La storia che non vi raccontano – La foto del 1870: un uomo bianco fieramente in posa sotto una montagna di teschi di bisonti… Una schifosa carneficina per sostenere l’industria della carne bovina dei “bianchi” e per affamare e sterminare le tribù indiane (leggi genocidio)…

bisonti

 

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La storia che non vi raccontano – La foto del 1870: un uomo bianco fieramente in posa sotto una montagna di teschi di bisonti…  Una schifosa carneficina per sostenere l’industria della carne bovina dei “bianchi” e per affamare e sterminare le tribù indiane (leggi genocidio)…

TRAGEDIE DIMENTICATE – Quest’immagine racconta una delle tragedie che la “nostra” storia volutamente non racconta. Scattata nel 1870 la foto mostra un uomo occidentale fieramente in posa di fronte ad una montagna di teschi di bisonti americani, animali sistematicamente macellati dai colonizzatori europei una volta arrivati nel continente nord americano.

L’esercito americano composto dai coloni incentivò la mattanza di questi animali per due ragioni:
➤ Per evitare qualsiasi competizione commerciale con l’industria della carne bovina e di vitella che di lì a poco sarebbe stata importata nel continente nord americano.
➤ Per ostacolare il più possibile la sopravvivenza delle tribù locali che rappresentavano una chiara minaccia all’espansione ed egemonia dei colonizzatori.

Dopo un secolo e mezzo vogliamo ricordare queste tragedie silenziose che hanno riguardato milioni di individui e che volutamente vengono dimenticate dalla “nostra” storia.
CONDIVIDI quest’immagine e queste parole, per non dimenticare!

È in fin di vita, ma hanno voglia di insultarlo, il suo grido di dolore non morirà mai – Migranti, Andrea Camilleri: NON IN NOME MIO – Io mi rifiuto di essere complice di questa volgarità nazista…

 

Andrea Camilleri

 

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È in fin di vita, ma hanno voglia di insultarlo, il suo grido di dolore non morirà mai – Migranti, Andrea Camilleri: NON IN NOME MIO – Io mi rifiuto di essere complice di questa volgarità nazista…

“Ci tengo da cittadino italiano, a dire questa frase: Non in nome mio”. Così lo scrittore Andrea Camilleri è intervenuto commentando lo sgombero avvenuto a Castelnuovo di Porto di una comunità di 540 migranti, definendolo “persecutorio, cioè a dire che stiamo entrando in un regime di violenza e di prepotenza”. Camilleri ha anche sottolineato la necessità di “tenere aperti i porti a tutti, mai chiusi, mentre si perseguitano anche coloro che ormai sono italiani perfettamente integrati. Questa è un’ossessione, rendetevene conto. Mi rifiuto di essere un cittadino italiano complice di questa nazista volgarità”.

A. Camilleri

Andrea Camilleri, in un video inviato a Fanpage.it, ha commentato lo sgombero avvenuto al centro di accoglienza di Castelnuovo di Porto, alle porte di Roma, di più di 500 migranti: “Non in nome mio. Questa è un’ossessione, rendetevene conto. Io mi rifiuto di essere un cittadino italiano complice di questa nazista volgarità”.

“Ci tengo da cittadino italiano, a dire questa frase: Non in nome mio”. Comincia così lo sfogo dello scrittore Andrea Camilleri, intervenuto inviando un videomessaggio a Fanpage.it per commentare lo sgombero avvenuto a Castelnuovo di Porto, alle porte di Roma, di una comunità di 540 migranti “che erano riusciti perfettamente a integrarsi nella società italiana, com gente che lavorava e pagava le tasse in Italia”, come effetto del Decreto Sicurezza voluto dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Un provvedimento, quello attuato nel Cara capitolino, che Camilleri ha definito “persecutorio, cioè a dire, attenzione, stiamo entrando assolutamente in un regime di violenza e di prepotenza”.

Lo scrittore di origine siciliana ha anche sottolineato la necessità di  “tenere aperti i porti a tutti, mai chiusi, perché i porti spesso sono la riva sognata dalla gente, da migliaia di persone. Gli si chiude la porta in faccia e non solo, si comincia a perseguitare anche coloro che ormai sono italiani perfettamente integrati. Questa è un’ossessione, rendetevene conto. Io mi rifiuto di essere un cittadino italiano complice di questa nazista volgarità”. Dal 22 gennaio scorso è iniziato lo sgombero del Cara di Castelnuovo di Porto, che dovrebbe terminare entro il 31 gennaio, quando circa 500 migranti saranno trasferiti altrove. Ieri la protesta della parlamentare Leu Rossella Muroni, che si è messa davanti al pullman in partenza con i primi profughi chiedendo indicazioni precise del luogo dove i migranti venivano portati. Il tutto tra gli applausi dei presenti. Dopo il centro di accoglienza alle porte di Roma, è stato già annunciato dalle autorità competenti che la stessa procedura sarà avviata per il più grande centro di rifugiati d’Europa, il Cara di Mineo in provincia di Catania, e poi ancora in quelli di Bologna, Crotone, Bari e Borgo Mezzanone, nel Foggiano. Circa seimila, in tutto, le persone che saranno trasferite, mentre molti rischiano il rimpatrio perché non hanno più la protezione umanitaria.

Tratto da: https://www.fanpage.it/migranti-camilleri-tenere-i-porti-aperti-non-saro-complice-di-questa-volgarita-nazista/

Amarcord – 23 giugno 1994, Forrest Gump compie 25 anni – Il racconto di trent’anni di Storia aspettando il bus sulla panchina…

 

Forrest Gump

 

 

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Amarcord – 23 giugno 1994, Forrest Gump compie 25 anni – Il racconto di trent’anni di Storia aspettando il bus sulla panchina…

Il film di Robert Zemeckis festeggia 25 anni: sei Oscar tra cui miglior film e regia, sceneggiatura a Eric Roth e protagonista maschile a Tom Hanks

Inizia tutto su una panchina, alla fermata dell’autobus: il candido narratore intrattiene alcuni ignari vicini raccontando piccoli grandi eventi vissuti nella sua giovane vita. Nelle sue parole scorrono trent’anni di Storia americana attraverso incontri e avvenimenti cruciali di cui è stato inconsapevole testimone. Forrest Gump incanta i suoi interlocutori parlando di Elvis Presley e John Lennon, della guerra in Vietnam e dello scandalo Watergate, di segregazione razziale e Black Panther, oltre alle svariate visite alla Casa Bianca dove ha incontrato i presidenti  Kennedy, Johnson e Nixon.

