Buon compleanno Alda – Oggi 21 marzo nasceva Alda Merini, poetessa d’amore e di follia, i veri ingredienti della vita.

 

Alda Merini

 

 

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Buon compleanno Alda – Oggi 21 marzo nasceva Alda Merini, poetessa d’amore e di follia, i veri ingredienti della vita.

Alda Merini è stata una delle più importanti scrittrici italiane del Novecento. Nasce il 21 marzo 1931 a Milano, città che l’ha ospitata sino alla morte, avvenuta il 1° novembre 2009.

Alda Giuseppina Angela Merini passa l’infanzia in viale Papiniano, dove si trova la casa dei suoi genitori: padre dipendente presso un’agenzia assicurativa, madre casalinga e due fratelli. Le condizioni economiche in cui la futura poetessa cresce sono modeste, la famiglia umile. Di questi primi anni non si sa molto, se non quel poco che la stessa Merini ha raccontato: ama suonare il pianoforte, ma soprattutto lo studio, che da sempre ha rappresentato un aspetto essenziale della sua vita. Brava e ambiziosa studentessa tenta di accedere al Liceo Manzoni – istituto storico di Milano -, inutilmente in quanto non supera il test di italiano. Lei, una delle più grandi penne della letteratura italiana novecentesca, valutata insufficiente proprio in questa prova! Ben presto verrà però risarcita da tale delusione: grazie ad una professoressa delle medie, che aveva colto la scintilla della Merini, conosce Giacinto Spagnoletti, che le fa da mentore mentre lei muove i primi passi nel mondo della letteratura.

All’età di sedici anni, però, un’ombra nera si fa strada nell’esistenza della Merini: nel 1947 è ricoverata in una clinica milanese, dove le viene diagnosticato un disturbo bipolare. Da questo momento in poi la vita della poetessa sarà scandita periodicamente dalla permanenza in centri e ospedali psichiatrici.

Ero matta in mezzo ai matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti. Sono nate lì le mie più belle amicizie. I matti son simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita.

Dopo la reclusione del ’47 si apre però un momento di serenità e felicità per la scrittrice: la Merini ottiene le sue prime pubblicazioni e si sposa con Ettore Carniti, proprietario e gestore di alcune panetterie milanesi. L’amore con quest’uomo è stato totalizzante, entusiasmante, sofferto e a tratti penoso. Le quattro figlie da lui avute (Emanuela, Flavia, Simona, Barbara) raccontano di quanto la madre si disperasse per il marito, che viene descritto come un uomo semplice, indefesso lavoratore, ma con il vizio dell’alcol. Da ubriaco lui la picchiava. E lei stava male. Soffriva, soffriva profondamente non tanto per le ferite reali quanto più per vedere infranta una volta di più la speranza che lui cambiasse. Nonostante tutto, Carniti è stato il grande amore della Merini, che gli ha dedicato alcune delle parole più dolci della sua produzione, come quelle della poesia Ieri sera era amore (a Ettore):

Ieri sera era amore,
io e te nella vita
fuggitivi e fuggiaschi
con un bacio e una bocca
come in un quadro astratto:
io e te innamorati
stupendamente accanto.
Io ti ho gemmato e l’ho detto:
ma questa mia emozione
si è spenta nelle parole.

È stato proprio Carniti a fare internare nuovamente la moglie nel 1961: la Merini, come ha raccontato lei stessa, sotto stress per il molto lavoro e per le condizioni economiche precarie, ha dato «in escandescenze». La scrittrice è così costretta a scontrarsi nuovamente con la terribile esperienza della psichiatria, che riporta in alcuni suoi scritti, fra cui La Terra Santa L’altra verità. Diario di una diversa.  Le considerazioni che la poetessa milanese fa sulla permanenza al Paolo Pini confermano l’immagine comune del manicomio come teatro degli orrori. L’ospedale viene descritto dalla Merini come un labirinto da cui avrebbe fatto fatica ad uscire, e ancora come «un’istituzione falsa, una di quelle istituzioni che, altro non servono che a scaricare gli istinti sadici dell’uomo». Nel momento in cui vi mette piede, la scrittrice sente di impazzire per davvero. Quel luogo è vera follia. La mancanza di libertà, l’impossibilità di autodeterminarsi, l’essere privata dei propri affetti, l’allontanamento dal mondo “reale”.

