1° Febbraio 1876 – il giorno della “Memoria corta” – Gli Stati Uniti d’America dichiarano guerra ai Nativi Americani rei di un crimine imperdonabile: nei loro territori c’era l’oro!

 

 

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1° Febbraio 1876 – il giorno della “Memoria corta” – Gli Stati Uniti d’America dichiarano guerra ai Nativi Americani rei di un crimine imperdonabile: nei loro territori c’era l’oro!

Il 1 febbraio 1876 è una data ancora oggi ignorata o non considerata come dovrebbe dai media e dalle istituzioni ma è il giorno in cui il Ministro degli Interni degli Stati Uniti d’America, dopo la scoperto dell’oro nella zona più importante del territorio Lakota, perché considerato sacro, le Black Hills, decise di perseguitare tutti i Sioux che rifiutarono di trasferirsi nelle riserve. L’ordine di trasferire migliaia di uomini  donne e bambini dal territorio dov’erano arrivò in una stagione dell’anno in cui quelle zone erano innevate e molti indiani erano lontani impegnati nella caccia. L’esercito statunitense non precluse ai minatori l’accesso alle zone di caccia Sioux e attaccò gli indiane che stavano cacciando nella prateria, come loro concesso dai precedenti trattati.

Gli Stati Uniti dichiarano guerra ai Sioux

Il 1 febbraio 1876 il ministro degli Interni degli Stati Uniti d’America dichiarò guerra ai Sioux “ostili”, quelli cioè che non avevano accettato di trasferirsi nelle riserve, dopo che era stato scoperto l’oro nelle Black Hills, il cuore del territorio Lakota.

Come si potevano traferire migliaia di uomini, donne e bambini dalla terra dov’erano nati, in una stagione dell’anno in cui il territorio era coperto di neve? Molti indiani pare neanche ricevettero l’ordine, in quanto impegnati nelle loro attività di caccia, lontano dalla propria residenza.

Quella dichiarazione di guerra del 1 febbraio fu l’inizio del massacro degli Indiani d’America, che culminerà con l’eccidio di Wounded Knee, passato alla storia grazie a canzoni, libri e film. Sul finire del dicembre 1890, la tribù di Miniconjou guidata da Piede Grosso, appresa la notizia dell’assassinio di Toro Seduto, partì dall’accampamento sul torrente Cherry, sperando nella protezione di Nuvola Rossa.

Il 28 dicembre furono intercettati dal Settimo Reggimento, che aveva l’ordine di condurli in un accampamento sul Wounded Knee: 120 uomini e 230 tra donne e bambini furono portati sulla riva del torrente, circondati da due squadroni di cavalleria e trucidati.

“Seppellite il mio cuore a Wounded Knee” di Dee Brown è il libro che ha commosso generazioni di persone e ispirato cantanti di tutte le generazioni e latitudini, fino a Fabrizio De Andrè che compose la canzone “Fiume Sand Creek”, Prince e Luciano Ligabue.

Così racconta il massacro di Wounded Knee: «Brillava il sole in cielo. Ma quando i soldati abbandonarono il campo dopo il loro sporco lavoro, iniziò una forte nevicata. Nella notte arrivò anche il vento. Ci fu una tempesta e il freddo gelido penetrava nelle ossa. Quello che rimase fu un unico immenso cimitero di donne, bambini e neonati che non avevano fatto alcun male se non cercare di scappare via».

I Sioux, che preferiscono chiamarsi Dakota o Lakota, sono la principale tribù degli Stati Uniti, con 25.000 membri. Ora vivono in riserve nei loro antichi territori. Continuare a raccontare la loro storia (pochi giorni fa è stata la Giornata della memoria) è un modo per non dimenticare di cosa è stato capace l’uomo nel corso della storia e fare in modo che episodi simili non si ripetano.

