La storia che non vi raccontano – La foto del 1870: un uomo bianco fieramente in posa sotto una montagna di teschi di bisonti… Una schifosa carneficina per sostenere l’industria della carne bovina dei “bianchi” e per affamare e sterminare le tribù indiane (leggi genocidio)…

bisonti

 

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La storia che non vi raccontano – La foto del 1870: un uomo bianco fieramente in posa sotto una montagna di teschi di bisonti…  Una schifosa carneficina per sostenere l’industria della carne bovina dei “bianchi” e per affamare e sterminare le tribù indiane (leggi genocidio)…

TRAGEDIE DIMENTICATE – Quest’immagine racconta una delle tragedie che la “nostra” storia volutamente non racconta. Scattata nel 1870 la foto mostra un uomo occidentale fieramente in posa di fronte ad una montagna di teschi di bisonti americani, animali sistematicamente macellati dai colonizzatori europei una volta arrivati nel continente nord americano.

L’esercito americano composto dai coloni incentivò la mattanza di questi animali per due ragioni:
➤ Per evitare qualsiasi competizione commerciale con l’industria della carne bovina e di vitella che di lì a poco sarebbe stata importata nel continente nord americano.
➤ Per ostacolare il più possibile la sopravvivenza delle tribù locali che rappresentavano una chiara minaccia all’espansione ed egemonia dei colonizzatori.

Dopo un secolo e mezzo vogliamo ricordare queste tragedie silenziose che hanno riguardato milioni di individui e che volutamente vengono dimenticate dalla “nostra” storia.
CONDIVIDI quest’immagine e queste parole, per non dimenticare!

Non solo i Pellerossa – Un altro genocidio degli americani di cui nessuno sa niente, quello dell’etnia Moro, culminato con il massacro di Bud Dajo…

massacro di Bud Dajo

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Non solo i Pellerossa – Un altro genocidio degli americani di cui nessuno sa niente, quello dell’etnia Moro, culminato con il massacro di Bud Dajo…

I Moro sono l’etnia non cristiana più numerosa nelle Filippine. Devono il loro nome al termine con cui storicamente i non islamici definivano alcuni gruppi di musulmani. Stanziati principalmente nel sud del Paese furono da sempre una spina nel fianco per tutti coloro che cercarono di assoggettarli.
Dagli spagnoli ai giapponesi, passando per gli americani, contro cui i Moro, come altri abitanti delle filippe, dal 1899 al 1913 combatterono una lunga e durissima guerra ad intermittenza. Causa del conflitto l’annullamento di una clausola del trattato di Bates sottoscritto tra gli Stati Uniti e il Sultanato Moro, che prevedeva vasta autonomia nel rispetto dei reciproci accordi.
Il territorio dei Moro fu ridotto ad una provincia direttamente dipendente dalle autorità coloniali e come conseguenza scoppiarono frequenti proteste e autentiche rivolte.
Il governo americano reagì inviando il generale Leonard Wood, già governatore a Cuba, per risolvere una volta per tutte la questione dei Moro. Se da un lato egli cercò di introdurre alcune riforme che andavano per sempre a modificare le strutture sociali dei Moro, tra cui merita di essere ricordata l’abolizione della schiavitù, dall’altra il suo etnocentrismo e la propensione a non cercare il confronto lo condussero a schiantarsi contro una cultura secolare che non voleva affatto farsi cancellare.
Wood nei tre anni di governatorato pensò di piegare i ribelli abolendo completamente il trattato di Bates e silenziando le autorità locali, mentre lanciava diverse importanti campagne militari.
Al termine di una di queste avvenne proprio il massacro di Bud Dajo.
Bud Dajo è il sito più alto della provincia, un grande cono di cenere appartenente al complesso vulcanico di Jolo. Qui secondo una leggenda dei Moro, gli spiriti avrebbero sostenuto i guerrieri nei momenti di difficoltà. Ben forniti di provviste circa novecento Moro che non avevano accettato la resa siglata da alcuni capi, si trasferirono sulla cima, con donne e bambini al seguito. La zona, accessibile solo da stretti sentieri, era facilmente difendibile, ma chiaramente la superiorità dei mezzi bellici nemici finì per vanificare il vantaggio strategico.
L’artiglieria dei marines martellò per un giorno intero la cima. Poi l’8 marzo 1906 Bud Dajo venne preso. Dei 900 Moro presenti solo 18 sopravvissero al massacro. Wood stesso riferì in patria che tutti erano stati presi a cannonate, mitragliate o finiti sul posto. Compresi donne e bambini.
Theodore Roosevelt, il presidente in carica, si complimentò per il successo dell’operazione.
Negli Stati Uniti l’episodio fu raccontato come la battaglia di Bud Dajo, tra i Moro passò alla storia come il massacro del cratere.
Si calcola che nel corso dell’insurrezione filippina contro l’occupazione statunitense, le vittime civili della repressione furono almeno 200.000.

tratto da: https://www.facebook.com/cannibaliere/photos/a.989651244486682/2096155797169549/?type=3&theater

Marlon Brando, quell’Oscar rifiutato per protesta contro lo sterminio degli Indiani d’America

 

Indiani d'America

 

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Marlon Brando, quell’Oscar rifiutato per protesta contro lo sterminio degli Indiani d’America

Brando, quell’Oscar rifiutato contro lo sterminio degli Indiani d’America

Era il marzo del 1973. L’attore non ritirò mai l’Oscar per Il Padrino . Al suo posto mandò una giovane Apache, Sacheen Littlefeather. E scrisse una lettera che è ancora un atto d’accusa contro il potere.

Los Angeles, California. Era la notte del 5 marzo del 1973. Due gli ospiti d’onore che aspettano gli Oscar per farne incetta: Bob Fosse con Cabaret e Francis Ford Coppola con Il Padrino, una ventina di nomination in due. Fanno fuori tutte le portate principali, fra cui quelle di miglior attore e di miglior attrice. Le statuette vanno a Marlon Brando e Liza Minnelli. Ma Brando che è al secondo Oscar, dopo Fronte del Porto, boicotta lo show.

Liv Ullman e Roger Moore, che presentavano la serata, lo chiamano sul palco. Al posto dell’attore si presenta una ragazza. E’ Sacheen Littlefeather, vestita da vera Apache, che spiega con fermezza le obiezioni dell’attore contro l’immagine che la tv e il cinema hanno dato degli Indiani d’America nel corso degli anni. Fischi, urla.

Sacheen però non molla. Dice: “Sono una Apache e sono la presidente del National Native American Affirmative Image Committee (comitato degli affari degli Indiani d’America). Stasera rappresento Brando e mi ha detto di dirvi, in un discorso molto lungo che non posso condividere con voi attualmente, per motivi di tempo, ma che sarò lieta di condividere con la stampa più tardi, che non può accettare questo generoso premio a causa del trattamento oggi riservato agli indiani d’America nell’industria del cinema”.

Quella lettera era  e rimane un atto d’accusa pesantissimo nei confronti del governo a Stelle e Strisce. Ed è a tutt’oggi un gesto di ribellione valido in tutti i casi in cui il potere schiaccia le minoranze. Brando scriveva: “Per duecento anni abbiamo detto agli Indiani, che si battevano per la loro terra, le loro famiglie e il loro diritto di essere liberi: ‘deponete le armi, amici, e vivremo insieme’; quando loro hanno deposto le armi, li abbiamo uccisi. Abbiamo mentito, li abbiamo privati delle loro terre. Li abbiamo costretti a firmare accordi fraudolenti, che abbiamo chiamato ‘trattati’, e che non abbiamo mai mantenuto. Li abbiamo trasformati in mendicanti in un continente che ha dato loro la vita (…). Quando i bambini indiani guardano la televisione, e guardano i film, e quando vedono la loro razza raffigurata come è nei film, le loro menti si feriscono in modi che non possiamo immaginare”.
Marlon Brando concluse quella lettera potente con una frase che dovrebbe essere mandata a memoria ovunque i diritti vengano schiacciati, ovunque la vita venga trattata come un imprevisto, ovunque l’umanità sia presa a calci dal potere: “Se non siamo l’angelo custode di nostro fratello, almeno lasciateci non essere il suo carnefice.”
Nel 1979 in Pocahontas, una canzone a sostegno degli indiani d’America, contenuta nell’album Rust Never Sleeps, il musicista canadese Neil Young omaggiò il gesto di Brando. La canzone recita più o meno così:  “Vorrei essere un cacciatore. Darei mille pelli per passare una notte con Pocahontas. E scoprire e come si sentì al mattino nelle verdi pianure. Nella terra natia che non abbiamo mai visto. E forse Marlon Brando
sarà li accanto al fuoco. Ci siederemo e parleremo di Hollywood. Marlon Brando, Pocahontas e io…”
Lasciateci non essere i carnefici delle nostre sorelle, dei nostri fratelli. Da qualche parte Pocahontas, ieri come oggi, sta sorridendo sotto il poster di The Godfather. 