Dai miei visceri partì un urlo lancinante, un’ invocazione spasmodica diretta ai miei figli e mi misi a urlare e a calciare con tutta la forza che avevo dentro, con il risultato che fui legata e martellata di iniezioni calmanti. 

Ma può essere davvero questa la “soluzione” ad un male così oscuro, che silenziosamente si impossessa della mente e la offusca? Il totale allontanamento dalla vita, l’elettroshock, terapie farmacologiche aggressive possono realmente giovare a chi di contatto con il mondo ha forse più bisogno di chiunque altro?

Ciò che è certo è che la Merini, con la sua estrema sensibilità e con un’audacia senza paragoni, non si è lasciata intimorire da questa esperienza claustrofobica ed estraniante. Il mostro della malattia, sempre incombente, non le ha impedito di amare la vita e le gioie che essa le ha regalato. Anzi, trasformare questo male da una condizione limitante ad uno “stato di grazia”, che le ha garantito uno sguardo diverso e più profondo sul mondo, è forse la prima testimonianza del coraggio e della grandezza di questa mente immensa. 

di Francesca De Fanis per MIfacciodiCultura

Il grano dono degli dei

 

grano

 

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Il grano dono degli dei

Sacralità e poesia del pane

LIUCCIO GIUSEPPINOI Viaggi del Poeta

Il pane è da sempre re dell’alimentazione. Nei secoli è stato la benedizione delle case, simbolo di ricchezza e di abbondanza. La mancanza, sinonimo di privazione, stenti, miseria, E, forse per questo, la mitologia antica è popolata di dee e dei protettori dei campi e dei frumenti, i cui raccolti abbondanti assicuravano pane e sopravvivenza. Ritualità che si è, poi, trasferita nella liturgia cristiana, ricca, a sua volta, di madonne e santi a protezione di campagne. Quelli della mia generazione hanno fatto in tempo a vivere le atmosfere del forno a legna e la poesia del pane fatto in casa, come del successivo passaggio alla fase paraindustriale dei forni, diciamo così, pubblici. La panificazione in famiglia era una festa di mamme e nonne, dee sorridenti e prosperose, allo spolvero della farina, all’impasto a forza di muscoli robusti nella madia, che si gonfiava a crescita miracolosa di pasta, che, lacerata a pugni abbondanti, assumeva a colpi decisi di maestria di massaie, la forma di “panelle” e “panielli”, abilmente segnati, questi ultimi, per ricavarne, a prima croccante cottura, “vescuotti” biscotti da sgranocchiare e/o da conservare in cesti diligentemente coperti da bianchissime tovaglie, “mesali” di lino e generalmente appesi alle travate per la ventilazione. Come le “panelle”, d’altronde. E che spettacolo l’infornatura rapida a scivolo di pala nel forno incandescente di brace aromatizzata da fascine di collina e di montagna! Che ebbrezza spiare quelle forme che crescevano a sorriso rosato di pasta a cottura uniforme! Che aroma a pungere narici e solleticare desideri di deschi appetitosi quel pane fragrante e fumante appena sfornato ad esposizione di “tompagno” (si chiamava e si chiama ancora così quel quadrato di tavola approntato a momentaneo deposito delle forme appena cotte)! Memorie di altre stagioni!

Oggi il pane fatto in casa è una rarissima civetteria di donne e di famiglie che, periodicamente, riscoprono vecchie abitudini. Oggi ci sono panifici e panetterie e forni. E tutti i paesi, o quasi, ne dispongono di almeno uno. Ma per fortuna resistono ancora quelli a legna con la panificazione all’antica. Ed è frequente trovarli nel mio Cilento. Quando, camminando per strade, slarghi e vicoli, ti inonda una zaffata fragrante che ti punge le narici e solletica l’appetito, è la spia che il forno è quello giusto, soprattutto se dai comignoli dei tetti rossi, (che poesia i comignoli e gli embrici rossi che squillano al fioco sole dell’autunno/ inverno e mettono allegria !) fuoriesce ondeggiante a gomitoli la nuvola biancastra con il carico di aroma di erica e ginepro di montagna. Puoi, anzi devi, fermarti. Hai trovato il tuo “pane quotidiano”