 

Non solo i Nazisti di Hitler – La selezione della razza nell’America del XX secolo e la soluzione finale contro i Nativi Americani iniziata il 31 gennaio del 1876

 

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Non solo i Nazisti di Hitler – La selezione della razza nell’America del XX secolo e la soluzione finale contro i Nativi Americani iniziata il 31 gennaio del 1876

Il 31 gennaio 1876 gli Stati Uniti ordinano ai Nativi Americani di trasferirsi nelle riserve, quasi tutte le tribù erano state decimate, sconfitte e massacrate e la distruzione dei bisonti le avevano private delle fonti di sostentamento dei veri Americani.

Le riserve furono prima dei campi di rieducazione, poi dei ghetti, infine delle isole di residenza, dove gli indiani d’America potevano mantenere le loro usanze. Ma solo a parole. Non avevano diritto al voto (acquisito solo nel 1924).

La prima legge sulla sterilizzazione forzata (che riguardava tutta la popolazione non solo quella indiana) entrò in vigore nel 1907 nell’Indiana. Era un periodo storico dove tale pratica era diffusa anche in stati come Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia, diffusa al punto che al processo di Norimberga ai tedeschi non fu contestata come crimine contro l’umanità la campagna di sterilizzazione forzata attuata in Germania a partire dal 1938.

Successivamente, questa prassi fu adottata da altri ventinove stati, tra cui la Virginia nel 1924, e continuò fino al 1979. Le leggi imponevano la sterilizzazione alle persone “socialmente inadeguate”: malati di mente, “promiscui”, albini, alcolizzati, talassemici, epilettici, immigrati come irlandesi e italiani, afroamericani e messicani. La sola California sterilizzò oltre 20 mila persone, un vero record. Questa pratica fu imposta pesantemente anche sui nativi americani che dopo le riserve aveva visto la loro popolazione ridursi in modo esponenziale.

Lee Brightman, presidente dei “Nativi Americani Uniti”, stima che su una popolazione nativa di 800 mila persone, il 42 per cento delle donne in età fertile e il 10 per cento degli uomini siano già stati sterilizzati.

La prima inchiesta ufficiale sulla sterilizzazione dei popoli nativi condotta nel 1975 dalla dottoressa Conie Uri, medico choctaw, per l’allora senatore James Abourezk, documento che 3.406 donne indiane erano state sterilizzate nelle strutture per la Sanità indiana di Oklahoma City, Phoenix, Aberdeen.

In pieno secolo XX, gli USA hanno messo in marcia un piano di sterilizzazione forzata delle donne native, chiedendo loro di firmare formulari scritti in una lingua che non comprendevano, minacciandole del taglio dei sussidi o, semplicemente, impedendo loro l’accesso ai servizi sanitari.

Dopo la seconda guerra mondiale, l’opinione pubblica verso l’eugenetica ed i relativi programmi di sterilizzazione è diventata più negativa, alla luce del collegamento con le politiche di genocidio attuate dalla Germania nazista, anche se un numero significativo di sterilizzazioni è proseguito in alcuni stati fino alla fine degli anni sessanta, ed in particolare il Consiglio di eugenetica dell’Oregon, più tardi rinominato commissione di protezione sociale, è esistito fino al 1983, con l’ultima sterilizzazione forzata verificatesi nel 1981.

 

tratto da: https://www.ilmemoriale.it/cultura/2017/09/01/selezione-della-razza-nellamerica-del-xx-secolo.html

Cavallo Pazzo, incubo dei bianchi, eroe dei Sioux

 

Cavallo Pazzo

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Cavallo Pazzo, incubo dei bianchi, eroe dei Sioux

 

