo tempo fa aveva rilanciato il metodo Di Bella, ma è stato davvero un complotto?

Il figlio del medico catanese ideatore della terapia alternativa per la cura al cancro torna sulla sperimentazione che ne decretò l’inefficacia. Una vecchia storia

Se la tormentata vicenda Stamina sembra ormai davvero una storia archiviata, con la richiesta di patteggiamento avanzata da parte di Davide Vannoni per l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla truffa, non lo è affatto quella relativa al metodo di Bella. A riportare in auge il trattamento alternativo per la cura al cancro non riconosciuto della scienza (in realtà, a oltre 16 anni dalla sperimentazione che ne decretò l’inefficacia terapeutica, non è mai scomparsa del tutto) è, ancora una volta, Beppe Grillo.

Stavolta, a parlare dalla pagine del blog, è il figlio del medico catanese ideatore della multiterapia che porta il sui nome (un mix, variabile, di somatostatina, bromocriptina, ciclofosfamide, melatonina e alcune vitamine), e non ci si limita a ribadire che la cura funziona, ma si parla anche di tutte le presunte truffe e complotti messi in atto per affossarla.

Oggi, a distanza dalla sperimentazione approvata durante il mandato dell’allora ministro della salute Rosy Bindy, si torna quindi a discutere di come le indicazioni per la sperimentazione e gli stessi protocolli adottati non seguirono le indicazioni di Di Bella, ma vennero piuttosto allestiti per essere già “un risultato preconfezionato” accusa il figlio: “Quando mio padre andò in Commissione oncologica fu verbalizzato, e io li ho i verbali, e li ho messi sul nostro sito, dove si scrive che la sua cura poteva rispondere in pazienti in stato iniziale, non chemio e non radio trattati.

Hanno arruolato pazienti esattamente all’opposto, terminali, chemio e radio trattati e non più responsivi, perciò già le indicazioni della sperimentazione sono state non travisate ma ribaltate!”.

Ma non solo: i protocolli firmati dallo stesso professore non sarebbero stati stilati in presenza di Luigi di Bella, secondo il figlio; per la sperimentazionesarebbe stato scelto come livello di obiettivi quello più basso (la riduzione del tumore), senza doppio cieco e gruppo controllo e non da ultimo sarebbero stati somministrati farmaci scaduti e a dosi sballate.

Un complotto, ordito, neanche a dirlo, a tutto guadagno delle case farmaceutiche: “Siamo in periodo di globalizzazione, l’industria, la finanza, il commercio sono globali, loro hanno calcolato che una persona che non fa le loro terapie, come minimo gli fa perdere dai 200 ai 500 mila euro. È tutta un’aggregazione di poteri perché le case farmaceutiche sono azionisti, ma sono gli stessi azionisti della grande informazione, sono gli stessi azionisti delle banche del farmaco, sono gli stessi azionisti della grande industria….Se noi (con il MDB) abbiamo curato gente a casa, e questi sono a posto, c’è una differenza di costi totali altissima che determina un crollo di un interosistema di impostura, perché il fatto di continuare a imporre queste terapie, vuole dire che c’è un sistema di connivenze”.

Le critiche alla sperimentazione che decretò l’inattività e inefficacia del metodo di Bella non sono però del tutto nuove, ma cominciarono già ai tempi, come vi avevamo raccontato. E insieme alle critiche arrivarono anche le risposte: il ministero giustificò l’assenza di randomizzazione e gruppo controllo in virtù del fatto che stavamo parlando di uno studio di fase II (per valutare l’efficacia di un trattamento), allestito in fretta e non senza difficoltà. Riguardo le accuse relative ai farmaci scaduti, per l’Istituto superiore di sanità fu lo stesso Di Bella ad assicurare la stabilità del composto galenico e non vennero indicate date di scadenza, mentre riguardo ai protocolli questi sarebbero sempre stati visionati dal medico.

Se Stamina quindi sembra finita, senza che ci sia stato bisogno di una sperimentazione, non lo è ancora la vicenda Di Bella, malgrado in questo caso la sperimentazione ci sia stata eccome ed abbia dato risultati negativi.

 

fonte: http://www.wired.it/scienza/medicina/2015/02/04/grillo-di-bella-complotto/

Lo hanno fatto morire da ciarlatano, ma ecco la sua rivincita – Metodo Di Bella: l’Ausl di Teramo lo autorizza come terapia anticancro – Il tumore regredisce!

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Lo hanno fatto morire da ciarlatano, ma ecco la sua rivincita – Metodo Di Bella: l’Ausl di Teramo lo autorizza come terapia anticancro – Il tumore regredisce!

 

Metodo Di Bella: l’Ausl di Teramo lo autorizza come terapia anticancro

Regressione del tumore al cervello in un paziente di un Centro Oncologico in provincia di Modena, che ha adottato il Metodo Di Bella, screditato dalle autorità mediche.