 

tratto da: http://www.globalist.it/cinema/articolo/2018/03/27/brando-quell-oscar-rifiutato-contro-lo-sterminio-degli-indiani-d-america-2021682.html

1° Febbraio 1876 – il giorno della “Memoria corta” – Gli Stati Uniti d’America dichiarano guerra ai Nativi Americani rei di un crimine imperdonabile: nei loro territori c’era l’oro!

 

 

Nativi Americani

 

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1° Febbraio 1876 – il giorno della “Memoria corta” – Gli Stati Uniti d’America dichiarano guerra ai Nativi Americani rei di un crimine imperdonabile: nei loro territori c’era l’oro!

Il 1 febbraio 1876 è una data ancora oggi ignorata o non considerata come dovrebbe dai media e dalle istituzioni ma è il giorno in cui il Ministro degli Interni degli Stati Uniti d’America, dopo la scoperto dell’oro nella zona più importante del territorio Lakota, perché considerato sacro, le Black Hills, decise di perseguitare tutti i Sioux che rifiutarono di trasferirsi nelle riserve. L’ordine di trasferire migliaia di uomini  donne e bambini dal territorio dov’erano arrivò in una stagione dell’anno in cui quelle zone erano innevate e molti indiani erano lontani impegnati nella caccia. L’esercito statunitense non precluse ai minatori l’accesso alle zone di caccia Sioux e attaccò gli indiane che stavano cacciando nella prateria, come loro concesso dai precedenti trattati.

Gli Stati Uniti dichiarano guerra ai Sioux

Il 1 febbraio 1876 il ministro degli Interni degli Stati Uniti d’America dichiarò guerra ai Sioux “ostili”, quelli cioè che non avevano accettato di trasferirsi nelle riserve, dopo che era stato scoperto l’oro nelle Black Hills, il cuore del territorio Lakota.

Come si potevano traferire migliaia di uomini, donne e bambini dalla terra dov’erano nati, in una stagione dell’anno in cui il territorio era coperto di neve? Molti indiani pare neanche ricevettero l’ordine, in quanto impegnati nelle loro attività di caccia, lontano dalla propria residenza.

Quella dichiarazione di guerra del 1 febbraio fu l’inizio del massacro degli Indiani d’America, che culminerà con l’eccidio di Wounded Knee, passato alla storia grazie a canzoni, libri e film. Sul finire del dicembre 1890, la tribù di Miniconjou guidata da Piede Grosso, appresa la notizia dell’assassinio di Toro Seduto, partì dall’accampamento sul torrente Cherry, sperando nella protezione di Nuvola Rossa.

Il 28 dicembre furono intercettati dal Settimo Reggimento, che aveva l’ordine di condurli in un accampamento sul Wounded Knee: 120 uomini e 230 tra donne e bambini furono portati sulla riva del torrente, circondati da due squadroni di cavalleria e trucidati.

“Seppellite il mio cuore a Wounded Knee” di Dee Brown è il libro che ha commosso generazioni di persone e ispirato cantanti di tutte le generazioni e latitudini, fino a Fabrizio De Andrè che compose la canzone “Fiume Sand Creek”, Prince e Luciano Ligabue.

Così racconta il massacro di Wounded Knee: «Brillava il sole in cielo. Ma quando i soldati abbandonarono il campo dopo il loro sporco lavoro, iniziò una forte nevicata. Nella notte arrivò anche il vento. Ci fu una tempesta e il freddo gelido penetrava nelle ossa. Quello che rimase fu un unico immenso cimitero di donne, bambini e neonati che non avevano fatto alcun male se non cercare di scappare via».

I Sioux, che preferiscono chiamarsi Dakota o Lakota, sono la principale tribù degli Stati Uniti, con 25.000 membri. Ora vivono in riserve nei loro antichi territori. Continuare a raccontare la loro storia (pochi giorni fa è stata la Giornata della memoria) è un modo per non dimenticare di cosa è stato capace l’uomo nel corso della storia e fare in modo che episodi simili non si ripetano.

 

Amarcord – Indiani d’America: dal genocidio alla discriminazione razziale – il 31 GENNAIO 1876 nascono le “riserve”, veri e propri campi di concentramento ideati allo scopo di portare a termine il genocidio dei Nativi… Hitler poi non dovette fare altro che ispirarsi agli americani…

 

Indiani d'America

 

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Amarcord – Indiani d’America: dal genocidio alla discriminazione razziale – il 31 GENNAIO 1876 nascono le “riserve”, veri e propri campi di concentramento ideati allo scopo di portare a termine il genocidio dei Nativi… Hitler poi non dovette fare altro che ispirarsi agli americani…

 