Il richiamo al “Padre Nostro”, la preghiera che si recita sempre in forma corale e solenne durante la messa ci riporta alla sacralità del pane. E, d’altra parte, quelli della mia generazione hanno esperienze e ricordi nitidi di ritualità di grande fascino che si praticavano e si praticano ancora durante la Settimana Santa nei paesi del Cilento Ne ho scritto altre volte, ma lo faccio accora, convinto come sono della validità didattica e della tecnica di comunicazione del vecchio adagio “repetita iuvant”. E così mi rifaccio ancora ai ricordi di dolce malinconia che sanno di poesia dell’infanzia lontana: … dall’oscurità di vecchie casse o dalla penombra di cantine sotterranee emerge il miracolo del grano pallido sbocciato e cresciuto per incanto nei reticoli di stoppa inumidita e riempie di vita tenera piatti di ruvida creta e con la civetteria di grappoli screziati di violacciocche adora il “Sepolcro” di Cristo ed esalta il Sacramento dell’Eucarestia. Quel pane che, nel miracolo della transustanziazione, si fa corpo e quel vino, che pulsa sangue nelle vene del “Redentore”, riaccendono nostalgie per le tovaglie di candido lino e cesti stracolmi di pane croccante sul lungo tavolo al centro della chiesa madre. E il sacerdote in camice bianco e stola violacea rinnova il mistero del “Giovedì Santo”. E ancora una volta la mediterraneità trionfa nel fasto dei suoi alimenti. Che bontà quel pane bianco. “il pane benedetto”, al quale nella nostra ingenuità infantile attribuivamo efficacia miracolistica, sbocconcellandolo con grande avidità. E, così, le campagne biondeggiano dell’oro del frumento e s’ingravidano degli umori e dei profumi dei vigneti. E libri di scuola e reperti dei musei rovesciano nell’immaginario collettivo scene di conviti e quadri di vita agreste e dei e ninfe popolano templi e campagne, fiumi e boschi. E Demetra e Cibele, Hera ed Iside, Bacco e Pan, Priapo e Sileno occhieggiano dal pantheon del passato; e cristianesimo e paganesimo, fede e superstizione, storia e mito si mescolano e si fondono nel superiore concetto della cultura.” Ed il grano assunse valore e simbolo beneaugurante di fecondità in tutti i continenti. In India, dopo la prima notte di matrimonio la madre dello sposo si avvicina alla sposa e le pone sul capo una misura di grano e subito dopo lo sposo le si avvicina prende qualche pugno di frumento e lo spande intorno a sé. Stessa tradizione o quasi nell’area Mediterranea, come in Sardegna, ove i genitori della sposa, prima di recarsi in chiesa benedicono la figlia con chicchi di frumento. Stesso valore simbolico ha l’usanza molto diffusa nel Cilento e non solo, dove gli sposi all’uscita della chiesa sono assaliti da una festosa mitragliata di chicchi di grano e di riso, ed anche confetti con l’allusione maliziosa al dolce dell’atto d’amore finalizzato alla procreazione. E, naturalmente, grano e pane sono stati fonte di ispirazione dei poeti di tutti i tempi e di tutte le letterature, a cominciare da quella classica latina e greca, Omero in primis, (straordinarie le scene dell’agricoltura dipinte sullo scudo di Achille), ma anche quelle cantate da Sofocle in “Edipo a Colono”, e ancora quelle descritte da Esiodo nelle “Opere e i giorni”. E che dire di Virgilio che dedica un intero poemetto alla prima forma di pane nel “Moretum” e di Catone nel suo trattato sull’agricoltura e della poesia immaginifica ricca di metafore coinvolgenti delle Metamorfosi di Ovidio. Nella letteratura italiana, poi, il tema è ampiamente presente. Mi vengono in mente alcuni versi dell’Alcione di d’Annunzio come alcune scene dell’assalto ai forni di Manzoni. Per non parlare della poesia e narrativa del secondo novecento che conobbe le battaglie sociali contro i latifondi cantate e narrate da Rocco Scotellaro, Ignazio Silone, Giuseppe Jovine ecc. ecc. Analoghi esempi troveremmo nella pittura, nella musica e nella cinematografia. Ma penso anche all’archeologia, soprattutto per noi che abbiamo campi di ricerca ricchi di sorprese come Poseidonia/Paestum e Velia, i cui territori hanno conosciuto anche l’epopea contadina dell’“assalto ai latifondi” narrate in belle pagine di letteratura contemporanea. Ecco un tema da teatralizzare, che mi permetto di suggerire sommessamente alle scuole del territorio, Vallo, Paestum ed Agropoli innanzitutto. Dispongono di docenti ed alunni motivati. Troverebbero comprensione ed apertura mentale, credo, nel giovane Direttore del Museo Archeologico di Paestum, Gabriel Zuchtriegel e, mi auguro fortemente, anche nel Presidente del Parco e in alcuni sindaci ed assessori lungimiranti. Il primo ha già sperimentato positivamente la teatralizzazione di testi di Alfonso Gatto, Ungaretti e miei nell’area Archeologica con la professoressa Carmen Lucia ed i suoi bravi alunni. Gli altri, a cominciare dalla Maria Rosaria Trama, apprezzata docente di Lettere del Liceo Parmenide di Vallo, hanno promesso pubblicamente impegno e fondi per la cultura. Nel Cilento, poi, si moltiplicano le “feste del pane”, che acquistano, purtroppo, sempre più connotazioni di “sagre” chiassose e non di eventi culturali. E se fossero preceduti da un serio convegno sul pane nel mito, nelle religioni e nella letteratura, come suggerii, inascoltato, alcuni anni fa ai miei conterranei? E se mettessimo in piedi una mostra con testimonianze della semina, della mietitura, della trebbiatura e della panificazione e rispettivi attrezzi di lavoro? Faremmo opera di cultura e di recupero della tradizione a proiezione di futuro. Io tornerò sul tema convegno e mostra: lo sento come un dovere per la mia terra e come testimonianza d’amore, qualunque ne sia l’esito.