Accade presso un Centro Oncologico collegato all’Ausl di Teramo, nel modenese. Sono stati verificati, misurati e documentati i progressi nella cura di un paziente affetto da tumore al cervello. Si riapre il vaso di pandora in un mondo scientifico diviso da anni tra i sostenitori del Metodo di Bella e di chi lo rigetta, accusandolo di non avere alcuna validità medica.

Cos’è il metodo Di Bella

C’è chi lo vede come un ciarlatano e chi come una vittima degli interessi delle grandi case farmaceutiche, che lucrano sui medicinali chemioterapici. Ma in cosa consiste il Metodo Di Bella? È un’insieme di farmaci e vitamine che secondo il Dott. Di Bella, il medico di origini siciliane che lo ha creato, sarebbe capace di curare i tumori maligni senza particolari effetti collaterali, diversamente dalla chemioterapia che, secondo il dott. Di Bella “non ha mai curato nessuno”.

Il metodo Di Bella è stato poi impiegato non solo come terapia anticancro, ma anche per trattare malattie come l’epatite C, il morbo di Alzheimer, la sclerosi multipla, il morbo di Parkinson e il morbo di Crohn, oltre a malattie autoimmuni e neurologiche.

Il caso mediatico attorno al Metodo Di Bella

Attorno al Metodo Di bella si è scatenata per anni un’attenzione mediatica fuori dal comune. Era da qualcuno chiamato “il santo guaritore”, per via soprattutto del fatto che somministrava cure senza chiedere compenso, ma solo un’offerta libera.

L’attenzione fu tale che i cittadini si organizzarono per una raccolta firme per chiedere la sperimentazione del Metodo Di Bella, mentre altri oncologi gridavano all’anatema e lo screditavano, considerando dubbie le procedure impiegate.

La sperimentazione del Metodo Di Bella

La sperimentazione tanto attesa venne fatta, ma fallì. Non venne riscontrato una regressione dei tumori e molti dei casi presentarono tossicità, avanzamento della malattia o decesso. Di conseguenza, molti pazienti abbandonarono le terapie e fu  stabilita l’inefficacia del Metodo Di Bella. Allora perché viene ancora usato?

Molti sostengono, così come conferma l’oncologa romana Rita Blandi a Il Corriere, che “la sperimentazione sia stata un bluff. Hanno scelto pazienti terminali, che avevano già completato l’iter tradizionale, fortemente debilitati e defedati”. Questo perché, è la tesi dei sostenitori, la terapia che si poneva in alternativa alle chemio avrebbe intaccato troppi interessi.

L’entusiasmo di Di Bella Jr

L’eredità del medico modenese scomparso nel 2003 è stata raccolta dai figli, anche loro medici. E alla notizia riguardo l’Ausl di Teramo hanno espresso soddisfazione ed entusiasmo. In particolare Giuseppe, a La Gazzetta di Modena ha dichiarato:

«Un centro istituzionale ha certificato su carta intestata che un grave tumore cerebrale in progressione dopo i trattamenti oncologici classici, l’intervento chirurgico, la chemioterapia e la radioterapia, ha ridotto il suo volume del 50%. Ma non basta: lo stesso oncologo di riferimento, che lavora per l’Ausl, ha consigliato caldamente il proseguimento della terapia. Un’ammissione di questo tipo è senza precedenti nel nostro Paese».

«Si è sempre parlato di miglioramenti o guarigioni discutibili, magari frutto di autoesaltazione. Oggi invece siamo a 25 pubblicazioni scientifiche con casistica documentata. Entro l’anno pubblicheremo la casistica sul tumore al cervello e 300 casi per quello alla mammella; in questi, al quarto stadio, con la multiterapia è documentata una sopravvivenza del 70% a cinque anni, contro il 20% dei protocolli oncologici. Lo conferma il maggior portale oncologico, quello del National Cancer Institute».

 

fonte: https://www.ambientebio.it/salute/metodo-di-bella-ausl-teramo-autorizza/

Un fuoco chiamato Peppino – A 42 anni dall’assassinio di Peppino Impastato NOI NON LO DIMENTICHIAMO

 

Peppino Impastato

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Un fuoco chiamato Peppino – A 42 anni dall’assassinio di Peppino Impastato NOI NON LO DIMENTICHIAMO

Peppino Impastato, assassinato il 9 maggio 1978, come Roberto Mancini, Rita Atria, Ilaria Alpi e tantissimi altri e altre, non è rimasto mai alla finestra. La commemorazione che non è accompagnata dalla stessa determinazione del gridare contro tutte le mafie e nel costruire ogni giorno un mondo diverso è solo un mantello di ipocrita complicità. Smettiamola con l’antimafia da parata, l’antimafia da salotto, l’antimafia vuota e retorica. Peppino Impastato non è un laico santino per un giorno ma è un fuoco che ci deve ardere dentro.