Quando nacque, sua madre lo chiamò Cha-o-Ha, che vuol dire Tra-gli-Alberi, perché l’aveva partorito in un bosco. Ma lui, una volta adulto, decise di assumere il nome di suo padre, morto prematuramente, Tashunka Wikto, che i bianchi tradussero in Crazy Horse, cioè Cavallo Pazzo. Ebbe una vita breve ma leggendaria: fu capo di una tribù dei Sioux, guidò con Toro Seduto la resistenza indiana, umiliò l’esercito degli Stati Uniti nella battaglia di Little Big Horn; infine si arrese, vinto da un inverno rigidissimo più che dalle Giubbe Blu. 
Crazy Horse morì il 5 settembre 1877, a Fort Robinson (Nebraska), ucciso a baionettate da un soldato quando era già inerme e prigioniero. Idealmente, quella data segnò la fine delle “guerre indiane” nelle Grandi Pianure, clou dell’epopea del Far West. In realtà il sangue continuò a scorrere episodicamente per altri 13 anni.
Ma gli scontri dopo il 1877 furono solo colpi di coda di un mondo morente: i native americans avevano già perso. Infatti Cavallo Pazzo era l’uomo-simbolo dell’orgoglio indiano: aveva guidato di persona l’attacco di Little Big Horn; era rimasto in armi anche quando altri capi sioux si erano defilati; si diceva che fosse invulnerabile alle pallottole.
Se era morto lui, per gli altri Sioux non c’era futuro.
    La foto di Cavallo Pazzo
Col tempo, Crazy Horse è diventato un’icona come Garibaldi e Che Guevara: nel Sud Dakota stanno scolpendo a sua immagine un intero monte, che sarà la statua più grande del mondo (vedi box). Ma chi era, al di là del mito, l’ex Cha-o-Ha? Sappiamo che nacque sul fiume Cheyenne “nell’anno in cui la tribù catturò cento cavalli”, corrispondente al 1840-41 del nostro calendario. Che aveva i capelli insolitamente chiari per un indiano. Che sua madre Coperta Sonante era figlia di un guerriero illustre, Bisonte Nero. Che era di carattere schivo e odiava le fotografie, tanto che (a differenza di altri capi indiani) di lui non esistono immagini sicure. Infine che faceva parte degli Oglala, una delle sette tribù dei Sioux, che in realtà non si chiamavano così ma Lakota: Sioux (cioè “Mezzi Serpenti”) era un epiteto spregiativo coniato da indiani rivali.
Le guerre fra bianchi e Sioux erano iniziate molto prima che Coperta Sonante partorisse il futuro mito, cioè nei primi anni dell’800. Pomo della discordia, all’inizio, fu la valle del Mississippi, che i pionieri volevano in esclusiva. Ma nel 1810 si giunse un accordo, detto “della Prateria del Cane”: la riva est del fiume era dei bianchi, l’altra degli indiani. L’equilibrio resse fino al 1862. Poi l’incendio divampò: la scintilla fu il Bozeman Trail, una pista tracciata in territorio indiano per raggiungere le zone aurifere del Montana. I Sioux si ribellarono, perché il traffico di carri sulla pista faceva fuggire i bisonti. Il primo “ribelle” si chiamava Piccolo Corvo: fu catturato e ucciso, ma il conflitto continuò. Altre guerre infiammavano il West, ma per i bianchi nessuna era dura come quella sul Bozeman Trail: benché presidiata da fortini, la pista era impraticabile.
Un ritratto di Cavallo Pazzo   
Così fu decisa la “soluzione finale”. William Sherman, comandante delle truppe del West, la teorizzò con lucido cinismo: “Ai Sioux dobbiamo rispondere con una violenta aggressività, anche a costo di sterminare donne e bambini”. Alle parole seguirono i fatti: l’episodio più atroce (1864), che ha ispirato anche una canzone di Fabrizio De André, non toccò i Sioux ma i loro vicini Cheyennes: un villaggio indiano sul torrente Sand Creek (Oklahoma) fu attaccato dai soldati del colonnello John Chivington, che massacrarono, stuprarono, scalparono e mutilarono 150-200 persone inermi, senza riguardo per il sesso o per l’età. Scalpi e genitali degli uccisi furono esposti come trofei al teatro di Denver, in un’allucinante esibizione di sadismo.
Fu qui che entrò in scena Cavallo Pazzo, prima a fianco di Nuvola Rossa, poi di Toro Seduto, infine da solo. Il suo esordio (1865) fu un attacco a un ponte; seguì (1866) un agguato alla guarnigione di Fort Kearny (Wyoming). La guerriglia andò avanti per due anni, poi i bianchi vennero a patti: i fortini sarebbero stati sgomberati e bruciati. La guerra sembrava chiusa con la vittoria degli indiani, invece si era solo spostata su un terreno più subdolo: se non si riusciva a sterminare i Lakota, si poteva però privarli dei bisonti, loro unica risorsa. Così la caccia, che i bianchi praticavano già dal 1850, diventò una strage sistematica e incoraggiata. Campione dell’impresa fu William Cody, detto Buffalo Bill, che tra il 1868 e il 1872 uccise da solo 4mila capi.
La guerra aperta riprese quando (1874) si scoprì l’oro nelle Black Hills, colline che i Sioux consideravano sacre. Il “generale” (in realtà colonnello) George Custer, un avventuriero in divisa, già finito davanti alla Corte marziale per reati militari, cercò di occupare la regione. Ma Custer era odiatissimo dagli indiani, che lo chiamavano “Figlio della stella del mattino” per la sua abitudine di attaccare i villaggi all’alba, quando tutti dormivano. Perciò la sua entrata in scena fece da collante: ai Sioux, guidati da Toro Seduto e da Cavallo Pazzo, si affiancarono i Cheyennes, memori del Sand Creek. Si arrivò così a Little Big Horn, dove l’odiato ufficiale fu ucciso con quasi tutti i suoi soldati. Era il 25 giugno 1876: per Crazy Horse fu il trionfo.
Ma durò poco, perché l’inverno seguente riuscì dove Custer aveva fallito: piegati dal freddo e dalla fame, gli indiani della coalizione si rassegnarono a perdere le Black Hills. In primavera Toro Seduto partì esule per il Canada.
    Guerrieri Sioux
Cavallo Pazzo combatté la sua ultima battaglia nel gennaio 1877, poi a maggio si consegnò in un campo profughi: di fatto era la resa. Mesi dopo, invitato dai soldati a Fort Robinson per discutere il futuro degli Oglala, accettò e non tornò più. La versione ufficiale dice che morì durante una rissa: i soldati avrebbero cercato di chiudere l’ex-guerrigliero in cella; lui avrebbe reagito tentando la fuga e un militare, per fermarlo, lo avrebbe colpito con la baionetta. In realtà pare che quando fu colpito Crazy Horse fosse già stato immobilizzato a mani nude da un altro soldato, un ausiliario. Per un’amara beffa del destino, questi era un sioux passato al nemico: si chiamava Piccolo Grande Uomo; Cavallo Pazzo lo conosceva fin dall’infanzia.