Concludo, intanto, con uno dei miei tanti testi sul tema che si prestano alla teatralizzazione.

LO PPANEFacia lo ppane ogni settimana/mamma pe lo tenè ra frisco a frisco./Lo furno era inta la cucina:/paria n’altare mbacci no cantone:/E me mannava addò zia Magarita/pe ghì a mprestà, com’era l’uso tanno,/lo lovato stipato inta lo ffrisco./Ammassava inta la matra la farina/chera ianca re grano carusedda/e chera gialla re lo granorinio./Com’era bella mamma, uocchi re sole,/nu macaturo ncapo e mantusino/nettito come neve re iennaro!/M’arricordo lo furno c’avvampava/co frascedde re fringi e de mortedde/re scantamani ca scuppettianno/spanniano l’addore pe la casa./Ricordo lo munnolo, lo vuccolo/pe spiane lo ppane ca cucia:/panelle, li panielli e li vescuotti/ca rusecava co cerasa e pruma,/presseca,pera cosce, uva e fico./E che sapore ca tenia lo vicci/mbuttunato co vruoccoli re rapa/scoppettiati co no filo r’uoglio./Che festa era la pizza re peddecchie/re pemmarore co caso grattato!/Io ne mangiava fedde belle grosse/e me untava musso, facci e mano./E mamma me uardava e se priava./Io me sentia patrone re lo munno/si me stringia e me vasava nfronte!!!”

fonte: http://www.unicosettimanale.it/rubriche/14998/il-grano-dono-degli-dei

Una fantastica attualissima poesia di TRILUSSA – Doppo l’elezzioni…

 

TRILUSSA

 

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Una fantastica attualissima poesia di TRILUSSA – Doppo l’elezzioni…

TRILUSSA – Doppo l’elezzioni

Nun c’era un muro senza un manifesto,
Roma s’era vestita d’Arlecchino;
ogni passo trovavi un attacchino
c’appiccicava un candidato onesto,
còr programma politico a colori
pè sbarajà la vista a l’elettori.
Promesse in verde,affermazioni in rosso,
convincenti in giallo e in ogni idea
ce se vedeva un pezzo di livrea
ch’er candidato s’era messa addosso
cò la speranza de servì er Paese….
(viaggi pagati e mille lire ar mese.)
Ma ringrazziamo Iddio! ‘Sta vorta puro
la commedia è finita, e in settimana
farà giustizia la Nettezza Urbana
che lesto e presto raschierà dar muro
l’ideali attaccati co’ la colla,
che so’ serviti a ingarbujà la folla.
De tanta carta resterà, se mai,
schiaffato su per aria, Dio sa come,
quarche avviso sbiadito con un nome
d’un candidato che cià speso assai…
Ma eletto o no, finchè l’avviso dura,
sarà er ricordo d’una fregatura.

Il 1 novembre del 2009 ci lasciava Alda Merini… Vogliamo ricordarla con una delle sue più belle poesie d’amore.

 

Alda Merini

 

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Il 1 novembre del 2009 ci lasciava Alda Merini… Vogliamo ricordarla con una delle sue più belle poesie d’amore.