INDIANI D’AMERICA: DAL GENOCIDIO ALLA DISCRIMINAZIONE RAZZIALE

Si dice, ed è vero, che la storia viene scritta dalle potenze vincitrici, e così anche le efferatezze, gli eccidi e i genocidi di popoli vengono amplificati o messi in un cantuccio, secondo gli interessi e le convenienze politiche delle potenze suddette. Così per gli indiani d’America (come per altri moltissimi casi), per il loro olocausto non c’è alcun “giorno della memoria”. Nei programmi di approfondimento se ne parla poco, nella letteratura già a partire dal 1700, poi culminata nel cinema “western”, gli Indiani (o pellirosse) venivano rappresentati come violenti e malvagi, e gli eventuali indiani buoni erano quelli disposti a collaborare con l’uomo bianco. Nota la frase del Generale Sheridan: “…l’unico indiano buono, che io conosca, è l’indiano morto”. Ancora oggi sono, come gli altri “di colore”, discriminati ed emarginati, laddove nelle loro comunità vi sono condizioni di vita nettamente inferiori, con un alto tasso di suicidi tra gli adolescenti di 150 volte superiore a quello statunitense, una mortalità infantile cinque volte più alta, una disoccupazione che tocca cifre altissime e con un’alta diffusione di povertà, di alcolismo e tossicodipendenza.
Dobbiamo ricordare che il genocidio del popolo nativo dell’America è stato valutato andare dai 50 ai 100 milioni di persone; esse morirono a causa dei colonizzatori, per guerre di conquista, cambio di stile di vita, perdita del loro ambiente, malattie contro le quali non avevano assolutamente difese, e molti furono deliberatamente uccisi, ufficialmente perchè considerati “barbari”, mentre la causa principale era quella di impossessarsi delle terre e delle loro ricchezze. Nel Nordamerica ne morirono di meno, essendo meno popolata, ma l’impatto fu devastante: nel 1890 rimanevano 250mila individui, e si stima che circa l’80% fosse stato sterminato.
L’origine degli Indiani d’America è ancora incerta, ma essi sono molto simili ai Mongoli, che oggi vivono in Asia: ciò è possibile, in quanto anticamente l’attuale Stretto di Bering non esisteva e i due continenti erano uniti, permettendo a queste popolazioni il transito prima in Canada e poi negli Stati Uniti. Il primo approccio con il resto del mondo risale a circa il 1100 d.c. con i Vichinghi, ma la svolta alla loro esistenza, purtroppo, avvenne nel 1492, con la “scoperta” di Cristoforo Colombo, convinto di essere sbarcato nelle Indie (da cui la denominazione di “indiani”).
Gli indiani si suddividevano in nazioni, cioè in insiemi di individui uniti dal linguaggio, dagli usi, dallo stanziamento o da una comune abitudine migratoria; le nazioni più grandi erano composte da tribù, costituite da clan o grandi famiglie. Gli indiani delle pianure, la cui economia era principalmente basata sulla caccia al bisonte (fornitore di cibo, materia per vestiario ed armi), vivevano seguendo le migrazioni stagionali dell’animale; invece gli indiani delle zone montuose o desertiche, sia per caratteristiche ambientali diverse, sia per mancanza di grossi animali migratori, facevano una vita più stanziale. Il frammischiamento tra tribù della stessa nazione, o tra le diverse nazioni, non era caso raro, come non era infrequente la guerra, che generalmente veniva condotta per ragioni di bottino, ed era per i giovani l’occasione buona per dimostrare il loro valore.
I primi insediamenti colonici, che poi costituiranno il primo nucleo della nuova nazione americana, risalgono al 1616, dove gli inglesi fondarono l’odierna Virginia, la Nuova Inghilterra, ed i Padri Pellegrini nel 1620 fondarono New Plymouth, nel Massachusetts. Prima ancora i francesi, nel 1606, insediandosi in Canada, avevano fondato Quebec.
I primi contatti con la popolazione indiana erano praticamente basati sui rapporti commerciali e si mantennero su accettabili equilibri; i bianchi portarono a conoscenza degli indiani il cavallo, che poi divenne per loro uno strumento fondamentale di caccia e di guerra, le armi da fuoco e, purtroppo, anche il whisky e le prime malattie (vedi vaiolo, varicella, influenza, etc.), che hanno distrutto intere tribù, non avendo gli indiani sviluppato anticorpi specifici per combatterle.
Successivamente il numero di coloni provenienti dall’Europa crebbe, dato che le potenze europee, specialmente l’Inghilterra, volevano evitare le tensioni sociali che, con l’avvento della borghesia e le relative espulsioni di contadini dalla terra, assorbiti solo in parte dal tessuto industriale, creavano una massa di disoccupati, potenziali promotori di scontri sociali. Così, come “valvola di sfogo”, furono usate le nuove conquiste, che alimentavano il miraggio di possedimenti terrieri e di ricchezze. Comunque, la colonizzazione del Nord e del Sud America presenta delle differenze: mentre i “conquistadores” spagnoli erano prevalentemente degli avventurieri e degli sbandati, e praticavano lo stupro sistematico (i più si unirono con donne indigene di rango superiore e diedero origine ai meticci), gli inglesi arrivarono nel nuovo mondo già in nuclei famigliari, e ciò non favorì l’integrazione. Inoltre, i nativi americani non si adattavano ad essere assoggettati come manodopera, e ciò complicava i rapporti con i bianchi “civilizzatori”, che già consideravano i nativi come “selvaggi”, con tutta la negatività che questo termine comporta.
I pellirosse non conoscevano il denaro, né mai capirono la frenesia dell’uomo bianco per l’oro; parlavano sì di ricchezze, ma per loro si trattava di beni materiali di immediata utilità come cibo, cavalli, armi ecc. Anche la stessa guerra era vista come l’occasione per dimostrare il proprio valore e, per i giovani, era una specie di “esame di maturità”; la stessa pratica di prendere gli scalpi dei nemici uccisi, contrariamente a quanto è stato dato ad intendere, era stata assorbita dagli Inglesi. Con ciò non si vuole dare un’immagine idilliaca dell’indiano: anch’egli faceva la guerra, torturava, in particolare l’Apache, i prigionieri, ma diveniva spietato quando si sentiva ingannato o per ritorsione ad eventuali eccidi dei colonizzatori… era molto raro che un guerriero indiano uccidesse donne e bambini dei nemici in guerra e, quando ciò avveniva, era per rappresaglia, mentre spesso i generali yankee comandavano ai soldati di farlo, per affrettare l’estinzione delle tribù native. Gli stessi Apache, considerati tradizionalmente i più feroci, avevano alle spalle una radice storica ben precisa: lo sfuttamento e gli eccidi subiti dai messicani, che li consideravano intrusi e da eliminare, e che usavano rapire i loro bambini per venderli come schiavi e le loro bambine per avviarle alla prostituzione; in fondo era per difendersi, che l’Apache era diventato un maestro della guerriglia ed un guerriero spietato e feroce.
Comunque, prima della nascita degli Stati Uniti d’America (nel 1776), il “nuovo mondo” fu terreno di scontro fra le varie nazioni europee (Inghilterra, Spagna, Francia, Paesi Bassi), che cercavano di assicurarsi l’alleanza dei nativi, impegnandosi con promesse, poi mai mantenute, spingendoli sempre più ad Ovest, quando il conflitto si attenuava.
Le continue pressioni dei bianchi, appunto, crearono i primi scontri tra gli Indiani: i Chippewua che vivevano nell’attuale Minnesota e Wisconsin si spostarono verso Ovest, scontrandosi con i Sioux, ed a questo scontro fecero seguito diverse battaglie di assestamento tra gli indiani, che coinvolsero diverse tribù minori. Alla fine dell’assestamento, le genti indiane si potevano, grosso modo, dividere così: nelle pianure erano predominanti i Sioux, mentre a Sud gli Apache, e queste due “nazioni” furono le vere grandi avversarie dei bianchi. Ma questo continuo avanzamento dei colonizzatori ebbe l’effetto di spingere diverse tribù o nazioni ad accantonare le vecchie rivalità per potere resistere, e così, di fatto, iniziarono le”guerre indiane”, come gli storici statunitensi le chiamarono, per descrivere la serie di conflitti avuti dagli indiani prima con i coloni, e poi con gli Stati Uniti.
Ma erano ancora degli episodi limitati, ed è con la nomina a presidente del generale A. Jackson, che la politica americana avrebbe mostrato il proprio volto. Uno dei primi atti del presidente fu il “Removal Act” del 1829, che, di fatto, era un ordine di deportazione di cinque “nazioni indiane” (Creek, Choctaw, Chicasaw, CheroKee e Seminole) dalla Florida all’odierno Oklahoma, che in seguito sarebbe diventato “territorio indiano”. La deportazione forzata fu il primo atto di una serie di prepotenze fatte per scacciare i nativi dalle terre ritenute utili all’avanzamento dei coloni. Con lo scoppio della guerra (Maggio 1846) tra Messico e Stati Uniti, gli indiani si illusero, alleandosi con gli Americani, di poterci convivere, ma la scoperta dell’oro nel 1848 e di altri giacimenti nel 1851 fecero sì che i territori degli Apache Minbreno fossero invasi da una moltitudine di cercatori, e, quando gli Indiani cominciarono a ribellarsi, si accorsero ben presto che i soldati USA, loro alleati contro i messicani, avevano l’ordine di garantire il passaggio delle carovane dei cercatori, perchè il governo voleva che quei territori venissero colonizzati, e quindi la spinta alla ricerca dell’oro doveva essere favorita, e non frenata. 
Nelle grandi pianure la situazione, invece, era più tranquilla, e nel 1851 a Fort Laramie si tenne una grande assemblea con gli indiani, i quali si erano impegnati ad un atteggiamento amichevole verso le carovane di emigranti, mentre l’esercito doveva difenderli dai soprusi dei coloni. Ma il flusso dei coloni era innarestabile, così come era inevitabile lo scontro tra i bianchi ed i pellirosse. Teniamo presente che lo sviluppo degli Stati Uniti fu grandioso, sia in termini di popolazione, sia in termini di progresso economico, tecnico e scientifico. Nel 1810 la popolazione era di 7.329.000, nel 1860 era di 31.513.000; basti pensare che solo nel 1851, anno dell’oro, erano giunti dall’Europa 1.046.470 immigrati. Gli Stati che, all’inizio erano 13, nel 1860 erano divenuti 34! Nel 1850 la produzione industriale era di oltre 500 milioni di dollari, raddoppiati in solo dieci anni; nel 1842 la ferrovia copriva cinquemila chilometri, nel 1852 erano 17000, ed il 10 maggio 1869, a Promontory Point, si congiungeranno i due tratti della prima ferrovia transcontinentale. Tutto questo per gli Indiani era invece ritenuto un danno, e sconvolgeva il loro modo di vita: vedevano distrutte le fonti di sopravvivenza.
Nel 1860, la giovane nazione americana si apprestava ad una feroce guerra civile (“Guerra di secessione”) tra gli insediamenti del Nord e quelli del Sud. Tale scontro ha avuto un diverso impatto sulle “nazioni” indiane; quelli delle Grandi Pianure, che erano sotto il controllo della Unione nordista, hanno vissuto un momento di tranquillità, avendo i nordisti tutto l’interesse di non turbare il flusso dei rifornimenti provenienti da quei territori, mentre diversa era la situazione del Sud Ovest, dove la California e il Kansas erano rimasti fedeli all’Unione; sicchè si era creato un fronte, dove i nordisti cercavano di bloccare i rifornimenti che dal Messico arrivavano ai Confederali sudisti. Le cinque “nazioni”, che trent’anni prima erano state spostate dalla Florida, presero le armi contro i nordisti con la promessa che, con la vittoria del Sud, sarebbero ritornate sulla loro terra. La sconfitta dei Confederali, invece, costò ai pellirosse un prezzo altissimo. Invece nei territori dell’Arizona e del Nuovo Messico il Nord ritirò le guarnigioni e gli indiani ebbero mano libera per la loro vendetta, facendo terra bruciata degli insediamenti dei coloni che abbandonarono ogni cosa, e persino le città.
Così nel 1862 si ruppe di fatto il precario equilibrio tra uomini bianchi e uomini rossi ed iniziò la “politica di sterminio”, che prosegui negli anni successivi con ” memorabili” battaglie e “memorabili” massacri. Inoltre, nel 1874 gli Indiani delle Pianure furono colpiti da un’altra calamità: i bisonti non seguivano più le piste abituali, ed, in più, la caccia indiscriminata fatta dagli uomini bianchi aveva fatto crescere un florido commercio delle carni e delle pelli del bisonte; tra il 1872 ed il 1874 i bisonti uccisi furono circa 3 milioni e mezzo, di cui solo 150mila dagli indiani. Quando il commercio cominciò a ristagnare fu troppo tardi, perchè i bisonti rimasti non bastavano alla sopravvivenza degli indiani.
Fu poi grazie a documenti falsificati, ma in realtà per dare “campo libero” ai cercatori d’oro, che la Casa Bianca decise che entro il 31 Gennaio 1876, tutti gli indiani dovevano ritirarsi nelle costituende “riserve”, di cui si parlerà più avanti. Infatti poi, senza curare alcuna adeguata informazione su tale “ritiro”, il 1 Febbraio, centoquaranta anni fa, venne ufficialmente dichiarata loro guerra aperta.
Il Giugno 1876, la battaglia di Little Big Horn, con la sconfitta e la morte del famigerato generale Custer, fu di fatto il canto del cigno del popolo indiano, schiacciato poi dalla superiorità militare americana e condannato a sparire da una nuova “civiltà”, che anteponeva l’interesse economico, di potere e di espansione, a qualsiasi considerazione di lealtà ed umanità. Gli americani, comunque, avevano capito che non potevano continuare con la politica dello sterminio e passarono dalla morte fisica dell’indiano alla morte della loro cultura, del loro essere sociale e delle loro tradizioni, integrandoli forzatamente, richiudendoli nelle riserve e riducendoli a personaggi di folklore.
Il primo atto della nuova politica era stato quello di trasformare le agenzie indiane in riserve: mentre nelle prime gli Indiani riuscivano a conservare il proprio modo di vita, nelle seconde, volenti o no, si imponeva loro l’integrazione, ed inoltre non potevano varcare i confini senza autorizzazione, e non avevano il libero esercizio della caccia, dipendendo cosi dagli aiuti del governo. Infatti le riserve sono nominalmente affidate agli Indiani, ma di fatto sono in mano al governo, tramite agenti federali bianchi o indiani, comunque al servizio dei bianchi. I consigli tribali sono governi fantoccio, che seguono direttive dettate da esigenze non indiane, e che sono ben lontane dalle reali aspettative delle tribù. Ovviamente i territori assegnati agli indiani erano sempre stati scelti sulla base della loro “appetibilità” o meno ai fini di uno sfruttamento minerario o agricolo da parte dei bianchi.
Più recentemente, la legge, denominata “Relocation Act”, del 1953 prevedeva che gli indiani potevano lasciare le terre e le riserve e, per il loro inserimento nella società americana, vi erano appositi programmi, che prevedevano una proposta di lavoro con aggiunta di una piccola sovvenzione iniziale, tale da consentire loro l’inserimento nel tessuto sociale. Ma la perdita dei legami con il proprio retroterra culturale, le discriminazioni razziali, la diversità della vita nelle grandi città e l’impossibilità di adattarvisi, hanno determinato in brevissimo tempo un accumulo di rabbia e frustazioni, tali da provocare forme di autodistruzione e azioni violente contro la collettività. Non a caso è molto alta la percentuale di alcoolizzati, dei malati di mente, dei reclusi, dei suicidi, soprattutto tra le nuove generazioni.
“La spada, il fucile ed il bisturi”, gli strumenti USA. Perchè accomunare uno strumento chirurgico, che “salva” la vita, con le armi che, invece, la tolgono? Perchè tale strumento rappresentava l’ultimo brevetto “made in USA” per una efficace soppressione della vita senza tanti clamori. Infatti, una inchiesta condotta nel 1974 stima che, su una popolazione di 800mila nativi, il 42% delle donne in età fertile ed il 15% degli uomini sia stato sterilizzato forzatamente, e ciò è stato possibile con tre semplici strumenti: con l’inganno, con le minacce ed i ricatti, e quando l’ottenimento del consenso avveniva in una lingua che il paziente non poteva comprendere.
Gli indiani, anche se praticamente distrutti, cercarono anche nel ventesimo secolo, specialmente a partire dagli anni ’50, di mobilitarsi, e vi furono numerose proteste per il mancato rispetto dei trattati e delle richieste sociali e politiche, come l’occupazione di Wounded Knee nel 1973 e la simbolica marcia su Washington; nel 1980 gli Oglala/Sioux ottennero 100.000 milioni di dollari per la perdita del territorio di Black Hills, nel 2007 alcuni Lakota/Sioux guidati da Russel Means hanno chiesto la secessione della loro “nazione” ed, a seguito di questa azione politica pacifica, è stata proclamata la nascita di uno Stato non riconosciuto, la “Repubblica Lakota”.
Il popolo indiano, come centinaia di altri popoli, ha subito sulla propria pelle la ferocia e gli orrori del colonialismo, ed i missionari, capeggiando la corsa europea alla loro distruzione, venivano riconosciuti come nemici. Sono, però, stati rimpiazzati dai capitalisti USA, la cui missione è di sfruttare efficientemente la strada aperta dai missionari e, per far questo, non si sono fermati e non si fermeranno davanti a nessuno; hanno anticipato nel tempo quel razzismo, che poi storicamente il nazismo è riuscito a perfezionare ed ampliare: il genocidio, i campi di concentramento (così erano le prime riserve!…), l’eutanasia con la sterilizzazione.
Ebbene, ora va tutto più o meno bene? No, perche l’ironia della sorte ha voluto che le terre dove gli indiani sono rinchiusi (ne vive ancora lì il 35%), si sono rivelate quelle più ricche di uranio, carbone, gas naturale, metalli preziosi, materie prime utilissime alle industrie, per cui le multinazionali del profitto stanno cercando con tutti i mezzi di accappararsele, e stanno anche progettando di prosciugare, per il proprio tornaconto, le falde acquifere nel South Dakota, nelle terre dei Navajo, degli Opi, dei Cheyenne del nord, dei Crow, ecc., rendendo le terre, di fatto, inabitabili.
Alcuni intellettuali indiani sono critici anche verso il marxismo perchè, secondo loro, lo sviluppo delle forze produttive porterà ad una maggior industializzazione, con relativo aumento del consumo di materie prime, che, a sua volta, porterà più velocemente al collasso del globo. Essi non fanno alcuna distinzione tra marxismo e comunismo reale, e vedono nella storia di quest’ultimo la continuazione dell’ingordigia del capitalismo. Molto focalizzati sulla discriminazione razziale subita, essi non sanno che Marx era per l’indipendenza delle nazioni e la salvaguardia dei popoli indigeni, e non conoscono la visione marxista del rapporto tra uomo e natura; qualsiasi industrializzazione ne dovrebbe, ed urge che perlomeno ne dovrà, tenere conto se l’uomo vuole continuare a vivere su questo pianeta.