 

“Chi lascia fare e s’accontenta, è già un fascista”

(Cesare Pavese, da La casa in collina)

 

“È successa la stessa cosa con Falcone e Borsellino, le persone che hanno lavorato per questo Paese sono riconosciute dopo la morte”. Questa le amare parole di Monica Dobrowolska, la vedova di Roberto Mancini, nell’intervista a Il Fatto Quotidiano Tv del 28 febbraio di quest’anno, mentre ribadiva che l’unico vero rispetto alla memoria del marito è sconfiggere le ecocamorre e “salvare” la Terra dei Fuochi. Un’intervista dura e intensa che ricorda le parole del fratello di Paolo Borsellino, Salvatore, ormai nove anni fa. È ora di smettere di piangere per Paolo, è ora di finirla con le commemorazioni, fatte spesso da chi ha contribuito a farlo morire, è l’ora invece di dimenticare le lacrime, è l’ora di lottare per Paolo, lottare fino alla fine delle nostre forze, fino a che Paolo e i suoi ragazzi non saranno vendicati e gridare, gridare, gridare finché avremo voce per pretendere la verità, costringere a ricordare chi non ricorda”.

Ogni ricordo, ogni commemorazione, ogni anniversario, lo si è scritto tante volte in questi anni, nasconde la più insidiosa delle trappole: la retorica vuota e buona solo per sfilate e cerimonie piene di belle parole e la creazione di laici santini. E poi tornare alla vita di sempre. Ma Peppino Impastato, Roberto Mancini, Rita Atria e tanti altri non sono vissuti per alimentare annuali prefiche. Hanno pagato l’altissimo prezzo di un fuoco ardente dentro, di una tensione etica, politica, civile fortissima. Hanno aperto gli occhi sul mondo che li circondava, non si sono accontentati di lamentarsi ma hanno speso le loro esistenze per lasciarlo migliore di come l’avevano trovato.

Monica Dobrowolska fu intervistata in occasione dell’uscita del libro “Io morto per dovere”, sulla storia di Roberto e il suo impegno per la “Terra dei Fuochi”, insieme all’autore Nello Trocchia. Nello è un cronista che da anni segue e insegue fatti, crimini, documenta, denuncia. È un giornalista con la schiena dritta e che mai è rimasto in silenzio per convenienza o connivenza. E il suo omaggio, col libro scritto insieme a Luca Ferrari, è tappa di questo percorso d’impegno, si ricollega con un fortissimo filo rosso a tutto quanto ha realizzato in questi anni. Infatti il libro non descrive un santino, non fa un’agiografia strappalacrime. Riporta trame, nomi, cognomi, circostanze. Chiede giustizia per chi ha denunciato anni e anni prima quel che accadeva nella “Terra dei Fuochi”, per quel silenzio e quelle denunce rimaste inevase.

Il sistema che ha impedito a Roberto Mancini di salvare la “terra dei fuochi” e di combattere le eco camorre è lo stesso nel quale s’imbatterono Ilaria Alpi, Mauro Rostagno e tantissimi altri. E non rimasero in silenzio, si ribellarono, denunciarono, si posero contro le trame di mafiosi, imprenditori senza scrupoli, politici collusi e conniventi, massoneria più o meno deviata (si rilegga a questo proposito quanto riportato nella relazione finale della “Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari” del 1994). Quel sistema è ancora in piedi, vive e prolifera nei silenzi, nelle complicità, nelle finestre affollate mentre la coscienza chiama. In Campania, in Sicilia, nel Lazio e altrove. Anche nell’Abruzzo da dove sto scrivendo. Dove ci sono piccole e grandi “terre dei fuochi” conosciute o sconosciute, dove la camorra è arrivata a stoccare i suoi rifiuti, tra Abruzzo e Molise, nelle cave dell’interno e in altri posti. Ma molti girano la testa dall’altra parte, fanno finta di non sapere.

Le commemorazioni degli occhi chiusi e delle bocche cucite sono le commemorazioni delle tre scimmiette, sono inutili, offensive, sono ipocrite complicità. Lamentarsi che è tutto uno schifo, che siamo circondati da un mondo marcio e rimanere inerti è accettarlo. Un’accettazione che diventa reale ogni volta che si sceglie la prevaricazione, la raccomandazione, la clientela, la legge del più forte, che si piega la testa di fronte al “padrone” feudale. Si chiama complicità, è il brodo di coltura della mafiosità, del marcio che Peppino Impastato, Roberto Mancini, Rita Atria hanno ripudiato e combattuto. Le mafie non sono organizzazioni isolate che violano banalmente e soltanto una formale legalità. Perché, lo si è già accennato poc’anzi, si può essere mafiosi senza violare un solo articolo di legge. E le mafie sono immerse e si alimento in ben precisi contesti sociali, politici, culturali.