 

Nella giornata del ricordo di Alda Merini vi proponiamo “Lettere”, una delle sue poesie d’amore più belle …

MILANO – L’1 novembre 2009 ci lasciava Alda Merini, una delle penne più belle e pungenti della letteratura e della poesia italiana. Un’assenza che ancora oggi lascia un grande vuoto. Le poesie d’amore di Alda Merini racchiudono passione, struggimento e dolore. Questo perché  i suoi testi raccontano sensazioni ed emozioni realmente vissute. “Lettere” parla della fine di un amore ed è una delle poesie che meglio aiuta a capire fino in fondo l’indimenticabile poetessa.

Lettere 

“Rivedo le tue lettere d’amore
illuminata adesso da un distacco,
senza quasi rancore.

L’illusione era forte a sostenerci,
ci reggevamo entrambi negli abbracci,
pregando che durassero gli intenti.
Ci promettemmo il sempre degli amanti,
certi nei nostri spiriti divini.

E hai potuto lasciarmi,
e hai potuto intuire un’altra luce
che seguitasse dopo le mie spalle.

Mi hai resuscitato dalle scarse origini
con richiami di musica divina,
mi hai resa divergenza di dolore,
spazio, per la tua vita di ricerca
per abitarmi il tempo di un errore.

E mi hai lasciato solo le tue lettere,
onde io le ribevessi nella tua assenza.

Vorrei un figlio da te,
che sia una spada lucente,
come un grido di alta grazia,
che sia pietra, che sia novello Adamo,
lievito del mio sangue
e che dissolva più dolcemente
questa nostra sete.

Ah se t’amo!
Lo grido ad ogni vento
gemmando fiori da ogni stanco ramo,
e fiorita son tutta
e di ogni velo vò scerpando il mio lutto
perché genesi sei della mia carne.

Ma il mio cuore trafitto dall’amore
ha desiderio di mondarsi vivo,
e perciò, dammi un figlio delicato!
Un bellissimo vergine viticcio
da allacciare al mio tronco.

E tu, possente padre,
tu olmo ricco di ogni forza antica,
mieterai dolci ombre alle mie luci.”

 

Trilussa, dieci fantastiche poesie brevi e fulminanti

Trilussa

 

 

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Trilussa, dieci fantastiche poesie brevi e fulminanti

 

l 26 ottobre del 1871 nasceva a Roma il poeta e scrittore Trilussa, pseudonimo anagrammatico di Carlo Alberto Salustri (salustri – trilussa), celebre per i suoi versi in dialetto romanesco e per lo stile satirico e dissacrante degli usi e dei costumi della borghesia e della piccola borghesia della sua epoca.

Le prime pubblicazioni di Trilussa, prevalentemente sonetti, risalgono agli anni intorno al 1890, soprattutto sul quotidiano romano Il Messaggero, col quale collaborerà per molti anni. La prima pubblicazione libraria è del 1889: “Stelle de Roma. Versi romaneschi”. Seguiranno poi moltissime raccolte tra cui “Quaranta sonetti romaneschi” (1894), “Favole romanesche” (1901), “Sonetti romaneschi” (1909), “Omini e bestie” (1914) e il celebre poemetto “La vispa Teresa” (1917). Durante gli anni del fascismo Trilussa non solo non prese mai la tessera del partito fascista, ma riuscì a non subire conseguenze per il fatto di dichiararsi sempre non-fascista (pure se mai si dichiarò esplicitamente antifascista) e pur non mancando mai tuttavia, neanche durante il regime, di continuare a satireggiare il potere così come la cieca obbedienza del popolo.

Trilussa morì nel 1950, poco dopo essere stato insignito del titolo di senatore a vita dal Presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Ma poco prima di morire, pur non godendo di buona salute, pare che il commento al prestigioso riconoscimento, sempre nel suo irrinunciabile stile sardonico, sia stato: “Mi hanno nominato senatore a morte”.

Per ricordare insieme la grandezza di Trilussa vi proponiamo una selezione di 10 poesie molto brevi ma che sintetizzano efficacemente la capacità dell’autore di individuare anche solo in poche righe fulminanti ipocrisie e meschinità non solo borghesi, ma più universalmente umane.

Buona lettura!

 

Avarizzia

Ho conosciuto un vecchio
avaro, ma avaro: avaro a un punto tale
che guarda li quatrini ne lo specchio
pe’ vede raddoppiato er capitale.