tratto da: https://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o48111:e1

Non solo i Nazisti di Hitler – La selezione della razza nell’America del XX secolo e la soluzione finale contro i Nativi Americani iniziata il 31 gennaio del 1876

 

Nativi Americani

 

 

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Non solo i Nazisti di Hitler – La selezione della razza nell’America del XX secolo e la soluzione finale contro i Nativi Americani iniziata il 31 gennaio del 1876

Il 31 gennaio 1876 gli Stati Uniti ordinano ai Nativi Americani di trasferirsi nelle riserve, quasi tutte le tribù erano state decimate, sconfitte e massacrate e la distruzione dei bisonti le avevano private delle fonti di sostentamento dei veri Americani.

Le riserve furono prima dei campi di rieducazione, poi dei ghetti, infine delle isole di residenza, dove gli indiani d’America potevano mantenere le loro usanze. Ma solo a parole. Non avevano diritto al voto (acquisito solo nel 1924).

La prima legge sulla sterilizzazione forzata (che riguardava tutta la popolazione non solo quella indiana) entrò in vigore nel 1907 nell’Indiana. Era un periodo storico dove tale pratica era diffusa anche in stati come Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia, diffusa al punto che al processo di Norimberga ai tedeschi non fu contestata come crimine contro l’umanità la campagna di sterilizzazione forzata attuata in Germania a partire dal 1938.

Successivamente, questa prassi fu adottata da altri ventinove stati, tra cui la Virginia nel 1924, e continuò fino al 1979. Le leggi imponevano la sterilizzazione alle persone “socialmente inadeguate”: malati di mente, “promiscui”, albini, alcolizzati, talassemici, epilettici, immigrati come irlandesi e italiani, afroamericani e messicani. La sola California sterilizzò oltre 20 mila persone, un vero record. Questa pratica fu imposta pesantemente anche sui nativi americani che dopo le riserve aveva visto la loro popolazione ridursi in modo esponenziale.

Lee Brightman, presidente dei “Nativi Americani Uniti”, stima che su una popolazione nativa di 800 mila persone, il 42 per cento delle donne in età fertile e il 10 per cento degli uomini siano già stati sterilizzati.

La prima inchiesta ufficiale sulla sterilizzazione dei popoli nativi condotta nel 1975 dalla dottoressa Conie Uri, medico choctaw, per l’allora senatore James Abourezk, documento che 3.406 donne indiane erano state sterilizzate nelle strutture per la Sanità indiana di Oklahoma City, Phoenix, Aberdeen.

In pieno secolo XX, gli USA hanno messo in marcia un piano di sterilizzazione forzata delle donne native, chiedendo loro di firmare formulari scritti in una lingua che non comprendevano, minacciandole del taglio dei sussidi o, semplicemente, impedendo loro l’accesso ai servizi sanitari.