Il film di Robert Zemeckis, presentato a Los Angeles il 23 giugno 1994 e uscito nelle sale il 6 luglio, segnò uno dei più alti record d’incasso della stagione con quasi 678 milioni di dollari globali. Fu il maggior successo dell’anno negli Stati Uniti e il secondo complessivo in tutto il mondo dopo Il re leone uscito nelle sale Usa il 15 giugno. Zemeckis aveva già lasciato il segno con una serie di successi straordinari, dalla trilogia di Ritorno al futuro alla fusione tra attori e cartoon in Chi ha incastrato Roger Rabbit?, sperimentazioni premiate più volte con gli Oscar per gli innovativi effetti visivi e sonori. Ma conForrest Gump, tra tredici candidature, il regista conquista la preziosa statuetta per la miglior regia oltre a quella per il miglior film, per il protagonista Tom Hanks (che lo aveva vinto anche l’anno precedente per Philadelphia), per la sceneggiatura di Eric Roth, per il montaggio e naturalmente per gli effetti speciali.

Oggi al cinema non stupisce più nulla, il digitale ci ha abituati alla perfezione. Ma 25 anni fa le sperimentazioni in Cgi di Zemeckis fecero scalpore: in particolare le sequenze in cui il personaggio di Forrest è inserito in filmati di repertorio, arrivando anche a stringere la mano a John Fitzgerald Kennedy dicendogli “Devo fare pipì”, e appare in un’intervista accanto a John Lennon durante la quale gli suggerisce uno spunto per Imagine. Le incursioni nel passato hanno fatto il successo del film e permettono a Forrest Gump di incidere, pur senza rendersene conto, in alcuni degli eventi della seconda metà del XX secolo, come quando entra all’università l’11 giugno 1963 insieme a Vivian Malone e James Hood, i primi due studenti neri scortati dalla Guardia Nazionale, oppure quando si trova al Watergate Hotel e chiama la reception perché vede “gente strana nell’appartamento di fronte” dando il via allo scandalo che portò alle dimissioni di Nixon.

Qualche curiosità:

Bill MurrayJohn Travolta e Chevy Chase hanno rifiutato il ruolo di Forrest Gump. Travolta, più tardi, ammise che era stato un errore.

Tom Hanks ha firmato il contratto dopo un’ora e mezza aver letto la sceneggiatura, ma ha accettato solo a condizione che il film fosse storicamente accurato.

La famosa panchina del film si trova nel centro storico di Savannah, in Georgia, in Chippewa Square. La panca è stata rimossa e collocata in un museo per evitare che fosse distrutta dal maltempo, o rubata.

Ad ogni passaggio dell’età di Forrest, una cosa rimane la stessa: nella prima scena di ogni transizione indossa una camicia blu a quadri.

La frase “La vita è come una scatola di cioccolatini: non sai mai quello ti capita” è stata votata come la citazione numero 40 dall’American Film Institute della top100.

La barca che pescava gamberi ora si trova nel Planet Hollywood a Downtown Disney, presso il Resort Disneyworld in Florida. Inoltra una delle racchette da ping-pong usate nel film e firmata da Tom Hanks è appesa su una delle pareti del ristorante.

Il film è stato selezionato dalla Library of Congress per la preservazione nel National Film Registry nel dicembre 2011 come “culturalmente, storicamente o esteticamente significativo”.

Amarcord – 17 giugno 1970, 49 anni fa, la mitica semifinale Italia-Germania 4-3. Da allora all’ingresso dello stadio Azteca di Città del Messico è apposta la targa “El partido del siglo”

 

Italia-Germania

 

 

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Amarcord – 17 giugno 1970, 49 anni fa, la mitica semifinale Italia-Germania 4-3. Da allora all’ingresso dello stadio Azteca di Città del Messico è apposta la targa “El partido del siglo”

Italia-Germania 4-3: una brutta partita che fece la storia

Perfino chi non era ancora nato la porta nel cuore, sente un po’ di esserci stato. Perché Italia-Germania 4-3, semifinale del Mondiale 1970, è stata epica. In barba al gioco non strepitoso e agli errori. Ma grazie a un carattere che ci piacerebbe avere in tutti i momenti difficili

La partita fra azzurri e tedeschi occidentali è leggenda per il modo in cui i fatti si susseguono e per una serie di coincidenze che forse non sono tali, ma che in ogni caso arricchiscono una trama già ricca e complessa. Del resto, se ancor oggi all’interno dello stadio Azteca di Città del Messico una targa commemora “Italia y Alemania” come “el partido del siglo” (la partita del secolo), un motivo pure ci sarà.

È il 17 giugno di 45 anni fa, ci sono oltre 102mila spettatori sugli spalti, mentre altre centinaia di milioni di abitanti del pianeta sono collegati in Mondovisione. In palio c’è un posto in finale, dove il Brasile (che nel frattempo ha sconfitto per 3-1 l’Uruguay nell’altro confronto di semifinale) attende di sapere contro chi dovrà scendere in campo per giocarsi la Coppa Rimet domenica 21 giugno 1970. Sono le 16, ore locali, di un mercoledì in apparenza come altri. Il caldo – riportano le cronache – è piuttosto torrido, ma pochi sembrano farci caso. In Italia è tarda sera, nessuno capace di intendere e di volere vuole perdersi lo spettacolo.

Il gol di Boninsegna dopo otto minuti incanala l’incontro nella direzione che l’Italia preferisce: far fare gioco agli avversari e ripartire in contropiede. Ma, siamo due minuti oltre il 90°, All’ultimo assalto tedesco, la difesa italiana dà segni di cedimento ma in effetti manca pochissimo. Dal limite sinistro dell’area azzurra Grabowski lascia partire un cross al centro. Si avventa sul pallone il difensore Schnellinger, uno che avrà segnato tre volte in vita sua. La difesa azzurra lo lascia inspiegabilmente libero. Colpo quasi in spaccata e al 92’ e 30’’ la Germania pareggia.

E qui finisce la storia ed inizia la leggenda.

Muller porta in vantaggio i tedeschi.

Burgnich, che ancora oggi non sa cosa rispondere a chi gli chiede cosa facesse nell’area di rigore tedesca, pareggia al 98′.

Sinistro di Riva, al 104′: 3-2 sembra fatta. Sembra…

Sembra perché Rivera è troppo elegante per vestire la tuta di operaio: causa il 3-3 al 110′ “scansandosi” su un colpo di testa di Seeler.

Si farà perdonare trenta secondi dopo, calciando il pallone del 4-3 nell’immediato capovolgimento di fronte.

Ricorda Gianni Brera:

«I tedeschi sono battuti. Beckenbauer con braccio al collo fa tenerezza ai sentimenti. Ben sette gol sono stati segnati. Tre soli su azione degna di questo nome: Schnellinger, Riva, Rivera. Tutti gli altri, rimediati. Due autogol italiani (pensa te!). Un autogol tedesco (Burgnich). Una saetta di Bonimba ispirata da un rimpallo fortunato […]
Come dico, la gente si è tanto commossa e divertita. Noi abbiamo rischiato l’infarto, non per scherzo, non per posa. Il calcio giocato è stato quasi tutto confuso e scadente, se dobbiamo giudicarlo sotto l’aspetto tecnico-tattico. Sotto l’aspetto agonistico, quindi anche sentimentale, una vera squisitezza, tanto è vero che i messicani non la finiscono di laudare (in quanto di calcio poco ne san masticare, pori nan).
I tedeschi meritano l’onore delle armi. Hanno sbagliato meno di noi ma il loro prolungato errore tattico è stato fondamentale. Noi ne abbiamo commesse più di Ravetta, famoso scavezzacollo lombardo. Ci è andata bene. Siamo stati anche bravi a tentare sempre, dopo il grazioso regalo fatto a Burgnich (2-2). L’idea di impiegare i dioscuri Mazzola e Rivera è stata un po’ meno allegra che nell’amichevole con il Messico. Effettivamente Rivera va tolto dalla difesa. Io non ce l’ho affatto con il biondo e gentile Rivera, maledetti: io non posso vedere il calcio a rovescio: sono pagato per fare questo mestiere. Vi siete accorti o no del disastro che Rivera ha propiziato nel secondo tempo?»