Allora dice: quelli li do via
perché ce faccio la beneficenza;
ma questi me li tengo pe’ prudenza…
E li ripone ne la scrivania.

 

La lucciola

La Luna piena minchionò la Lucciola:
– Sarà l’effetto de l’economia,
ma quer lume che porti è deboluccio
– Si – disse quella – ma la luce è mia!

 

Carità cristiana

Er Chirichetto d’una sacrestia
sfasciò l’ombrello su la groppa a un gatto
pe’ castigallo d’una porcheria.
– Che fai? – je strillò er Prete ner vedello

– Ce  un coraccio nero come er tuo
pe’ menaje in quer modo… Poverello!…
– Che? – fece er Chirichetto – er gatto è suo? –
Er Prete disse: – No… ma è mio l’ombrello!-

 

La tartaruga

Mentre una notte se n’annava a spasso,
la vecchia tartaruga fece er passo più lungo
de la gamba e cascò giù
 la casa vortata sottoinsù.

Un rospo je strillò: “Scema che sei!
Queste  scappatelle che costeno la pelle…”
– lo so – rispose lei – ma prima de morì,
vedo le stelle.

 

Accidia

In un giardino, un vagabonno dorme
accucciato per terra, arinnicchiato,
che manco se distingueno le forme.

Passa una guardia: – Alò! – dice – Cammina! –
Quello se smucchia e j’arisponne: – Bravo! –
Me sveji propio a tempo! M’insognavo
che stavo a lavorà ne l’officina!

 

Er Somaro e el leone

Un Somaro diceva: – Anticamente,
quanno nun c’era la democrazzia,
la classe nostra nun valeva gnente.
Mi’ nonno, infatti, per avé raggione
se coprì co’ la pelle d’un Leone
e fu trattato rispettosamente.

– So’ cambiati li tempi, amico caro:
– fece el Leone – ormai la pelle mia
nun serve più nemmeno da riparo.
Oggi, purtroppo, ho perso l’infruenza,
e ogni tanto so’ io che pe’ prudenza
me copro co’ la pelle de somaro!

Bonsenso pratico

Quanno, de notte, sparsero la voce
che un Fantasma girava sur castello,
tutta la folla corse e, ner vedello,
cascò in ginocchio co’ le braccia in croce.
Ma un vecchio restò in piedi, e francamente
voleva dije che nun c’era gnente.

Poi ripensò: “Sarebbe una pazzia.
Io, senza dubbio, vede ch’è un lenzolo:
ma, più che di’ la verità da solo,
preferisco sbajamme in compagnia.
Dunque è un Fantasma, senza discussione”.
E pure lui se mise a pecorone.

A chi tanto e a chi gnente!

Da quanno che dà segni de pazzia,
povero Meo! fa pena! È diventato
pallido, secco secco, allampanato,
robba che se lo vedi scappi via!

Er dottore m’ha detto: – È ‘na mania
che nun se pò guarì: lui s’è affissato
d’esse un poeta, d’esse un letterato,
ch’è la cosa più peggio che ce sia!

Dice ch’er gran talento è stato quello
che j’ha scombussolato un po’ la mente
pe’ via de lo sviluppo der cervello…
Povero Meo! Se invece d’esse matto
fosse rimasto scemo solamente,
chi sa che nome se sarebbe fatto!

La statistica

Sai ched’è la statistica? È na‘ cosa
che serve pe  un conto in generale
de la gente che nasce, che sta male,
che more, che va in carcere e che spósa.

Ma  me la statistica curiosa
è dove c’entra la percentuale,
 via che, lì, la media è sempre eguale
puro co’ la persona bisognosa.

Me spiego: da li conti che se fanno
seconno le statistiche d’adesso
risurta che te tocca un pollo all’anno:
e, se nun entra nelle spese tue,
t’entra ne la statistica lo stesso
perch’è c’è un antro che ne magna due.

Li nummeri

Conterò poco, è vero:
– diceva l’Uno ar Zero –
– ma tu che vali? Gnente: propio gnente
sia ne l’azzione come ner pensiero
rimani un coso vôto e inconcrudente.

Io, invece, se me metto a capofila
de cinque zeri tale e quale a te,
lo sai quanto divento? Centomila.

È questione de nummeri. A un dipresso
è quello che succede ar dittatore
che cresce de potenza e de valore
più so’ li zeri che je vanno appresso.

 

fonte: http://diecibattute.altervista.org/trilussa-dieci-fantastiche-poesie-brevi-fulminanti/