Dopo la seconda guerra mondiale, l’opinione pubblica verso l’eugenetica ed i relativi programmi di sterilizzazione è diventata più negativa, alla luce del collegamento con le politiche di genocidio attuate dalla Germania nazista, anche se un numero significativo di sterilizzazioni è proseguito in alcuni stati fino alla fine degli anni sessanta, ed in particolare il Consiglio di eugenetica dell’Oregon, più tardi rinominato commissione di protezione sociale, è esistito fino al 1983, con l’ultima sterilizzazione forzata verificatesi nel 1981.

 

tratto da: https://www.ilmemoriale.it/cultura/2017/09/01/selezione-della-razza-nellamerica-del-xx-secolo.html

Cavallo Pazzo, incubo dei bianchi, eroe dei Sioux

 

Cavallo Pazzo

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Cavallo Pazzo, incubo dei bianchi, eroe dei Sioux

 

Quando nacque, sua madre lo chiamò Cha-o-Ha, che vuol dire Tra-gli-Alberi, perché l’aveva partorito in un bosco. Ma lui, una volta adulto, decise di assumere il nome di suo padre, morto prematuramente, Tashunka Wikto, che i bianchi tradussero in Crazy Horse, cioè Cavallo Pazzo. Ebbe una vita breve ma leggendaria: fu capo di una tribù dei Sioux, guidò con Toro Seduto la resistenza indiana, umiliò l’esercito degli Stati Uniti nella battaglia di Little Big Horn; infine si arrese, vinto da un inverno rigidissimo più che dalle Giubbe Blu. 
Crazy Horse morì il 5 settembre 1877, a Fort Robinson (Nebraska), ucciso a baionettate da un soldato quando era già inerme e prigioniero. Idealmente, quella data segnò la fine delle “guerre indiane” nelle Grandi Pianure, clou dell’epopea del Far West. In realtà il sangue continuò a scorrere episodicamente per altri 13 anni.
Ma gli scontri dopo il 1877 furono solo colpi di coda di un mondo morente: i native americans avevano già perso. Infatti Cavallo Pazzo era l’uomo-simbolo dell’orgoglio indiano: aveva guidato di persona l’attacco di Little Big Horn; era rimasto in armi anche quando altri capi sioux si erano defilati; si diceva che fosse invulnerabile alle pallottole.
Se era morto lui, per gli altri Sioux non c’era futuro.
    La foto di Cavallo Pazzo
Col tempo, Crazy Horse è diventato un’icona come Garibaldi e Che Guevara: nel Sud Dakota stanno scolpendo a sua immagine un intero monte, che sarà la statua più grande del mondo (vedi box). Ma chi era, al di là del mito, l’ex Cha-o-Ha? Sappiamo che nacque sul fiume Cheyenne “nell’anno in cui la tribù catturò cento cavalli”, corrispondente al 1840-41 del nostro calendario. Che aveva i capelli insolitamente chiari per un indiano. Che sua madre Coperta Sonante era figlia di un guerriero illustre, Bisonte Nero. Che era di carattere schivo e odiava le fotografie, tanto che (a differenza di altri capi indiani) di lui non esistono immagini sicure. Infine che faceva parte degli Oglala, una delle sette tribù dei Sioux, che in realtà non si chiamavano così ma Lakota: Sioux (cioè “Mezzi Serpenti”) era un epiteto spregiativo coniato da indiani rivali.
Le guerre fra bianchi e Sioux erano iniziate molto prima che Coperta Sonante partorisse il futuro mito, cioè nei primi anni dell’800. Pomo della discordia, all’inizio, fu la valle del Mississippi, che i pionieri volevano in esclusiva. Ma nel 1810 si giunse un accordo, detto “della Prateria del Cane”: la riva est del fiume era dei bianchi, l’altra degli indiani. L’equilibrio resse fino al 1862. Poi l’incendio divampò: la scintilla fu il Bozeman Trail, una pista tracciata in territorio indiano per raggiungere le zone aurifere del Montana. I Sioux si ribellarono, perché il traffico di carri sulla pista faceva fuggire i bisonti. Il primo “ribelle” si chiamava Piccolo Corvo: fu catturato e ucciso, ma il conflitto continuò. Altre guerre infiammavano il West, ma per i bianchi nessuna era dura come quella sul Bozeman Trail: benché presidiata da fortini, la pista era impraticabile.
Un ritratto di Cavallo Pazzo   
Così fu decisa la “soluzione finale”. William Sherman, comandante delle truppe del West, la teorizzò con lucido cinismo: “Ai Sioux dobbiamo rispondere con una violenta aggressività, anche a costo di sterminare donne e bambini”. Alle parole seguirono i fatti: l’episodio più atroce (1864), che ha ispirato anche una canzone di Fabrizio De André, non toccò i Sioux ma i loro vicini Cheyennes: un villaggio indiano sul torrente Sand Creek (Oklahoma) fu attaccato dai soldati del colonnello John Chivington, che massacrarono, stuprarono, scalparono e mutilarono 150-200 persone inermi, senza riguardo per il sesso o per l’età. Scalpi e genitali degli uccisi furono esposti come trofei al teatro di Denver, in un’allucinante esibizione di sadismo.
Fu qui che entrò in scena Cavallo Pazzo, prima a fianco di Nuvola Rossa, poi di Toro Seduto, infine da solo. Il suo esordio (1865) fu un attacco a un ponte; seguì (1866) un agguato alla guarnigione di Fort Kearny (Wyoming). La guerriglia andò avanti per due anni, poi i bianchi vennero a patti: i fortini sarebbero stati sgomberati e bruciati. La guerra sembrava chiusa con la vittoria degli indiani, invece si era solo spostata su un terreno più subdolo: se non si riusciva a sterminare i Lakota, si poteva però privarli dei bisonti, loro unica risorsa. Così la caccia, che i bianchi praticavano già dal 1850, diventò una strage sistematica e incoraggiata. Campione dell’impresa fu William Cody, detto Buffalo Bill, che tra il 1868 e il 1872 uccise da solo 4mila capi.
La guerra aperta riprese quando (1874) si scoprì l’oro nelle Black Hills, colline che i Sioux consideravano sacre. Il “generale” (in realtà colonnello) George Custer, un avventuriero in divisa, già finito davanti alla Corte marziale per reati militari, cercò di occupare la regione. Ma Custer era odiatissimo dagli indiani, che lo chiamavano “Figlio della stella del mattino” per la sua abitudine di attaccare i villaggi all’alba, quando tutti dormivano. Perciò la sua entrata in scena fece da collante: ai Sioux, guidati da Toro Seduto e da Cavallo Pazzo, si affiancarono i Cheyennes, memori del Sand Creek. Si arrivò così a Little Big Horn, dove l’odiato ufficiale fu ucciso con quasi tutti i suoi soldati. Era il 25 giugno 1876: per Crazy Horse fu il trionfo.
Ma durò poco, perché l’inverno seguente riuscì dove Custer aveva fallito: piegati dal freddo e dalla fame, gli indiani della coalizione si rassegnarono a perdere le Black Hills. In primavera Toro Seduto partì esule per il Canada.
    Guerrieri Sioux
Cavallo Pazzo combatté la sua ultima battaglia nel gennaio 1877, poi a maggio si consegnò in un campo profughi: di fatto era la resa. Mesi dopo, invitato dai soldati a Fort Robinson per discutere il futuro degli Oglala, accettò e non tornò più. La versione ufficiale dice che morì durante una rissa: i soldati avrebbero cercato di chiudere l’ex-guerrigliero in cella; lui avrebbe reagito tentando la fuga e un militare, per fermarlo, lo avrebbe colpito con la baionetta. In realtà pare che quando fu colpito Crazy Horse fosse già stato immobilizzato a mani nude da un altro soldato, un ausiliario. Per un’amara beffa del destino, questi era un sioux passato al nemico: si chiamava Piccolo Grande Uomo; Cavallo Pazzo lo conosceva fin dall’infanzia.

Uno sguardo all’attualità

Negli Stati che furono teatro dell’epopea Sioux, oggi gli indiani sono una piccola minoranza: nel Minnesota rappresentano solo l’1,1% della popolazione; un po’ più popolati sono lo Wyoming (3,06%), il Nord Dakota (5,3%), il Nebraska (6,32%), il Montana (7,36%) e soprattutto il Sud Dakota (9,06%). I Sioux Oglala, eredi diretti dei guerrieri di Cavallo Pazzo, sono sparsi in 17 riserve del Nebraska e del Sud Dakota; in quest’ultimo Stato c’è la più importante (Pine Ridge). Secondo stime recenti, fra gli abitanti delle riserve l’85% risulta disoccupato e il 97% vive sotto il livello di povertà; la speranza di vita oscilla fra i 40 e i 50 anni, mentre il tasso di suicidi supera di 4 volte la media nazionale americana. Oggi tutte le terre ex-indiane delle Grandi Pianure sono utilizzate per l’agricoltura estensiva (grano, mais, soia, girasoli) e l’allevamento (bovini, suini, ovini), attività particolarmente floride nel Nebraska. Il Sud Dakota è anche un grande produttore di alcol etilico. Nel Montana si estrae tuttora oro, nel Wyoming uranio e gas, nel Nord Dakota un po’ di petrolio. Di tutte queste attività non beneficiano gli indiani, che vivono di turismo e di sussidi pubblici.