Così scriveva Gianni Brera all’indomani della mitica semifinale (QUI l’articolo completo)

Per la cronaca, l’Italia perse la finale col Brasile per 1 a 4. Ma il primo tempo terminò 1-1 e le squadre si equivalsero… Il Brasile avava avuto un giorno di riposo in più e l’Italia una semifinale massacrante… Col senno di poi, se Schnellinger non avesse pareggiato a tempo ormai scaduto, ci saremmo persi la “partita del secolo”, ma forse avremmo avuto una finale diversa…

By Eles

Buon compleanno Stanlio – Il 16 giugno del 1890 nasceva il mitico Stan Laurel, il nostro ricordo tra risate, curiosità e nostalgia

 

Stan Laurel

 

 

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Buon compleanno Stanlio – Il 16 giugno del 1890 nasceva il mitico Stan Laurel, il nostro ricordo tra risate, curiosità e nostalgia

Stan Laurel, pseudonimo di Arthur Stanley Jefferson (Ulverston, 16 giugno 1890 – Santa Monica, 23 febbraio 1965), è stato un attore, comico, regista, produttore cinematografico e sceneggiatore britannico.

Stan Laurel, meglio conosciuto per il ruolo di Stanlio del duo comico Stanlio & Ollio (Laurel & Hardy), «è considerato uno dei più grandi attori comici di tutti i tempi; agilissimo nella sua fisicità e geniale nell’invenzione comica, ha innovato profondamente il modo di recitare la comicità per le sue capacità di rendere ricco di particolari intriganti un individuo “apparentemente stupido”.» I suoi giochi di parole molto spesso erano frasi semplici, ma venivano espresse con variopinte e bizzarre combinazioni.

Stanlio e il Travaso del vino (da Noi siamo zingarelli, 1936)

Nel novero delle icone umoristiche in grado di affermarsi nell’immaginario popolare come geni artistici a tutto tondo, a Stanlio e Ollio è riservato un posto d’onore. Dietro allo step finale della risata si muovevano gli ingranaggi di un vero e proprio laboratorio artigianale, dove la scrittura e l’interpretazione si mescolavano alla regia e al montaggio. Pochi attori hanno saputo raccontare il popolo facendolo innamorare come loro:“Il mondo è pieno di persone come Stanlio e Ollio. Basta guardarsi attorno: c’è sempre uno stupido al quale non accade mai niente, e un furbo che in realtà è il più stupido di tutti. Solo che non lo sa” amava affermare più volte Hardy.
Il 1º maggio esce nelle sale italiane il film sul celebre duo comico interpretato sontuosamente da Steve Coogan e John C. Reilly, che si calano perfettamente nei panni di Laurel e Hardy senza mai scadere nella macchietta, mostrando delle eccellenti doti mimetiche. Un film di cui abbiamo parlato anche nella nostra recensione di Stanlio e Ollio che non assolve soltanto alla mera funzione nostalgica ma che riesce a raccontare ed entrare nel cuore di un’amicizia solida, profonda e imprescindibile per il successo professionale e che permise di superare momenti bui e i pochi attriti. In occasione dell’uscita del film di Jon S. Baird ricordiamo 10 curiosità su Stanlio e Ollio, ma prima vogliamo spendere due parole sul periodo e le circostanze in cui si svolge il film.

Nel 1950 Stan Laurel e Oliver Hardy stanno compiendo un viaggio in Europa. Si tratta di un breve tour per promuovere il loro prossimo film, Atollo K. Sarà l’ultimo lungometraggio a cui parteciperà la coppia. Nel corso di un’intervista, a Oliver Hardy viene chiesto del suo interesse verso lo stile slapstick della comicità, legato al linguaggio del corpo e alle gag, di cui Laurel e Hardy erano tra i più fulgidi esponenti:“È interessante ma ormai se ne vede poco. La gente vuole ridere ma la comicità di oggi è poco comica. I produttori vogliono il drammatico, non il comico. Anche perché è difficile fare un film comico”. Parole che scorrono all’interno di una conversazione qualunque ma che fotografano alla perfezione ciò che la comicità – e quindi gli stessi Laurel e Hardy – stava passando in quel periodo. Un passaggio di consegne generazionale che stava ormai modificando in maniera sostanziale le dinamiche umoristiche nel mondo dello spettacolo in relazione a ciò che il pubblico e l’industria cinematografica stessa richiedevano in quel periodo.

Dieci curiosità
1) DUE CARATTERI DIVERSI

Tra le differenze principali che caratterizzavano Stan Laurel e Oliver Hardy, la più evidente era il carattere. Lo schema ben definito dei personaggi di Stanlio e Ollio non ricalcava la personalità dei due interpreti. Entrambi perennemente in abito scuro con bombetta incorporata, i personaggi di Stanlio e Ollio si sono affermati come due icone immortali della comicità cinematografica. Corpulento, saccente, gentiluomo maldestro e costantemente impegnato nel dimostrare la superiorità intellettiva rispetto all’amico, Ollio si palesa ogni volta più sciocco di Stanlio; quest’ultimo, lagnoso, fisico minuto e longilineo, subisce inizialmente l’arroganza di Ollio, salvo poi uscire indenne da ogni situazione, contribuendo a mettere nei guai il compare. La dialettica, la mimica e l’uso del corpo di Stanlio e Ollio hanno innovato in maniera significativa il mondo della comicità. Ma nella vita l’indole di Stan Laurel e Oliver Hardy era profondamente diversa; Laurel era il vero regista e burattinaio della coppia, autore delle gag, artigiano tuttofare. Hardy era il braccio destro operativo, magistrale esecutore delle indicazioni dell’amico, che integrava con soluzioni altrettanto brillanti. Una differenza caratteriale che li ha spesso fortificati; la puntigliosità e l’impulsività di Laurel, noto per la sua complicata personalità, era compensata dall’atteggiamento maggiormente conciliante e diplomatico di Hardy.

