Mia Martini, ventiquattro anni dopo quel tragico 12 maggio 1995. La cattiveria e le maldicenze la uccisero, ma il suo talento è immortale e Lei resterà per sempre un mito.

Mia Martini

 

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Mia Martini, ventiquattro anni dopo quel tragico 12 maggio 1995. La cattiveria e le maldicenze la uccisero, ma il suo talento è immortale e Lei resterà per sempre un mito.

12 maggio 1995: Mimì muore nella sua casa. È sola, in testa ha le cuffie del walkman. “Era serena”, scriveranno. Aveva vissuto sui palchi, si era isolata, tra estremi, senza compromessi. Vittima delle malelingue, sostenuta dagli amici come Renato Zero e dalla sorella Loredana, stimata dai colleghi Fossati, Mina, De André. Storia di una voce che l’Italia non ha mai smesso di  amare.

Nessuno risponde. Il campanello non smette di suonare, ma nessuno risponde. Nando Sepe, professione manager, tiene il dito incollato sul citofono, ma nulla. Eppure la Citroën verde di Mimì è parcheggiata lì fuori, all’esterno di quella palazzina di due piani in via Liguria 2, a Cardano del Campo, Varese. E in quella mattina del 14 maggio di venti anni fa, Sepe chiama la padrona di casa, si fa dare le chiavi di riserva. Ma la porta è chiusa dall’interno. Quando poche ore dopo i pompieri la sfondano, Mia Martini è stesa sul letto, le cuffie del walkman sulle orecchie. “L’espressione serena”, diranno. È morta da quarantotto ore. La notizia sbriciola i palinsesti televisivi. Renato Zero chiama Loredana Berté, la sorella di Mimì: “Spegni tutto, sto arrivando”. I cronisti appostati sotto casa della Bertè ricordano ancora le urla. E, di ricordo in ricordo, dopo vent’anni nessuno ha dimenticato quella voce magnetica, dolce, scura, emozionante e quelle melodie che Mia Martini ha regalato alla musica italiana.

“Ci sarebbero pure ‘sti due amici”. Funzionava così: era la frase classica che completava una strategia infallibile. Roma, 1968, Loredana Berté in minigonna a chiedere l’autostop. E poi Mimì, con l’immancabile bombetta, quasi uscita da un film di Fellini, che con Renato sbucava sulla strada per prendere al volo il passaggio conquistato. Inseparabili, i tre. Cercavano di mettere su un gruppo musicale. Per la Martini, ventunenne, era già la fase due della carriera: aveva iniziato nei primi anni Sessanta. Un viaggio in treno da Ancona verso Milano, Etta James nel cuore, Carlo Alberto Rossi che le fa incidere i primi singoli. Poi i concerti sulla riviera romagnola, qualcuno con Pupi Avati alla batteria. Qualche piccolo successo, ma la carriera da ragazza ye-ye non decolla. Mimì sta per lasciare, inizia a lavorare al sindacato dei musicisti, ma la passione per la musica è troppo forte. Quella Roma le restituirà la voglia di continuare. Diventa amica di Gabriella Ferri. Sperimenta con piccoli gruppi jazz. Sta per farcela. Poi in Sardegna, nel 1969, l’arresto per possesso di hashish e la condanna a quattro mesi di carcere. Le cambieranno la vita.