Un memorial per Cavallo Pazzo

A ricordo di Cavallo Pazzo, nelle Black Hills (Sud Dakota) sta sorgendo la statua più grande del mondo, che a lavori finiti sarà alta 172 metri e larga 195. In pratica, un’intera montagna di granito, rimodellata a immagine del mitico capo degli Oglala. L’idea del monumento kolossal fu di uno scultore di Boston morto nel 1982, Korczak Ziolkowski, che lavorò al progetto per 34 anni. Tutto nacque dal fatto che dal 1927 al 1940 un altro monte delle Black Hills (il Rushmore) era stato scolpito con le teste di quattro presidenti degli Stati Uniti (Washington, Jefferson, Roosvelt e Lincoln).


La grande scultura dedicata a Cavallo PazzoGli indiani avevano interpretato l’iniziativa come un insulto: le Black Hills, per loro, erano sempre state sacre; e proprio l’invasione di quelle colline aveva provocato la “grande guerra” del 1876-77, costata la vita di Cavallo Pazzo. Così, d’accordo col capo sioux Henry Orso-in-Piedi, Ziolkowski si offrì di controbattere con una scultura ancor più grandiosa: le teste dei presidenti sono alte 18 metri, il futuro Cavallo Pazzo di granito doveva essere 10 volte più grande. I lavori, iniziati nel 1948, oggi sono a circa metà dell’opera: a sostenere l’iniziativa, dopo la morte dello scultore, è una fondazione (vedi www.crazyhorse.org) che si autofinanzia con i biglietti di entrata al cantiere, diventato un’attrazione. Nel 1999 tra i turisti in visita è arrivato, per la prima volta, anche un presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton.

 

 

tratto da: https://www.farwest.it/?p=5856

Tiziano Terzani: La presunzione dell’uomo bianco

 

Terzani

 

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Tiziano Terzani: La presunzione dell’uomo bianco

Tiziano Terzani: La presunzione dell’uomo bianco

“Gli aborigeni vivevano in questo continente straordinario che è l’Australia con una civiltà che aveva modi di comunicare al di là di ciò che noi conosciamo: le parole… È arrivato l’uomo bianco e soltanto il vederlo, soltanto il vederlo, ha distrutto questa civiltà”.

Tiziano Terzani espone il grande problema della civiltà  occidentale, la presunzione dell’uomo bianco che crede di essere superiore a tutti gli altri abitanti della Terra. Chiarisce come la civiltà occidentale, che si considera più evoluta di altre, abbia cancellato tradizioni millenarie come quelle legate alla popolazione aborigena.

Tutta la nostra società è fatta per dare corda, invogliare alla violenza E allora violenza produce violenza, non c’è niente da fare. Il mondo non è più quello che conoscevamo, le nostre vite sono definitivamente cambiate. Forse questa è l’occasione per pensare diversamente da come abbiamo fatto finora, l’occasione per reinventarci il futuro e non rifare il cammino che ci ha portato all’oggi e potrebbe domani portarci al nulla, alla fine…

 

“Sono nato sulle Colline Nere, le montagne madri del mio popolo” – Il fantastico discorso di Toro Seduto – Assolutamente da leggere per capire la differenza tra la grandezza dei Nativi Americani e la perfida grettezza dell’uomo bianco…

Toro Seduto

 

 

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“Sono nato sulle Colline Nere, le montagne madri del mio popolo” – Il fantastico discorso di Toro Seduto – Assolutamente da leggere per capire la differenza tra la grandezza dei Nativi Americani e la perfida grettezza dell’uomo bianco…

Sono nato sulle Colline Nere, le montagne madri del mio popolo. Mi chiamarono Lento, ma sapevo che un giorno, mi sarei conquistato un altro nome. Allora non sapevo neppure dell’esistenza dei bianchi. Ero un Indiano, e prima ancora di essere indiano, ero un Lakota, e tra i Lakota appartenevo alla tribù guerriera più valorosa: gli Hunkpapa.La nostra fierezza era immensa.

I nostri guerrieri erano temuti da tutte le tribù vicine. Il nostro territorio di caccia era enorme, nel cuore delle grandi pianure. Avevamo molti cavalli e il nostro popolo non conosceva la fame da molte lune. Sì, posso dirlo, ero fiero di essere un Lakota, fiero di essere un Hunkpapa (…). A quattordici anni non volli più essere un ragazzo. Non ero molto alto, ma ero forte e vigoroso. Mi sentivo un uomo e tutta la tribù doveva sapere quanto ero coraggioso.

Era già passato molto tempo da quando avevo abbattuto da solo il mio primo bisonte, con un arco costruito da mio padre. Così vidi che un gruppo si guerrieri si stava preparando per un’escursione, seppi che era giunto il tempo per farmi notare (…). Guardai i guerrieri che si allontanavano due a due per recarsi al loro appuntamento e quando gli ultimi lasciarono l’accampamento, li seguii senza farmi notare. Ma sulla collina dove si erano radunati, non ero atteso…che cosa ci facevo là? Gli uomini mi ignorarono in silenzio.

Come dovevo essere ridicolo, col mio piccolo arco buono solo per cacciare uccellini. Mio padre mi si avvicinò; tenendo il mio pony per la criniera gli dissi “Veniamo anche noi”. Vidi nel suo sguardo che era fiero di me. Mi disse solo: “Hai un buon cavallo. Cerca di fare qualcosa di valoroso”. Quindi mi diede un ‘bastone da colpi’, una lunga asta con l’estremità ricurva, sulla quale erano attaccate delle piume d’aquila.

Era l’arma suprema del coraggio (…). Avevamo cavalcato a lungo, quando un esploratore ci avvertì che una banda di Crow stava venendo verso di noi. Quindi ci appostammo dietro una collina per prepararci al combattimento. Dipinsi il mio corpo di giallo e il mio pony col rosso di guerra. Gli altri non prestavano attenzione a ciò che facevo. Alcuni coprivano la bocca e le narici dei loro cavalli con l’erba di medicina per renderli veloci come il vento. Altri, con lo scudo al braccio e il corpo nudo attendevano il segnale. “Hoka Hey!”. Spronando il mio pony coi talloni, sfrecciai dritto verso i nemici, col mio bastone da colpi in mano. Dopo un attimo di stupore, anche i guerrieri della nostra banda caricarono per non restare indietro. Ma avevo un buon vantaggio e la mia cavalcatura era veloce. Ero in testa al gruppo.

Ci stavamo avventando sui Crow; colti di sorpresa, si diedero alla fuga. Mi lanciai all’inseguimento come un pazzo, incosciente come poteva esserlo un giovane Hunkpapa. Uno dei nemici capì che l’avrei raggiunto presto e scese a terra per incoccare una freccia. Ma nel mio cuore e nella mia testa non m’importava nulla di quell’arco e quella freccia! Avevo sete di gloria, sete di combattere. Mi scagliai su di lui, mi porsi e lo colpii violentemente all’avambraccio nel momento in cui tese il suo arco. La freccia volò in cielo. Io gridai e urlai a pieni polmoni; “On hey! Io, Lento, l’ho battuto!”. Altri guerrieri riuscirono a raggiungere dei Crow in fuga e quel giorno vi furono famosi combattimenti. Poi radunammo i trofei, prima di rientrare al nostro accampamento.

Giunti in prossimità dei tipì, ci fermammo per attendere l’alba, quindi, con frastuono di zoccoli, il nostro gruppo entrò nell’accampamento gridando vittoria. I cavalli girarono attorno alle capanne e ogni valoroso gridò a voce alta le azioni brillanti di cui era stato capace. Io restai indietro, perché non ero ancora un vero guerriero, ma mio padre venne a cercarmi. Mi mise tra i capelli una penna d’aquila – la penna che ha già toccato le nuvole! – e mi ricoprì da capo a piedi con i colori della vittoria. Quindi mi fece salire su un magnifico cavallo e mi portò con lui gridando: “Mio figlio ha battuto il nemico. E’ valoroso. Gli do il nome di Tatanka Iyotake, Toro Seduto!”.