2) VITA PRIVATA

I tumulti della vita privata hanno contraddistinto entrambe le vite private di Stan Laurel e Oliver Hardy. Nei film, Stanlio e Ollio sono spesso sposati con donne benestanti e dispotiche. Nella realtà Stan Laurel ha vissuto svariati e tormentati matrimoni, perfettamente in linea con il saliscendi emotivo che lo caratterizzava anche sul lavoro. Si sposò otto volte, ebbe due figli, e in alcuni casi le separazioni erano talmente repentine che rischiò di essere accusato di bigamia. Meno prolifica ma altrettanto altalenante la vita sentimentale di Oliver Hardy; in seguito al divorzio richiesto dalla prima consorte conobbe la futura seconda moglie sul set di The Flying Deuces, con la quale rimase sposato fino alla morte. La turbolenta vita privata di Laurel e Hardy fu uno dei motivi di dissidio con il celebre produttore Hal Roach, che mal sopportava questo genere di notizie in prima pagina.

3) IL DOPPIAGGIO ITALIANO

Altrettanto famoso in Italia è il doppiaggio italiano che ha caratterizzato i personaggi di Stanlio e Ollio. Le varie storpiature fonetiche tuttavia nascono dalla produzione multilingue che Hal Roach aveva espressamente richiesto per non perdere potenziali guadagni all’estero, soprattutto in nazioni dove l’inglese non veniva parlato. A questo proposito scelse di far ripetere in prima persona le battute agli attori con l’ausilio di madrelingua per la pronuncia corretta da utilizzare. Un lavoro piuttosto laborioso e complicato che contribuì involontariamente al successo del doppiaggio italiano, che decise di mantenere i vari errori d’accentazione senza modificarli, aumentando di fatto la fama di Stanlio e Ollio in Italia, grazie anche all’interpretazione vocale dei diversi doppiatori che si sono alternati negli anni.Tra i più noti si ricordano Mauro Zambuto e il suo caratteristico pianto in falsetto conferito a Stanlio e Alberto Sordi – che vinse un concorso indetto dalla MGM anche per le sue qualità canore – per Ollio, attribuendogli un registro vocale più basso rispetto a quello originale di Hardy.

4) GAG E STILE

Le avventure di Stanlio e Ollio, pur variando in base alle trame differenti nei vari film, mantengono lo stesso tipo di canovaccio. Soprattutto uno stile ben riconoscibile delle gag contribuisce a delineare maggiormente il profilo dei due personaggi. Solitamente Stanlio e Ollio sono due amici sposati a donne ricche e tiranniche, che tentano di uscire da una quotidianità che non li valorizza abbastanza, cercando di migliorare le proprie condizioni di vita, soprattutto a livello economico. Il risultato è quasi sempre disastroso. Una delle gag più riconoscibili è il camera look di Ollio: ogniqualvolta Stanlio esce indenne da una situazione critica il rimprovero dell’amico si traduce in uno sguardo sconsolato in camera, per coinvolgere ulteriormente lo spettatore e cercare consolazione dalle proprie disgrazie. Altre caratteristiche preponderanti sono il pianto esagerato di Stanlio, in seguito a qualche critica eccessiva di Ollio, e le risate contemporanee, un escamotage che nasce anche da situazioni malinconiche o tristi come ne Lo sbaglio e Frà Diavolo.

 

5) MUSICA E BALLETTI

Le sequenze musicali nei film di Stanlio e Ollio hanno impreziosito diverse avventure del duo, soprattutto mettendo in luce le doti canore di Oliver Hardy, dato il suo registro tenorile, e i balletti improvvisati in diversi film, con alcune musiche diventate dei cult per i fan. La canzone più ricordata è The Cuckoo Song, ideale colonna sonora simbolo delle peripezie di Stanlio e Ollio, composta da Marvin Hatley, presente per la prima volta nel film del 1930, I ladroni. Impareggiabile è il balletto in I diavoli volanti, dove Ollio si leva la bombetta e intona la canzone dal titolo Guardo gli asini che volano nel ciel, con Stanlio che improvvisa un comico passo di danza, in seguito supportato dall’amico. La canzone italiana è cantata da Alberto Sordi mentre in originale Hardy intona la famosa Shine On, Harvest Moon di Nora Bayes e Jack Norworth. Grazie a questo intermezzo musicale I diavoli volanti è tutt’oggi uno dei film più famosi della coppia.

6) GLI ESORDI CON CANE FORTUNATO

1921, sul set del cortometraggio diretto da Jesse Robbins, Cane fortunato. Stan Laurel e Oliver Hardy incrociarono per la prima volta le loro strade in quell’occasione. Stan era il protagonista designato del film, nei panni di uno sbadato giovanotto giramondo che viene tallonato da un corpulento bandito, interpretato da Oliver Hardy. Il corto è ricordato per essere l’esordio ufficiale di Stan Laurel e Oliver Hardy nello stesso film ma i due non lavoreranno più insieme fino al 1926, quando Stan Laurel avrebbe dovuto dirigere Get ‘Em Young, con Oliver Hardy nel cast. Un incidente domestico di Hardy costrinse Laurel a sostituirlo e lasciare la regia del progetto. La tensione del momento sfociò in ilarità quando la reazione goffa e arrabbiata di Laurel colpì il produttore Hal Roach, che nel 1927 decise di creare ufficialmente la coppia.

7) VINCOLI E LIBERTÀ

Proprio Hal Roach fu una figura fondamentale, nel bene e nel male, nella lunga carriera di Stan Laurel e Oliver Hardy. In particolare il rapporto con Stan Laurel fu piuttosto travagliato, con Roach che non sopportava il ruolo fin troppo invasivo di Laurel, che lavorava ai film non solo come interprete ma spesso anche come sceneggiatore, regista e montatore. La prima rottura avvenne nel 1935, quando Laurel venne licenziato e poi riassunto qualche mese dopo. Preludio alla rottura definitiva nel 1938, quando Roach e Laurel si divisero soprattutto per la mancanza di libertà di Stan in fase di scrittura. Nel periodo di lontananza di Stan Laurel dalla MGM, Hal Roach affiancò a Oliver Hardy una star del muto come Harry Langdon per il film Zenobia, senza ottenere i risultati sperati. La conseguenza fu il ritorno di Laurel con un contratto annuale nel 1939. Nel 1940 i rapporti terminarono definitivamente e Stan Laurel e Oliver Hardy firmarono un contratto con la 20th Century Fox ma i tempi erano ormai cambiati. Nella major Laurel sperimentò per la prima volta le ferree tempistiche del cinema formato industria, che lavora sulla quantità e sulla velocità di produzione.

8) STANLIO, OLLIO E LO SPETTATORE

Una delle peculiarità di Stan Laurel e Oliver Hardy era il rapporto magnetico che sapevano instaurare con lo spettatore, in maniera più solida e diretta rispetto ad altri grandi comici dell’epoca. Non solo l’espediente del camera-look ma anche l’ingenuità con la quale Stanlio e Ollio riescono a cacciarsi sempre nei guai aumentava il legame con lo spettatore; la semplicità delle gag, la spontaneità dei due protagonisti, in perenne disagio nei confronti del mondo che li circonda è un escamotage funzionale al coinvolgimento di chi assiste alle loro disgrazie dall’altra parte dello schermo. 
Un legame che funziona anche oggi, proprio grazie a queste caratteristiche.