Uno sguardo all’attualità

Negli Stati che furono teatro dell’epopea Sioux, oggi gli indiani sono una piccola minoranza: nel Minnesota rappresentano solo l’1,1% della popolazione; un po’ più popolati sono lo Wyoming (3,06%), il Nord Dakota (5,3%), il Nebraska (6,32%), il Montana (7,36%) e soprattutto il Sud Dakota (9,06%). I Sioux Oglala, eredi diretti dei guerrieri di Cavallo Pazzo, sono sparsi in 17 riserve del Nebraska e del Sud Dakota; in quest’ultimo Stato c’è la più importante (Pine Ridge). Secondo stime recenti, fra gli abitanti delle riserve l’85% risulta disoccupato e il 97% vive sotto il livello di povertà; la speranza di vita oscilla fra i 40 e i 50 anni, mentre il tasso di suicidi supera di 4 volte la media nazionale americana. Oggi tutte le terre ex-indiane delle Grandi Pianure sono utilizzate per l’agricoltura estensiva (grano, mais, soia, girasoli) e l’allevamento (bovini, suini, ovini), attività particolarmente floride nel Nebraska. Il Sud Dakota è anche un grande produttore di alcol etilico. Nel Montana si estrae tuttora oro, nel Wyoming uranio e gas, nel Nord Dakota un po’ di petrolio. Di tutte queste attività non beneficiano gli indiani, che vivono di turismo e di sussidi pubblici.