Una dinamica maledetta di ombre e di luce, di pace e di dannazione, di sorrisi e di lacrime. La vita e la carriera di Mia Martini si sono sempre mosse tra gli estremi, saltando le vie di mezzo, i compromessi, la sciatteria, la mediocrità. Dopo l’arresto Mimì torna a Roma, sbarca a Civitavecchia in una giornata di pioggia. Entra in un bar, prende un cappuccino e inizia a berlo sotto il diluvio. E sorridendo decide di non rinunciare al suo sogno. Sceglie il jazz. Ritorna a essere “Domenica” (il suo nome completo è Domenica Rita Adriana Berté) e con il trio di Totò Torquati conquista il pubblico del Titan di via della Meloria, del Piper di via Tagliamento. L’occasione della vita le capita nel febbraio del 1971. Deve correre al Piper di Viareggio, c’è da improvvisare una serata. Il pubblico resta a ballare fino alle quattro di mattina. Alberigo Crocetta, proprietario del Piper e mentore di Patty Pravo, si offre di produrla. Mimì rifiuta una prima volta. Poi cede. “Dobbiamo cambiare nome però. Ci vuole un nome italiano riconoscibile nel mondo. Ho pensato a Martini”, dice Crocetta. “Va bene: però mi chiamerò Mia, come Mia Farrow”. La storia ha inizio.

Gli anni Settanta saranno i suoi anni. Inizia a collaborare in modo stabile con Baldan Bembo, Bruno Lauzi, Claudio Baglioni. Con Franco Califano scatta l’alchimia musicale. C’è questa canzone, Minuetto, ma nessuno riesce a scrivere le parole giuste per Mia. Lei e Califano escono una sera a cena. Parlano tanto. E “il Califfo” ritorna il giorno dopo con un testo che sembra un pezzo pregiato di sartoria artigianale: perfetto per la Martini. “E vieni a casa mia, quando vuoi, nelle notti più che mai / dormi qui, te ne vai, sono sempre fatti tuoi”. Nell’Italia dove maistream fa rima con piccolo-borghese le parole, il volto, l’immagine della Martini sono come un metallo pregiato, come un diamante: l’autenticità professata come valore assoluto. La sensibilità come guida. Talmente forte che le piccole, idiote e meschine armi che lo show business inventa per fermare la Martini diventano tanti colpi. Le dicerie sul suo “portar jella” iniziano allora. Non si fermeranno mai. Mimì prima ci sorride. Poi ci sta male. Crisi cicliche. Sempre più pesanti.

“Una monomaniaca della musica”: Mimì secondo Ivano Fossati, che con lei ha condiviso una pezzo importante di vita. A lei regalò “E non finisce il cielo”, una delle canzoni d’amore più intense della musica pop italiana, con cui Mia Martini partecipò per la prima volta al Festival di Sanremo nel 1982 ottenendo il Premio della Critica, istituito in quell’anno appositamente per lei e a lei intitolato dopo la sua morte. Ironia della sorte, il premio attribuito non fu mai consegnato alla cantante e venne ritirato, postumo, dalla sorella Loredana Berté durante la serata finale del Festival di Sanremo 2008.

Fino alla decisione di ritirarsi dalle scene, nei primi anni Ottanta. Non bastano la stima, l’affetto, l’amore che le manifestano Charles Aznavour, Ivano Fossati, Pino Daniele, Paolo Conte, Fabrizio De Andrè. Non basta il Premio della Critica istituito apposta per lei al Festival di Sanremo nel 1982, quando ipnotizza tutti con E non finisce mica il cielo. Non basta la sfrontatezza di Loredana con cui collabora per Non sono una signora. Non basta neanche la venerazione che tanti giovani talenti, da Ramazzotti in giù – per il cantautore romano inciderà i cori del ritornello di Terra promessa – le manifestano. Mia decide di darci un taglio. Si rifugia da Leda, la sorella più grande. Cerca una vita ordinaria. È il 1985. Sparisce per quattro anni, si trasferisce a Calvi, in Umbria, solo piccoli concerti di provincia, pochissimi. Poi una sera del dicembre del 1988 un incidente. La sua macchina scivola su una lastra di ghiaccio e la Martini ne esce miracolosamente illesa. Tornata a casa, prima il panico, le lacrime. Poi una risata liberatoria. Decide di ritornare. Di riprendersi il suo mondo.