9) L’AMICIZIA

Il film di Jon S. Baird approfondisce il legame affettivo, tra alti e bassi, tra Stan Laurel e Oliver Hardy. Un’amicizia che è durata nel tempo e non si è mai interrotta ma che sapeva adattarsi al differente carattere e allo stile di vita di entrambi. Totalmente dedito al lavoro, al punto di sacrificare il futuro della propria vita privata, Stan Laurel viveva costantemente immerso nei progetti cinematografici, una vera e propria ossessione. Al contrario, Oliver Hardy era un personaggio festaiolo, amante del golf e dei party. Le modalità diverse con le quali conducevano le loro vite mai impedirono di mantenere un’amicizia sempre molto salda.

10) UNA COSA SOLA

Oliver Hardy girò pochissimi film senza Stan Laurel. Oggi pensare a Laurel senza Hardy e viceversa pare quasi una forzatura. L’incredibile alchimia di Stanlio e Ollio nella lunghissima filmografia che li riguarda ha rafforzato l’immaginario di una coppia che rappresenta un’unica identità. Stanlio e Ollio cercano di arrivare a fine giornata in simbiosi, come simbiotica era l’amicizia fra Stan Laurel e Oliver Hardy. Quando Hardy venne colpito da un ictus nel settembre 1956, subì una semi paralisi che gli impedì di comunicare; l’amico non si perse d’animo e i due riuscirono a capirsi grazie al loro talento gestuale. Ragionavano come se fossero una cosa sola, Laurel e Hardy, tanto che Stan scrisse altri soggetti per la coppia anche dopo la morte di Hardy, nel 1957. Non recitò mai più, perché senza Babe, tutto era finito. Senza Ollio era morto anche Stanlio.

Guardo gli asini che volano nel ciel – Il famoso balletto di Stanlio & Ollio, da “I diavoli volanti” del 1939.

Stanlio e Ollio – 1956 – Ultimo filmato insieme. L’ultimo filmato che vede i due comici insieme girato in super 8 da un loro ammiratore

 

16 giugno 1980 – In prima assoluta a Chicago esordiva il mitico film The Blues Brothers – Un cult che rimarrà per sempre nella storia del cinema.

 

The Blues Brothers

 

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16 giugno 1980 – In prima assoluta a Chicago esordiva il mitico film The Blues Brothers – Un cult che rimarrà per sempre nella storia del cinema.

Il 16 giugno in anteprima a Chicago e poi il 20 giugno 1980 in circa 600 cinema americani veniva proiettato per la prima volta il film The Blues Brothers, il film che avrebbe fatto la storia del cinema.

Il Film

(USA 1980, colore, 130m); regia: John Landis; produzione: Robert K. Weiss per Universal; sceneggiatura: Dan Aykroyd, John Landis; fotografia: Stephen M. Katz; montaggio: George Folsey Jr.; scenografia: John J. Lloyd; costumi: Deborah Nadoolman; coreografie: Carlton Johnson; musica: Elmer Bernstein.

Chicago, penitenziario Joliet, all’alba. Jake Blues esce di prigione e ad attenderlo, su un’auto truccata chiamata Bluesmobile, trova suo fratello Elwood, da cui apprende che l’orfanotrofio in cui entrambi sono stati allevati rischia di essere chiuso per cinquemila dollari di tasse arretrate. La madre superiora li diffida dal ricorrere a mezzi illegali per trovare il denaro: i due decidono allora di riunire il loro vecchio gruppo blues e guadagnare la cifra necessaria con la musica. L’impresa è ostacolata dalla polizia stradale (che insegue Elwood per innumerevoli violazioni al codice della strada), dall’ufficiale di controllo di Jake (che è in libertà condizionata), da una donna misteriosa che cerca ripetutamente di far fuori i due fratelli con un inesauribile arsenale di armi, da una country-band cui Jake ed Elwood hanno rubato la scena, e infine da un gruppo di neonazisti la cui manifestazione è stata rovinata dal passaggio della Bluesmobile. Nonostante le resistenze dei vecchi compagni, la banda viene finalmente ricostituita e rifornita di strumenti musicali: però è ben presto chiaro che l’idea di guadagnare cinquemila dollari suonando nei locali pubblici è irrealizzabile. Con un piccolo ricatto, Jake ed Elwood ottengono di tenere un concerto nel gigantesco Palace Hotel e grazie a una propaganda capillare riescono a riempirlo di spettatori. Dopo un inizio incerto, lo spettacolo è un trionfo suggellato da un ricco contratto discografico: però il tempo utile per pagare le tasse volge al termine e i due fratelli fuggono dalla sala con il denaro. Dopo un inseguimento apocalittico e una vera strage di automobili, i Blues Brothers fanno appena in tempo a saldare il debito. L’orfanotrofio è salvo e i fratelli, arrestati con tutta la banda, si ritrovano in carcere a suonare Jailhouse Rockscatenando un happening che i secondini si affrettano a reprimere.

Si nasconde nel finale la differenza più sostanziale fra The Blues Brothers, così come conosciuto e apprezzato da una generazione di spettatori, e la versione originale del film, cui produzione e distribuzione impongono tagli di quasi mezz’ora prima dell’uscita in sala: si tratta di poche inquadrature, che rovesciano però completamente il senso trionfale del numero conclusivo. Chi vede il film nella sua versione ‘tradizionale’ ne esce caricato dall’energia liberatoria di un classico del rock messo in scena in uno scatenato happeningcarcerario: ma la versione definitiva, reintegrata negli anni Novanta con dodici minuti fortunosamente ritrovati, si chiude invece con le immagini delle guardie che accorrono a sedare la rivolta musicale dei protagonisti, colpevoli non tanto dei numerosi reati commessi nel corso della vicenda, ma soprattutto di rappresentare una cultura musicale non allineata ai gusti commerciali dell’epoca disco (e sarà proprio la resistenza degli esercenti a programmare una pellicola giudicata troppo ‘black’ e troppo ‘blues’ a imporre i tagli). Concepito da John Landis e Dan Aykroyd come “un incrocio fra Singin’ in the Rain e Ben Hur“, il film nasce dal desiderio della Universal di sfruttare al cinema il successo televisivo e discografico di una coppia di personaggi creati da Aykroyd & Belushi ma, in luogo di limitarsi a portare sullo schermo i modi e i ritmi delle performances televisive, sceglie di farne figure di uno spessore leggendario che l’ironia di fondo tempera solo parzialmente.