Un memorial per Cavallo Pazzo

A ricordo di Cavallo Pazzo, nelle Black Hills (Sud Dakota) sta sorgendo la statua più grande del mondo, che a lavori finiti sarà alta 172 metri e larga 195. In pratica, un’intera montagna di granito, rimodellata a immagine del mitico capo degli Oglala. L’idea del monumento kolossal fu di uno scultore di Boston morto nel 1982, Korczak Ziolkowski, che lavorò al progetto per 34 anni. Tutto nacque dal fatto che dal 1927 al 1940 un altro monte delle Black Hills (il Rushmore) era stato scolpito con le teste di quattro presidenti degli Stati Uniti (Washington, Jefferson, Roosvelt e Lincoln).


La grande scultura dedicata a Cavallo PazzoGli indiani avevano interpretato l’iniziativa come un insulto: le Black Hills, per loro, erano sempre state sacre; e proprio l’invasione di quelle colline aveva provocato la “grande guerra” del 1876-77, costata la vita di Cavallo Pazzo. Così, d’accordo col capo sioux Henry Orso-in-Piedi, Ziolkowski si offrì di controbattere con una scultura ancor più grandiosa: le teste dei presidenti sono alte 18 metri, il futuro Cavallo Pazzo di granito doveva essere 10 volte più grande. I lavori, iniziati nel 1948, oggi sono a circa metà dell’opera: a sostenere l’iniziativa, dopo la morte dello scultore, è una fondazione (vedi www.crazyhorse.org) che si autofinanzia con i biglietti di entrata al cantiere, diventato un’attrazione. Nel 1999 tra i turisti in visita è arrivato, per la prima volta, anche un presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton.

 

 

tratto da: https://www.farwest.it/?p=5856

Genocidio dei Nativi Americani – Perchè giorno e notte non possono abitare insieme!

 

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Genocidio dei Nativi Americani – Perchè giorno e notte non possono abitare insieme!

All’epoca del genocidio dei nativi americani il mercato degli schiavi era florido: si alimentava con uomini catturati in Africa e portati in America.

Non era più semplice utilizzare come schiavi chi già abitava quelle terre?

NO, e la ragione non è banale: NESSUNO È MAI RIUSCITO A RENDERE UN PELLEROSSA SCHIAVO.

Giorno e notte non possono abitare insieme

Lo sterminio dei nativi d’America è una delle pagine più vergognosamente nascoste, mascherate e crudeli della storia recente. L’industria del cinema l’ha tramandata secondo i dettami di chi la alimentava e per molte generazioni, compresa la mia, non è stato facile documentarsi con obbiettività anche se personalmente, da bambino ho sempre tenuto agli indiani.

Una delle cose che non mi erano sfuggite ai tempi in cui la tv era ancora in bianco e nero e i film sui cow boycostituivano un must, era che il mercato degli schiavi allora particolarmente florido, si alimentava con uomini catturati in Africa e portati in America.

Io mi chiedevo perché non venissero utilizzati come schiavi gli uomini che già abitavano quelle terre; la ragione non è banale: nessuno è mai riuscito a rendere un pellerossa schiavo. Milioni di nativi americani sono stati uccisi dal raffreddore, perché non avevano difese immunitarie che li proteggessero dai batteri che i coloni portavano con sé, altri ingannati e ridotti ad abusare dell’alcool che i bianchi distribuivano generosamente loro come in seguito e con altri avrebbero fatto con droghe e psicofarmaci, ma mai e poi mai abbiamo visto un “indiano” schiavo!

Gli ideali che hanno fatto di questo straordinario Popolo una delle leggende che abitano il nostro immaginario collettivo, sono monoliti che sopravvivranno alla Casa Bianca ed al Colosseo, perché probabilmente avevano raggiunto un armonia ed una comunione con il mondo ed il suo Spirito, dalla quale noi siamo ancora molto lontani.
Un’altra leggenda dice che il cuore di Cavallo Pazzo sia sepolto a Wounded Knee, (luogo ove si è perpetrato un crimine contro l’umanità intera, non solo nei confronti delle donne e dei bambini barbaramente trucidati) ed attenda il ritorno del suo popolo.