Non abbassai lo sguardo; al contrario, guardai fiero davanti a me. Meritavo la ricompensa. Non ero stato solo un valoroso che si era mostrato coraggioso, ero stato il primo a toccare il nemico. Quella sera partecipai alla danza della vittoria e mostrai molte volte come avevo battuto il Crow mentre puntava la sua freccia su di me. Mio padre offrì due cavalli in mio onore. Il mio cuore volava come il falco. Le grida delle ragazze, gli applausi degli uomini, gli sguardi di tutti mi montarono la testa e mi inebriarono (…). Mi ero guadagnato un nuovo nome, Toro Seduto, un nome sacro del quale mio padre mi aveva considerato degno. Pronunciai questo nome nella testa e sentii penetrare dentro di me la forza e lo spirito del bisonte, che da allora non mi lasciò più.

Non era un nome come gli altri. Era stato dato a mio padre da un bisonte che si era avvicinato al bivacco allestito con tre compagni di caccia. Il vecchio bisonte, col capo chino verso l’erba mormorava incessantemente: “Bisonte Seduto, Bisonte che Salta, Bisonte che Monta, Bisonte Solitario…rappresentano i quattro stadi della vita del bisonte”. Mio padre era anche uno sciamano rispettato e aveva una grande conoscenza delle cose sacre. Prese per sé il nome di Bisonte Seduto, ma dopo la prima prodezza lo donò a me, per chiamarsi poi fino alla morte Bisonte che Salta. Nel mondo dello Spirito nulla viene lasciato al caso.

So che se mi è stato dato il nome del Bisonte, è per vegliare sul mio popolo come il Sole-Bisonte veglia sugli uomini (…). Dopo la mia prima prodezza da guerriero, mio padre mi portò con sé sulle colline: “La forza del braccio e il coraggio sono grandi cose, ma non sono nulla senza l’aiuto di una ‘visione’. Solo una visione ti concederà alleati tra le creature del cielo, dell’acqua e della terra. Un uomo senza visione è un uomo senza potere”.

Quindi mi condusse da Sognatore del Sole, il più grande sciamano. Poteva trasformarsi in un animale, sapeva predire il futuro e comandava la pioggia. Lui e mio padre mi prepararono a quella che doveva essere la mia prima visione (…). Poco a poco, le pietre, gli alberi, gli animali, tutto il piccolo mondo che mi circondava divenne propizio per la visione.Non lo vedevo con gli occhi dell’abitudine. Avevo l’impressione di comprendere e di divenire di volta in volta la potenza delle rocce, il tronco rugoso degli alberi o le code rosse che volavano sui cedri. E’ una cosa difficile da spiegare, ma vedevo tutte le creature dell’universo in una maniera sacra.

E sentivo le loro voci che supplicavano con me. Il vento soffiava: “Verrà la voce del Grande Mistero”, e i rami che sterminavo ripetevano senza sosta: “Si verrà, verrà, la voce sacra”.Il sole si levò, ma non sapevo più se era l’alba del primo o del secondo giorno. Il tempo sembrava non esistere più, mentre la mia invocazione era diventata rauca come quella di un animale.All’improvviso, un’aquila maculata apparve in cielo da ovest e si mise a volteggiare sopra di me, come fossi stato la preda sulla quale gettarsi. Non era che un punto tra le nuvole, ma i miei occhi potevano vedere ciascuna delle sue piume, il globo lucido del suo occhio e i suoi artigli.

Ogni cerchio che compiva mi aspirava sempre più, finché mi trascinò con sé in cielo. Non sapevo più se ero io stesso o se ero l’aquila. Tra le mie braccia sentivo il fruscio dell’aria e vidi le quattro pertiche ornate coi nastri sacri allungarsi a dismisura. L’aquila e il vento cantavano all’unisono: “Mio padre mi ha donato questa Nazione; è un duro compito proteggerla!”, e la mia bocca ripeteva le stesse parole. Pronunciandole, sentii il ‘potere’ invadermi e sommergermi, spingendo su di me come la pelle nuova di serpente. I miei occhi risplendevano di lacrime, mentre comprendevo il significato profondo di quelle parole. Sapevo che quella sarebbe stata la gloria, ma sarebbe stato anche dolore (…). Come il bisonte, l’aquila è un animale sacro.

Le sue piume sono paragonabili ai raggi del sole e le sue ali le permettono di volare così in alto da poter avvicinare Wakan Tanka ed esserne messaggera. Quel giorno, con al voce dell’aquila, il Grande Spirito mi confidò il destino del mio popolo. M’avvertì in anticipo che sarebbe stata una missione difficile (…). Nei giorni difficili non sono i forti a soffrire di più, ma i deboli, che si ritrovano ogni giorno sempre più bisognosi. Un capo deve sapere ascoltare la sua gente, soprattutto i più indifesi. E’ a loro che deve pensare, non alla sua gloria personale.

Io, che ero pazzo per la guerra, calmo ora la mia collera e la mia sete di combattere per diventare poco a poco un seguace della pace (…). La pace con l’uomo bianco è durata circa otto anni, perché l’uomo rosso è paziente. I bianchi hanno rispettato solo a metà le parole del trattato e noi abbiamo chiuso un occhio (…). Io, Toro Seduto, so sopportare con pazienza, ma quando la misura è colma, guai a chi mi ha fatto salire il fuoco alla testa! Ho riunito il Gran Consiglio, ho chiamato tutta la mia gente alla guerra e ho inviato messaggeri ovunque: “Siamo in guerra, unitevi a me al mio accampamento, uniamoci per una grande battaglia contro i soldati!”. Dalle colline, dalle montagne, dai confini della prateria, i guerrieri mi raggiunsero a migliaia.

Al di là delle nostre differenze, siamo tutti fratelli, e i fratelli si radunano per cacciare il lupo quando si avvicina troppo al tipì. Gli Oglala di Cavallo Pazzo, I Minniconjou di Luna Nera, i Cheyenne di Cavallo Piccolo, gli Arapaho, gli Yanktonais, i Piedi Neri, i Cheyenne del Sud…gli indomiti Santee di Inkpaduta e anche alcuni Brulè che disconobbero il loro capo Coda Maculata. Tutti risposero all’appello della guerra. Giovani valorosi bramosi di combattere, vecchi guerrieri dal passato glorioso e intere famiglie lasciate a morire di fame nelle ‘agenzie’ dell’uomo bianco.

Solo gli Oglala di Nuvola Rossa furono sordi al richiamo, ma Jack, figlio del capo, ci raggiunse senza ascoltare suo padre. L’accampamento non smetteva di crescere e non si contavano le danze e le feste che si tenevano ogni giorno. Gli amici si ritrovavano. Bande di ragazzini andavano e venivano sui loro pony. Le ragazze cercavano quadrifogli nella prateria, come portafortuna per quando i giovani cercano la loro compagna. Eravamo come sciami d’api ronzanti e ogni arrivo di un nuovo gruppo era salutato dagli annunci degli urlatori e dal chiasso di coloro che si ritrovavano.Ma venne il momento di affilare i coltelli e di fabbricare punte per le frecce.

Venne il momento di prepararci a combattere. Due Lune venne scelto per comandare i Cheyenne, mentre io avrei guidato i Lakota. Così decise il Consiglio. Poco dopo feci trasferire l’accampamento in un luogo propizio per una grande Danza del Sole. Era l’epoca in cui il Sole è più alto e tutte le forze della vita sono più potenti. Vi erano tutte le condizioni per una buona Danza che rafforzasse il mio popolo. Fui designato per guidare la cerimonia e fu senza dubbio una delle più grandi Danze del Sole mai eseguite dalla mia gente.

La fierezza invase il mio cuore vedendo il gran numero di guerrieri ai quali venivano dipinti di rosso mani e piedi. Avendo fatto voto di offrire al Grande Mistero una copertura scarlatta, avanzai a torso nudo fino al luogo sacro. Là, davanti a tutti, mio fratello Bisonte che Salta procedette con l’offerta. Con un coltello e un punzone, tagliò cinquanta pezzi di carne da ciascuna delle mie braccia, mentre salmodiavo delle preghiere. L’offerta del proprio corpo è l’unica che possiamo fare a Wakan Tanka, perché solo il nostro corpo ci appartiene. Possiamo sacrificare degli animali o far bruciare del tabacco e delle erbe. Ma non sono cose che ci appartengono veramente. Ecco perché il Grande Spirito ascolta coloro che gli offrono la loro carne.

In questo modo, nulla di buono viene senza dolore. Non vi è primavera senza il freddo dell’inverno che purifica il terreno. Per germogliare, il seme deve perforare il suolo. Quindi danzai fissando il Sole, mentre il sangue colava dalle mie ferite. Ho danzato fino al crepuscolo, tra il frastuono dei tamburi e dei sonagli, in compagnia di tutti i giovani valorosi che offrivano la loro sofferenza per la vita della Nazione.Ho danzato tutta la notte e tutto il giorno seguente, fino all’ora in cui il sole si trovava dritto sopra gli uomini. Il mio spirito non mi apparteneva più e volò oltre le nuvole. Vidi le giubbe blu che arrivavano come un branco di locuste, con la testa in basso perdendo i loro capelli. Caddero proprio nel nostro accampamento.Una voce parlò alla mia testa: “Te li regalo, perché non hanno orecchi”. Sorrisi, poi morii in un istante.