The Blues Brothers è un film costruito sulle proprie contraddizioni, su un’anarchia produttiva autorizzata dal sistema stesso (viene messo in produzione senza un budget approvato e viene scritto e realizzato in fretta e furia: nemmeno dieci mesi fra la prima bozza di soggetto e la copia campione), sul continuo cambio di marcia fra temi e stili cinematografici diversi e apparentemente incompatibili, unificati in una mimesi postmoderna che reinventa lo stile del film scena per scena, lungo un catalogo di situazioni unificate solo dal proprio appartenere, appunto, al patrimonio visivo e narrativo di ottant’anni di cinema. Trionfo di un catastrofismo spettacolare che accosta la dinamica del cartone animato a un’ambientazione sorprendentemente realistica (lo Spielberg di 1941 ‒ 1941 Allarme a Hollywood, 1979, aveva puntato invece su un’iperrealtà interamente ricostruita) e a una musica autenticamente popolare, The Blues Brothers rilancia da solo un intero genere musicale e riscuote un buon successo in tutto il mondo, consentendo a Landis di realizzare l’anno seguente il più personale An American Werewolf in London (Un lupo mannaro americano a Londra). La morte prematura di John Belushi, avvenuta nel 1982, contribuisce a conferire al film uno status di cult che garantisce una notevole longevità musicale anche alla band radunata per l’occasione. Nel 1998, Landis & Aykroyd realizzeranno insieme Blues Brothers 2000 (Blues Brothers ‒ Il mito continua), un elegiaco ‘vent’anni dopo’ sull’irripetibilità del passato, rimasto incompreso da un pubblico e da una critica che si merita i finali edulcorati dalla produzione.

Qualche curiosità

  1. La scena in cui la band compare in una sauna, con indosso solo gli asciugamani, è una citazione della foto di copertina dell’album No Sweatdel 1973 dei Blood Sweat & Tears, in cui la band appare in una sauna in identica posa. Lou Marini e Tom Malone, due dei membri della Blues Brothers Band, erano anche in Blood Sweat & Tears e compaiono in entrambe le scene.
  2. Elwood si toglie il cappello tre volte nel film: quando va a dormire nella sua stanza, per rompere la finestra per raggiungere l’hotel Palace, e verso la fine del film quando la Bluesmobile cade a pezzi. Jake si toglie gli occhiali da sole una volta, quando sta parlando con Carrie Fisher, ma non si toglie mai il cappello.
  3. Quando i fratelli nascondono la macchina sotto il ponte, sul muro si vede un graffito: John *cuore* Deborah. E’ un riferimento al regista John Landis e a sua moglie, la costumista Deborah Nadoolman.
  4. Durante le riprese sono state distrutte 103 auto. Era un record fino al 1998 quando fu girato Blues Brothers 2000e le macchine distrutte salirono a 104.
  5. La Bluesmobile è una Dodge Monaco 1974. I veicoli utilizzati nel film sono macchine della polizia acquistate dalla California Highway Patrol. 12 Bluesmobiles sono state usate nel film, tra cui una che è stata costruita solo per cadere a pezzi. Diverse repliche sono state costruite dai collezionisti, ma originale è di proprietà del cognato di Dan Aykroyd.
  1. Durante le riprese in una delle scene notturne, John Belushi è scomparso. Dan Aykroyd si guardò intorno e vide una casetta con le luci accese. Bussò e prima che potesse dire qualcosa il proprietario della casa chiese: “Sei qui per John Belushi, non è vero?” L’uomo disse loro che Belushi aveva chiesto se poteva avere un bicchiere di latte e un panino e poi si era schiantato sul divano.
  2. Durante le riprese della scena di apertura, le guardie di sicurezza della prigione hanno sparato all’elicottero che filmava l’edificio pensando che stasse tentando di spiare sulla struttura.
  3. Il Soul Food Cafe, dove Aretha Franklin canta Think, era il Nate’s Delidi Chicago. Ora è un parcheggio.
  4. Nel seminterrato di Cab Calloway e nel negozio di musica di Ray Charles potete vedere foto incorniciate di di Martin Luther King, Malcolm X e John e Robert Kennedy. Si tratta di un chiaro omaggio all’attivismo per i diritti civili del 1960.
  5. Il guardaroba dei Blues Brothers è nato durante alcuni episodi di Saturday Night Live dove Dan Aykroyd e John Belushi interpretavano degli agenti dei servizi segreti. Come band invece fecero il loro debutto nello show il 22 aprile 1978.
  6. Per il 30esimo anniversario del film, il giornale del Vaticano L’Osservatore Romanolo ha definito “un film cattolico“.
  7. Carrie Fisher si è fidanzata con Dan Aykroyd durante le riprese dopo che lui l’aveva salvata dal soffocamento usando la manovra di Heimlich.
  8. Dan Aykroyd ha collaborato alla sceneggiatura insieme al regista John Landis.
  9. Quando il film uscì non fu accolto molto bene dalla critica: il New York Times lo definì addirittura una “saga presuntuosa”.
  10. Nel 2004 la BBC ha dichiarato la colonna sonora di Blues Brothers come “la più bella della storia del cinema”.
THE BLUES BROTHERS – LA SCENA DEL RISTORANTE

THE BLUES BROTHERS – LA MITICA SCENA DELLE SCUSE

THE BLUES BROTHERS – IO LI ODIO I NAZISTI DELL’ILLINOIS

Le belle notizie che ci piace darvi – Il più grande mercato della carne di cane in Corea del Sud (2 milioni di animali ammazzati ogni anno!) chiude: diventerà un parco pubblico…!

 

carne di cane

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Le belle notizie che ci piace darvi – Il più grande mercato della carne di cane in Corea del Sud (2 milioni di animali ammazzati ogni anno!) chiude: diventerà un parco pubblico…!

Ve ne avevamo già parlato:

Le belle notizie che ci piace darvi: Chiude il macello di carne di cane più grande del mondo – Ogni anno vi venivano ammazzati 2 milioni di animali!

Era il mercato di carne più importante della Corea del Sud dove i cani venivano allevati in condizioni precarie e poi uccisi e destinati a diventare cibo, ma finalmente il mese prossimo questo allevamento dell’orrore chiuderà e diventerà un parco pubblico.

Buone notizie dalla Corea del Sud i venditori del Gupo Livestock Market di Busan hanno finalmente trovato un accordo con le autorità locali per la chiusura del mercato e chiesto alle associazioni animaliste di portare in salvo i cani, che sarebbero diventati carne da macello su ordinazione.

Il mercato come dicevamo è famoso perché ospita 19 venditori che allevano cani destinati a diventare carne in tavola. Dopo anni di battaglie, finalmente la Humane Society International (HSI) festeggia, soprattutto perché il mercato diventerà un parco pubblico.

La chiusura fa parte di un ambizioso progetto di riqualificazione urbana ed è solo l’ultimo dei campanelli d’allarmi su un mercato, quello del commercio di carne di cane, in declino. D’altronde il Festival di Yulin viene ormai condannato in tutto il mondo e anche il consumo di carne è nettamente diminuito, basti pensare che lo scorso anno a Seongnam è stato chiuso il più grande macello di cani del paese.