La realtà poi la conosciamo tutti, tutti sappiamo chi comanda oggi in America e dei nativi ci giungono notizie frammentarie e filtrate; sappiamo ad esempio che molti furono impiegati nelle costruzioni dei grattacieli perché non conoscono la paura della vertigine e che qualche volta manifestano perché non vorrebbero che un oleodotto attraversi le terre a loro sacre e che noi invece continuiamo a profanare in onore ad ideali decisamente più effimeri di quelli che animano le proteste di chi li difendono. Questo è il tempo che viviamo e di cui siamo, o siamo stati, inevitabilmente complici.

tratto da: http://www.dolcevitaonline.it/giorno-e-notte-non-possono-abitare-insieme/

C’è un Indiano d’America in prigione da 40 anni. La sua colpa? Aver difeso il suo popolo! …E da 40 anni nessuno, proprio nessuno, ne parla!!

 

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C’è un Indiano d’America in prigione da 40 anni. La sua colpa? Aver difeso il suo popolo! …E da 40 anni nessuno, proprio nessuno, ne parla!!

 

Chi è Leonard Peltier?

Leonard Peltier è un nativo americano in carcere da 40 anni per difendere i diritti del suo popolo. Nasce nel 1944 e già dalla sua infanzia capisce che la vita per i nativi d’America è dura, tra miseria, razzismo, emarginazione.

Cresce anche in un istituto dove conosce la prima “istituzione totale”, ma ha un buon carattere e la sua gioventù è carica di socialità, mentre impara a riparare vecchie automobili. Ma sono gli anni in cui lacomunità indiana comincia ad alzare la testa e si organizza.

Nasce l’AIM, American Indian Movement, di cui dopo poco Peltier entra a far parte. Nel 1973 oltre trecento indiani d’America tengono testa agli uomini del governo, che per scacciare i Lakota dal loro territorio, si erano alleati con il capo di un’altra tribù, Dick Wilson, che con una sorta di polizia privata mieteva terrore nella comunità indigena con pestaggi ed omicidi.

“Quando ci arrestarono, i soldati toccavano le donne davanti agli uomini, cercando di farci reagire così da poter giustificare le nostre esecuzioni.”
 
Leonard Peltier
 

Lo stesso Wilson stava trattando in gran segreto la vendita di parte delle terre della riserva dei Lakota Oglala di Pine Ridge, nel sud Dakota, agli Stati Uniti.

Consapevole della fierezza e dell’ostinazione delle popolazione native, il governo statunitense cerca in tutti i modi di cacciare i Lakota dal loro territorio per impossessarsi dei loro giacimenti. E’ un periodo durissimo, per due anni quella regione vede una presenza spropositata di agenti dell’FBI, e i morti tra i nativi sono almeno 60.

“Quelli di noi che furono riconosciuti come capi, vennero pestati nelle celle della prigione militare dell’esercito.”
 
 

Nel giugno del 1975 dalla comunità di Oglala viene lanciato un appello all’AIMperchè qualcuno vada ad aiutarli, la tensione è altissima. Arrivano 17 membri del AIM, di questi solo 6 sono uomini, tra loro c’è Leonard Peltier. Il 26 Giungo 1975 nei pressi della comunità indiana si presentano in auto, senza alcun segno di riconoscimento, due agenti dell’FBI: la scusa è la ricerca di un uomo che ha rubato degli stivali.

E’ probabilmente una trappola, tanto che nel giro di poco tempo si scatena una sparatoria tremenda con centinaia di agenti e militari.
 

Gli Oglala Lakota si difendono, rispondono al fuoco e alla fine sul terreno restano tre corpi: due agenti dell’FBI e un indigeno.

Tutta la comunità riesce a scappare e a nascondersi, si scatena una caccia all’uomo di dimensioni impressionanti. Per l’indiano americano morto non fu aperta alcuna indagine, mentre per i due agenti vennero imputate tre persone.