Rita Atria si ribellò alla sua famiglia, ai suoi codici, all’omertà e alla complicità ai boss. Un medioevo familista e borghese, ipocrita e perbenista. Peppino Impastato non fu un “bel giovine” scapestrato. Peppino era marxista, si era reso conto che la mafia e le classi dominanti sono un blocco unico, espressione del padrone oppressore, apriva gli occhi quotidianamente e documentava, denunciava, ricostruiva. Non era antico quel mondo che Peppino ripudiò e denunciò, era mafioso, omertoso, connivente, servo. E lui capì che le uniche catene dell’oppressione che non si spezzano sono quelle che si accettano. E lo spezzare di quelle catene, di quel sistema borghese e oppressivo, di quella cultura ipocrita e servile continua. È un altro inganno sempre dietro l’angolo: guardare al passato, pensare che tutto sia finito in anni ormai lontani. Non è così. Perché le trame continuano, prosperano, infettano. Per dirla con Pippo Fava, ancora “i mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione”. E c’è chi documenta, denuncia, si ribella.

Commemorare chi non c’è più e dimenticarsi dei vivi è “rimanere alla finestra” ed è già, parafrasando Pavese, essere mafioso. Esiste l’antimafia da parata, l’antimafia da salotto, l’antimafia vuota e retorica, l’antimafia di chi in realtà si amalgama (per dirla con le parole di Roberto Mancini) al sistema. E c’è chi quotidianamente rifiuta favori e clientele feudali, chi ripudia il sistema marcio e lo documenta, denuncia, facendo nomi, cognomi, atti, trame. Senza fare sconti e pagando prezzi altissimi, senza mai farsi comprare.  L’elenco potrebbe essere lunghissimo. Così come potrebbe essere lunghissimo l’elenco delle trame, delle connivenze, dell’oppressione mafiosa e criminale. Chi veramente vuol realizzare commemor-azione, chi vuol aprire gli occhi nomi, cognomi, atti e fatti li conosce e li trova facilmente. Per gli altri c’è poco, anzi nulla, da fare. Non ne ho fatti di nomi in quest’articolo (a partire da chi fu denunciato da Rita, ed ha complicità in altissimo, da chi tentò di “silenziare” le inchieste di Ilaria Alpi e Roberto Mancini, di chi per decenni depistò le indagini sulla morte di Peppino e così via, da chi quotidianamente è puparo o pupazzo di sistemi intrisi di mafiosità) per questo. Chi non vuol vedere non vede. Chi sente il peso della propria schiena troppo esagerato per alzarsi, chi non si vuol muovere ed è addirittura infastidito da chi lo fa, non si smuove. Sono i complici più ipocriti e servili del Sistema, del padrone e del feudatario. E sono falsi. Perché non vogliono ammettere la realtà. Che la mafia la vogliono non perché ne hanno paura ma perché la loro sopravvivenza è all’insegna del fascistissimo “me ne frego”, perché è comodo girarsi dall’altra parte, perché una raccomandazione, una “leccata”, un prostarsi può sempre essere utile. Perché è tanto, troppo facile puntare il dito giudicando chi lotta perché “tanto si è tutto uguali” (ma chi paga il prezzo della coscienza e chi si fa pagare quello del “materasso di piume” non saranno mai uguali!), credere che Peppino Impastato era un terrorista, che Pippo Fava e don Peppe Diana andavano per “fimmine”, che Ilaria Alpi fu vittima di una rapina, che nulla potrà mai cambiare, che chi rifiuta la raccomandazione è uno che non vuol lavorare, che la difesa del territorio è un inutile e dannoso fastidio burocratico.

Ma Peppino Impastato, Pippo Fava, Rita Atria, Roberto Mancini sono molto più vivi di lor signori, perche è ancora possibile lottare, non arrendersi, impegnarsi perché – come scrisse Rita Atria – “se ognuno di noi prova a cambiare forse ce la faremo”. Perché Peppino Impastato non è un laico santino per un giorno ma è un fuoco che ci deve ardere dentro, imponendoci di non rassegnarci, di  non essere complici, di mettere a nudo ogni mafia e mafiosetta piccola o grande che sia. Un fuoco che dobbiamo far ardere anche per chi non sa neanche che esiste, per chi lo ha spento. E se a qualcuno darà fastidio, se qualche borghese in poltrona e alla finestra sarà infastidito, se i moralisti a basso prezzo ci sentono come minaccia e li turbiamo, è una soddisfazione in più.