L’opinione pubblica non sopporta più che oltre 10mila tra cani e gatti, molti dei quali catturati per strada o rapiti dalle loro case, dopo giorni trascorsi ammassati uno sull’altro in gabbie piccolissime con i musi spesso legati con la corda per evitarne lamenti o che si azzannino tra loro,vengono bolliti vivi, picchiati a morte o ancora scuoiati vivi.

“Il piano di chiusura è il risultato di mesi di duro lavoro tra le autorità locali e i venditori del mercato, ed entrambe le parti devono essere lodate per aver raggiunto l’obiettivo che non solo porterà la fine del macello di Gupo, ma vedrà anche l’area rigenerata con nuovi servizi e attività commerciali a beneficio dell’economia locale moderna”, dice Nara Kim, un attivista per la carne di cane per HSI.

I numeri del massacro

Ogni anno circa 2 milioni di cani vengono allevati in tutta la Corea del Sud in gabbie minuscole, dove vivono per tutta la vita sviluppando comportamenti da automi.

Secondo HSI, la morte per elettrocuzione è il metodo più comune, ma si esegue anche l’impiccagione. Ma questo è uno dei tanti passi per dire addio definitivamente a questa pratica crudele.

 

 

tratto da: https://www.greenme.it/abitare/cani-gatti-e-co/mercato-carne-cane-chiude/

Amarcord – Il 15 giugno 1966 andava in onda per la prima volta “Belfagor – il fantasma del Louvre”. Lo sceneggiato fu poi replicato varie volte, nel 1969, 1975 e 1988, “terrorizzando” i ragazzini di più generazioni…

 

Belfagor

 

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Amarcord – Il 15 giugno 1966 andava in onda per la prima volta “Belfagor – il fantasma del Louvre”. Lo sceneggiato fu poi replicato varie volte, nel 1969, 1975 e 1988, “terrorizzando” i ragazzini di più generazioni…

I bambini degli anni ’60 e ’70 non hanno paura di niente, tranne che del fantasma nero di Belfagor che scivola di notte tra le sale del Louvre …

Era il 15 giugno del ’66 quando andò in onda sul secondo canale della Rai la prima puntata di ‘Belfagor ovvero il fantasma dei Louvre‘. E da quella sera, per sei puntate, milioni di famiglie italiane restarono incollate davanti alla Tv ipnotizzate da quell’insolito sceneggiato francese in 4 puntate, in cui una misteriosa gura nera si aggirava di notte per le sale deserte dei Louvre. E fra tutto questo pubblico c’eravamo noi, i bambini, affascinati dalla storia misteriosa che ci veniva raccontata e terrorizzati dalle fugaci apparizioni di quella maschera dorata dagli occhi enormi e dal lungo mantello scuro.

Belfagor ovvero il fantasma dei Louvre è una storia in bilico tra giallo e horror fantastico, che in Francia fu replicata solo due volte, ma che in Italia – a grande richiesta – la RAI rimandò di nuovo in onda nel ’66, nel ’69, nel ’75 e infine su Raitre nell’88. I dialoghi sono asciutti, la fotografia è ‘espressionista‘, sullo sfondo una Parigi esistenzialista in bianco e nero, dove si muovono personaggi simbolo di quell’epoca come Juliette Gréco nel ruolo di Luciana Borel. Tra gli altri interpreti compaiono René Dary nel ruolo dei commissario, e Andrea Bellegarde.

Tutti coinvolti in un mistero che comincia con l’omicidio di un guardiano dei Louvre. Le indagini, condotte dall’ispettore Menardier, portano all’attività di un gruppo di occultisti che si ispirano a un’antica società segreta, quella dei Rosacroce, il cui tesoro sarebbe nascosto nel Louvre. Tra i membri della confraternita ci sono Lady Hodwyn, l’affascinante Luciana Borel, la sua gemella Stefania e Boris Williams, dotato di un’oscura forza ipnotica. Sarà lui con i suoi poteri a trasformare Luciana in Belfagor e a spingerla al suicidio finale

C’è un fantasma nel Louvre… Un fantasma si aggira per l’inconscio di chi ha almeno 45 anni. Non so quanto possa dire questo post agli under 40. Non dico che non abbiano mai sentito parlare di Belfagor ma l’aver vissuto la cosa è sicuramente diverso. Se vi dicessi che ancora oggi, se devo percorrere un corridoio buio anche in casa mia lo faccio regolarmente di corsa senza guardarmi indietro? Colpa di Belfagor. Da qualche parte devo avere ancora qualcuno dei disegni che facevo compulsivamente per esorcizzare lo spavento: Belfagor di qui, di là, di fianco alla casetta con l’alberello, Belfagor piccolo, Belfagor grande. Mio nonno me li comperava, 100 lire l’uno (che a pensarci oggi era una bella cifra!) Ma chi era ‘sto Belfagor? Il 15 giugno 1966 sul Secondo canale della televisione (allora c’era solo la RAI) andava in onda per la prima volta uno sceneggiato francese in sei puntate, “Belfagor o il fantasma del Louvre” ispirato a un romanzo scritto nel 1927 da Arthur Bernède e diretto da Claude Barma. Lo sceneggiato fu poi replicato varie volte, nel 1966, 1969, 1975 e 1988. La Francia era molto popolare in televisione allora. Un anno prima avevano cominciato ad andare in onda “Le Inchieste del Commissario Maigret” con Gino Cervi e la collaborazione alla sceneggiatura del maestro Camilleri. Tutto rigorosamente in bianco e nero. Belfagor fu una sferzata in faccia. Sugli allora pudibondi schermi democristiani approdarono tutti assieme: i Rosa Croce e le sette segrete, l’esoterismo, l’alchimia, l’antico Egitto, una donna adulta che ha una relazione con uno studentello, le droghe che rendono gli individui automi, i maestri del terrore e misteriose pietre radioattive, il tutto avvolto in una pericolosa nebbia sulfurea e diabolica (Belfagor è un famoso arcidiavolo). Ricordo la trama per i troppo giovani. Un guardiano del Museo parigino del Louvre viene assassinato nottetempo durante il suo giro di ronda. Il commissario Menardier indaga e per conto suo anche uno studente curioso, Andrea Bellegarde, che si fa prendere dal mistero che circonda il caso. Già, perché si parla di un misterioso fantasma che si aggirerebbe nelle sale dell’Antico Egitto, visto da diversi guardiani. Andrea, che ha conosciuto per caso Colette, la figlia del commissario, si fa rinchiudere nel Louvre assieme a lei che ha ereditato il fiuto da segugio dal padre e una notte il fantasma compare finalmente. E’ alto, completamente ricoperto da un mantello nero e indossa una maschera di cuoio. Nel corso delle indagini Andrea conosce Luciana, un’affascinante signora dell’alta borghesia che ha una relazione con un misterioso individuo, un certo Williams. Da lì la trama si sviluppa e si fa intricatissima. Compaiono una vecchia signora che forse sa troppe cose, una setta esoterica e una sorella gemella di Luciana. Chi è il fantasma? Chi manipola la sua volontà? Elemento fondamentale del successo di Belfagor era la sceneggiatura di Jacques Armand che mescolava tutti gli elementi della storia misteriosa senza far uso di effetti speciali o trucchi. Lo spavento nasceva da cose in fondo stupide ma tremendamente efficaci. Cosa immaginare di più spaventoso che svegliarsi nella propria camera con Belfagor che si nasconde dietro una tenda? Un altro elemento di fascinazione è la Parigi di Belfagor, che è ancora quella dei cafés, dei cancan e delle edicole, un luogo denso di grandi misteri ma in fondo familiare. In Belfagor domina la presenza magnetica di Juliette Greco, con la voce profonda, l’occhio egizio e l’allure di femme fatale. Assieme a lei il protagonista Yves Rénier, deciso a combattere il male ma manipolato e salvato da figure femminili di grande forza. Nei ruolo secondari René Dary, visto in “Non toccate il Grisbi”, un commissario Menardier con gli accenti di un Gabin, mentre François Chaumette conferma la sua grandezza di attore teatrale. Una curiosità, nei panni eburnei di Belfagor si celava un mimo, Isaac Alvarez.