Credo sia stato Luna Nera che mi stese a terra e mi spruzzò con acqua fresca. Quando ritornai tra i vivi, raccontai la mia visione e tutti si rallegrarono. Se i bianchi erano a testa in giù significava che sarebbero morti. Wakan Tanka aveva accettato la mia offerta; eravamo sotto la sua protezione. Ma avvertii i miei: i bianchi che sarebbero morti in battaglia erano un dono del cielo. Non avremmo dovuto spogliarli, né prendere i loro cavalli, altrimenti la maledizione si sarebbe abbattuta su di noi. Guai a chi brama le ricchezze dell’uomo bianco! (…)

Poco dopo, vi fu una grande battaglia in cui massacrammo le truppe di Capelli Lunghi (Custer, n.d.e). Ancora oggi, i bianchi cercano di capire perché abbiamo vinto quel giorno, ma io so che la protezione del Grande Spirito ci guidò e che il nostro popolo si batté per una giusta causa. Le giubbe blu non sono uomini come noi. Combattono perché è il loro mestiere e non hanno nulla da difendere (…). A Forte Buford ho ceduto le armi e i cavalli…quei cavalli sui quali ho galoppato a lungo, battendo i miei nemici. Non ho avuto il coraggio di farlo da solo. E’ stato mio figlio Piede di Corvo che l’ha fatto per me (…). Qualche luna fa ho visitato la città più grande dell’uomo bianco e i prodigi che può offrire mi hanno riempito di ammirazione.

Ma per le vie della città ho visto dei bambini che tendevano la mano come mendicanti. E’ stata una visione così miserabile che il cuore mi doleva e ho dato loro i pochi soldi che avevo in tasca. Come potranno i bianchi prendersi cura dell’uomo rosso se lasciano morire in miseria i loro stessi figli? Sembra che a loro interessino solo il potere e il denaro! Il loro appetito non ha limiti. A loro non basta prendere le nostre colline e le nostre praterie, vogliono rubarci anche l’anima. Mandano i nostri figli nelle loro scuole affinché imparino a vivere come loro. Vogliono che ascoltiamo le parole del loro Dio scritte in un libro, ma il nostro libro sacro sono il vento, la pioggia e le stelle.

Vogliono che diventiamo contadini che lavorano per loro. Porto il nome del bisonte e non sarò mai come un animale domestico rinchiuso. Vogliano che dimentichiamo il potere del cerchio per vivere nelle loro case quadrate; che rinunciamo alle nostre danze e alla nostra ‘medicina’. E alcuni dei nostri sono così disperati che si prestano ad abbandonare la ‘via rossa’ I nostri fratelli dimenticano le forze che sono state in nostro potere: il bisonte, la pipa e il cerchio. E quelle forze ci abbandonano… Il mondo dell’uomo bianco ha l’insolenza dei guerrieri vittoriosi.

Ma solo la pietra dura nel tempo. Può darsi che un giorno il ‘potere’ dell’uomo bianco rinasca, come un albero congelato che ricresce dalle sue radici…

(Toro Seduto)

Toro Seduto (1830-1890) Nacque a Hunkpapas, lungo il Grande Fiume, nel Dakota. Fu uno dei capi principali che negoziarono il Trattato di Fort Laramie, nel 1868, con il quale gli Stati Uniti si impegnavano ad abbandonare diversi forti e a rispettare l’area sacra delle Black Hills.Toro Seduto era noto come un grande guerriero e in tarda età divenne una guida spirituale.

Nel giugno 1876, eseguì la Danza del Sole per trentasei ore consecutive e al termine ebbe una visione secondo la quale le truppe del generale Custer sarebbero state sconfitte nella famosa battaglia di Little Bighorn, in cui il settimo cavalleria fu annientato. Egli disse della battaglia: “Non dite che fu un massacro. Vennero per ucciderci e invece furono loro ad essere uccisi”. Toro Seduto ebbe un vasto consenso da parte del suo popolo e rappresentò un ostacolo enorme per gli sforzi dei bianchi di assoggettare i Sioux.

Dopo varie vicissitudini, che videro progressivamente ridursi le concessioni ottenute con anni di lotte, Toro Seduto fu assassinato con un colpo alla testa, mentre quarantatre poliziotti indiani rinnegati cercavano di arrestarlo, nel dicembre 1890, pochi giorni prima del massacro di Wounded Knee.

Ecco come i Nativi Americani stanno salvando il bisonte dall’estinzione voluta dalla crudeltà, dalla scelleratezza e dalla meschinità dell’uomo bianco

 

Nativi Americani

 

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Ecco come i Nativi Americani stanno salvando il bisonte dall’estinzione voluta dalla crudeltà, dalla scelleratezza e dalla meschinità dell’uomo bianco

Nella foto: Una montagna di teschi – Con crudeltà, scelleratezza e meschinità, l’uomo bianco voleva l’estinzione del bisonte per affamare i Nativi Americani…

Leggendo qua e là

…L’Esercito non aveva tra i suoi compito quello di accompagnare i ricconi dell’est a cercare emozioni nelle battute di caccia, ma era molto interessato a tutto ciò perché era tra i suoi interessi quello del controllo dei nativi americani e, se possibile, del loro annullamento e questo era possibile raggiungerlo anche attraverso il controllo dei bisonti che erano fonte primaria di cibo e di mille altre cose per gli indiani…

“Uccidi tutti i bufali che puoi! Ogni bufalo morto è un indiano in meno”.

…Oggi può sembrarci assurdo, eppure al tempo del west i coloni ed i cacciatori americani uccisero bisonti senza sosta fino quasi a portare quella specie animale alla quasi completa estinzione. I turisti dell’est fecero la loro parte, sparando agli animali dai finestrini dei treni come se il massacro potesse durare per sempre…

 

Da GreenMe:

I nativi americani stanno salvando così il bisonte dall’estinzione

Le tribù native americane stanno salvando il bisonte dall’estinzione. Questo mammifero, oltre ad essere una forma di sostentamento, svolge un ruolo fondamentale nella spirituale della tribù, ecco il perfetto equilibrio che si è stabilito nel Nord America.

5mila ettari di praterie non arate nel nord-est del Montana e centinaia di bisonti selvaggi che vagano. Ma questa mandria non si trova in un parco nazionale o in un santuario protetto, ma bensì nelle terre ancestrali delle tribù di Assiniboine e Sioux di Fort Peck Reservation.

Proprio qui c’è il più grande allevamento di bisonti e solo grazie ai nativi. Fino a centinaia di anni fa, sulla Terra vivevano 30milioni di bisonti, un mammifero ricordiamolo, sopravvissuto anche all’Era glaciale, ma non all’intervento dell’uomo.

Dopo il viaggio di Colombo, i colonizzatori bianchi per occupare i territori dei nativi utilizzarono ogni mezzo, compreso quello del massacro dei bisonti, prima fonte si sostentamento delle tribù. Aggiungendo a questo i cambiamenti climatici, nel giro di poche decine di anni, il bisonte è passato da decine di milioni all’orlo dell’estinzione.

Vogliamo riportare questi importanti bisonti nella loro dimora storica delle Grandi Pianure”, dice Jonathan Proctor, direttore del programma di Rockies and Plains dell’Ong Defenders of Wildlife , che lavora accanto alle tribù per salvare questo animale.

Dopo il massacro del 19esimo secolo, erano sopravvissuti solo 23 bisonti in una remota valle di Yellowstone. Oggi la mandria è di 4mila e questi animali vivono allo stato brado, non sono addomesticati né stati fatti accoppiare con altro bestiame, mantenendo così la purezza genetica.

Da anni, le tribù difendono i mammiferi dalla legislazione del Montana che è anti bufali. Ma per i nativi questi animali giganteschi sono una risorsa.

Grazie a loro, abbiamo visto l’ecosistema rivivere. Gli uccelli delle praterie sono tornati, le erbe autoctone prosperano. Li accogliamo con gioia e aspettiamo i benefici che portano nelle nostre terre tribali”, dicono.

Grazie a un trattato con il governo, l’anno scorso, Blackfeet Reservation, sempre nel Montana, ha ricevuto 89 bisonti geneticamente puri da Elk Island in Canada. Adesso le tribù stanno negoziando con i funzionari statali per consentire a questi bufali, che sono sani e senza la temuta brucellosi, di recarsi liberamente nel parco nazionale del ghiacciaio e persino, si spera, un giorno a nord del parco nazionale dei laghi di Waterton.

“Le tribù delle pianure settentrionali sono la guida giusta per il ripristino dei bisonti selvatici in questo momento”, ha detto Proctor.

E tra 50 anni, la comunità di conservazione spera di avere almeno 10 mandrie di bisonti con mille animali.