I primi due arrestati vengono processati ed assolti sulla base della legittima difesa, rimane il terzo accusato, Leonard Peltier, il quale nel frattempo è scappato in Canada. Su di lui si riversa tutta la rabbia dell’FBI, è il capo espiatorio.

Viene arrestato in Canada il 6 Febbraio 1976 e dopo pochi mesi estradato sulla base di false testimonianze, tanto che successivamente il governo canadese protesterà per i modi in cui si ottenne l’estradizione. Ma oramai Leonard Peltier è nelle mani dei coloro che vogliono letteralmente vendicare i due agenti morti.

Nel suo libro “La mia danza del Sole”, Leonard Peltier racconta:

A Milwaukee rimasi coinvolto in un episodio strano e inquietante.
Stavo mangiando in una trattoria con un paio di fratelli indiani, quando una coppia di uomini seduti al tavolo accanto cominciò a indicarci ridendo rumorosamente e facendo battute razziali.
Non potevo sapere che erano poliziotti in borghese.
 
Ci alzammo per andarcene, ma quei due ci aspettavano fuori, proprio davanti alla porta, impedendoci di uscire.
 
– Cosa c’è da ridere? – chiesi.
 
Ero furioso e pronto a battermi, ovviamente è quello che aspettavano.
 
Non appena parlai, prima ancora di poter alzare una mano, mi trovai due Magnum calibro 357 puntate alla testa. (…cercavo di ripararmi mentre loro mi colpivano a sangue. Venni poi a sapere che, a forza di picchiarmi, uno dei due, poverino, si era ferito una mano e aveva dovuto chiedere due giorni di  riposo.”
 
 

Questa volta il processo viene organizzato diversamente: si svolge nella città di Fargo, storicamente anti-indiana, la giuria è formata da soli bianchi e il giudice è noto per il suo razzismo.

Il processo prende ben altra piega e Peltier viene condannato a due ergastoli consecutivi. Durante il processo non si tiene conto delle prove a suo favore, ma solo di testimonianze manipolate, vaghe e contraddittorie.

Dopo cinque anni, accurati esami balistici riescono a provare che i proiettili che uccisero i due agenti non appartenevano all’arma di Leonard, e alcuni dei testimoni che lo avevano accusato ritirano le loro dichiarazioni, confessando di essere stati minacciati dall’FBI.

Leonard Peltier nel suo libro scrive:

“E’ così che fanno. Ti prendono di mira, t’incastrano, t’arrestano, ti picchiano a sangue, ti appioppano un’accusa falsa. Poi ti trascinano in prigione e in tribunale e t’impoveriscono con le spese legali.”

A Leonard è stata negata la possibilità di avere una revisione del processo, nonostante le prove che dimostrano la sua innocenza. Non gli è stato nemmeno permesso di presenziare ai funerali di suo padre, di sua madre, dei suoi zii. Per almeno due volte si è cercato di ucciderlo in carcere, mentre le sue condizioni di salute sono difficili. Operato ad una mascella solo grazie alle pressioni popolari, quasi cieco da un occhio, malato di diabete e di prostata, ma Leonard Peltierresiste e non rinnega nulla della sua lotta.

A settembre Leonard ha compiuto 70 anni.

Mentre tu stai leggendo Peltier è ancora in prigione. Fino a quando?

Leonard Peltier è in carcere perché lottava per i diritti del suo popolo e la sua storia è un esempio delle tante ingiustizie che avvengono in ogni parte del mondo e che vengono taciute perché “scomode”.

Perché punire con il carcere a vita questo indiano d’america di nome Leonard Peltier?

Per lanciare il messaggio a tutti gli indiani oppressi, per dire loro che se oseranno ribellarsi alla democratica civiltà americana moderna, essi pagheranno e saranno puniti anche se innocenti.

Ma i governi non sanno che gli indiani non hanno mai smesso di lottare, ne mai lo faranno, perché come dicevano i loro antenati, è meglio morire da uomini liberi che vivere da schiavi:


Fonte : Infoaut