 

Il Toro si suicida terrorizzato dal fuoco sulle corna: godetevi la schifosa tradizione del “toro embolado”, la più disgustosa tra le corride… Io, come uomo e (cosiddetto) essere umano me ne vergogno…!

 

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Il Toro si suicida terrorizzato dal fuoco sulle corna: godetevi la schifosa tradizione del “toro embolado”, la più disgustosa tra le corride… Io, come uomo e (cosiddetto) essere umano me ne vergogno…!

 

Il Toro si suicida terrorizzato dal fuoco sulle corna: l’assurda tradizione del “toro embolado”

Una scena terribile. Il toro terrorizzato dalla fiamme che gli avvolgono le corna si lancia contro un paletto e si accascia morto sul colpo. Suicidato. Nessuna triste fatalità, ma la consueta e barbarica tradizione spagnola delle “feste” con i tori come vittime sacrificali.

Si chiama Toro embolado ed è forse la declinazione più crudele delle corride. Consiste nel prendere un povero toro, tenerlo legato a un palo posto al centro dell’arena il tempo necessario per mettergli sulle corna una tavola di legno con alle estremità due torce di stoppa imbevute di carburante e dargli fuoco, poi si libera l’animale mentre i partecipanti danno prova del loro “coraggio” tormentandolo.

Un’atrocità ancora molto diffusa specie in Catalogna e nella Comunità Valenciana. Il 22 luglio scorso, durante la festa del Toro embolado di Foios, cittadina a nord di Valencia, il bovino appena liberato, in preda ad un folle terrore, si è lanciato di corsa contro il palo a cui era legato fino a pochi istanti prima, morendo sul colpo e ponendo così fine alla sua agonia, tra la delusione degli astanti che avrebbero probabilmente voluto godersi lo spettacolo più a lungo.

Uno spettacolo che si basa sulla tortura, dove un toro viene terrorizzato e ustionato per il divertimento popolare. Terribile quanto ancora radicato nonostante le proteste che ogni anno accompagnano queste manifestazioni e le ripetute richieste di una messa al bando definitiva di questa tradizione di stampo medievale.

In alcune città, come a Valencia, la festa del Toro embolado è stata abolita, mentre in altri comuni spagnoli i tori in carne e ossa sono stati sostituiti con tori meccanici alle cui corna vengono fissati petardi e fuochi d’artificio. Al fine di salvaguardare il valore simbolico della tradizione, senza inutili crudeltà su altri esseri viventi.

Tuttavia in molte città questa forma di tortura continua ad essere esercitata. Una competizione, come tutte le corride, dove il Toro non vince mai. E alla fine dello spettacolo, se ancora vivo, viene condotto al macello per essere ucciso, dopo aver subito ustioni in buona parte del corpo.

 

tratto da: http://www.dolcevitaonline.it/il-toro-si-suicida-terrorizzato-dal-fuoco-sulle-corna-lassurda-tradizione-del-toro-embolado/

Il razzismo? Dipende dalla scarsa intelligenza. Più sei stupido, più sei razzista. Lo dice la scienza

 

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Il razzismo? Dipende dalla scarsa intelligenza. Più sei stupido, più sei razzista. Lo dice la scienza

Il razzismo? Dipende dal QI basso. Ecco perché

 

Lo psicologo Gordon Hodson, della Brock Univerisity dell’Ontario, ha effettuato diverse ricerche negli ultimi anni volte ad osservare la correlazione – se mai ce ne fosse una – tra inclinazione ai pregiudizi, agli atteggiamenti conservatori, razzisti o omofobi e il QI.
Un suo famoso studio mette in luce una correlazione piuttosto significativa che non ha mancato e
non mancherà di far discutere.

Lo studio

Lo studioso ha infatti selezionato un campione britannico di circa 15000 bambini di 10/11 anni che sono stati sottoposti a test per la valutazione del quoziente intellettivo; lo stesso campione, 20 anni dopo, è stato ascoltato riguardo a opinioni su alcune tematiche del tipo “le donne che lavorano a tempo pieno causano un problema alla famiglia” “saresti disposto o meno a lavorare con persone di altre razze”, “è necessario educare i bambini a obbedire all’autorità”.

I test

I bambini che all’epoca del test avevano avuto i risultati più scarsi in termini di QI si sono rivelati essere mediamente più d’accordo con la linea conservatrice-discriminatoria rispetto a quelli che avevano avuto i risultati migliori.

Al netto di generalizzazioni che sarebbero una sterile strumentalizzazione dei risultati della ricerca di Hodson, c’è un dato interessante che emerge da quanto osservato: un QI meno sviluppato risulta essere correlato alla resistenza al cambiamento, all’ostilità nei confronti del diverso e riluttanza verso il nuovo.

Le cause

Da questo consegue una posizione meno aperta al diverso in ogni sua forma. Il che riguarda non la bontà della persona ma la sua capacità di elaborare informazioni ad un livello più evoluto.
Il che a sua volta determina il grado di limitazione entro il quale la persona si auto condannerà a vivere, o meno.

I dati

Dai dati è emerso anche come le persone con capacità cognitive meno sviluppate tendano ad avere meno contatti con le persone di altre razze e come i soggetti meno capaci di ragionamento astratto tendano a coltivare posizioni maggiormente omofobe.
Si può quindi affermare che gli atteggiamenti discriminatori siano sintomo di una deficienza, in buona sostanza.
Parafrasando qualcuno si potrebbe oggi dire “io ho un sogno: vivere in un mondo nel quale il QI delle persone sia abbastanza elevato da non arenarsi più su questioni – come il pregiudizio e la paura del diverso – che non riguardano a questo punto più la sfera morale ma l’auspicabile
maggiore sviluppo cognitivo dei futuri abitanti del nostro pianeta.

tratto da: https://ilfastidioso.myblog.it/2018/02/04/e-scientifico-chi-e-di-destra-o-razzista-e-perche-ha-il-q-i-basso/