“Sai, la gente è strana, prima si odia e poi si ama, cambia idea improvvisamente, come fosse niente, sai la gente è matta, forse è troppo insoddisfatta, segue il mondo ciecamente, quando la moda cambia, lei pure cambia continuamente e scioccamente”: un testo rimasto nel cassetto. Dietro questa “lettera” che sembra una dichiarazione d’amore, gli autori Bruno Lauzi e Maurizio Fabrizio, nel 1972, anticipavano i tempi contestando la cieca frenesia di una società dedica al consumo. Depositato soltanto nel 1979, rimase inedito a lungo, fino a quando nel 1989 arrivò a Mimì, che la presentò al Festival di Sanremo di quell’anno. Ancora un Premio della Critica, avrebbe meritato di vincere.

1989, 21 febbraio, Sanremo. Per capire è necessario il contesto. È necessario inscrivere quel piccolo miracolo in un prima e in un dopo. Il prima è rappresentato dai “figli di papà”: Rosita Celentano, Paola Dominguin, Danny Quinn e Gianmarco Tognazzi, che presentano il festival in puro stile anni Ottanta. Dinoccolati e cotonati. Dopo c’è Jovanotti, cappello da cowboy, aria casinista e “No Vasco, no Vasco, io non ci casco”. In mezzo, un angelo. Mia Martini entra sul palco sorridendo, attacca Almeno tu nell’universo. Al ritornello alza i pugni al cielo, accompagna presenti e telespettatori su una melodia magnifica, su parole struggenti. Ed è una bomba, pelle d’oca collettiva. Rivince il premio della critica. Ritorna dal suo pubblico. Ricomincia a vivere e respirare. Verranno La nevicata del ’56Gli uomini non cambiano. Verrà il successo, di nuovo.

“Piccere’, canta”. Roberto Murolo le sorride nella sua casa napoletana. I due, è il 1992, stanno provando una canzone di Enzo Gragnaniello, Cu ‘mme. Quattro minuti e mezzo di magia, uno spazio in cui si dispongono tradizione, rabbia, commozione, rimpianto, voglia di vivere, paure e desideri. A quarantacinque anni Mia Martini è ormai patrimonio indiscusso della canzone italiana. Nel 1993, dopo un decennio di reciproci silenzi, corre da Loredana ricoverata in ospedale. Baci e carezze e un progetto: ritornare insieme a Sanremo. Lo faranno l’anno successivo. Poi quello che sarà il suo testamento. Un disco di cover registrato dal vivo – prodotto dal suo amico Shel Shapiro – dei “suoi” cantautori: La musica che mi gira intorno. Ancora Fossati, Mimì sarà di De Gregori, Fiume di Sand Creek di De Andrè. In Dillo alla luna di Vasco Rossi l’interpretazione più intensa. Tutto sembra andare. Tutto s’interromperà il 12 maggio. Poi i funerali, vagonate di parole. Le polemiche postume. Il ruolo del padre nella sua vita e nella sua morte. Le indagini, l’autopsia, i medici che mettono nero su bianco le cause del decesso: overdose di cocaina. Patina. Che nulla toglie alla voce di Mimì. “Una monomaniaca della musica”, secondo Ivano Fossati che con lei ha condiviso una pezzo importante di vita. Mina: “Per fortuna il suo talento dolente e intenso è rimasto qui, nei suoi dischi. Io ho anche fatto un suo pezzo, Almeno tu nell’universo, ma meglio la sua versione”. E un giorno Fabrizio De André, forse, ha sintetizzato il sentire comune, definendosi “innamorato totale della sua arte e della sua umanità”. Lo siamo ancora, vent’anni dopo: totalmente innamorati di Mimì.

 

tratto da:

http://www.repubblica.it/spettacoli/musica/2015/05/12/news/mia_martini-114019951/#gallery-slider=113880139

Mia Martini, ventiquattro anni dopo quel tragico 12 maggio 1995. La cattiveria e le maldicenze la uccisero, ma il suo talento è immortale e Lei resterà per sempre un mito.ultima modifica: 2019-05-11T13:12:04+02:00da eles-1966
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