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Si dice, ed è vero, che la storia viene scritta dalle potenze vincitrici, e così anche le efferatezze, gli eccidi e i genocidi di popoli vengono amplificati o messi in un cantuccio, secondo gli interessi e le convenienze politiche delle potenze suddette. Così per gli indiani d’America (come per altri moltissimi casi), per il loro olocausto non c’è alcun “giorno della memoria”. Nei programmi di approfondimento se ne parla poco, nella letteratura già a partire dal 1700, poi culminata nel cinema “western”, gli Indiani (o pellirosse) venivano rappresentati come violenti e malvagi, e gli eventuali indiani buoni erano quelli disposti a collaborare con l’uomo bianco. Nota la frase del Generale Sheridan: “…l’unico indiano buono, che io conosca, è l’indiano morto”. Ancora oggi sono, come gli altri “di colore”, discriminati ed emarginati, laddove nelle loro comunità vi sono condizioni di vita nettamente inferiori, con un alto tasso di suicidi tra gli adolescenti di 150 volte superiore a quello statunitense, una mortalità infantile cinque volte più alta, una disoccupazione che tocca cifre altissime e con un’alta diffusione di povertà, di alcolismo e tossicodipendenza.
Dobbiamo ricordare che il genocidio del popolo nativo dell’America è stato valutato andare dai 50 ai 100 milioni di persone; esse morirono a causa dei colonizzatori, per guerre di conquista, cambio di stile di vita, perdita del loro ambiente, malattie contro le quali non avevano assolutamente difese, e molti furono deliberatamente uccisi, ufficialmente perchè considerati “barbari”, mentre la causa principale era quella di impossessarsi delle terre e delle loro ricchezze. Nel Nordamerica ne morirono di meno, essendo meno popolata, ma l’impatto fu devastante: nel 1890 rimanevano 250mila individui, e si stima che circa l’80% fosse stato sterminato.
L’origine degli Indiani d’America è ancora incerta, ma essi sono molto simili ai Mongoli, che oggi vivono in Asia: ciò è possibile, in quanto anticamente l’attuale Stretto di Bering non esisteva e i due continenti erano uniti, permettendo a queste popolazioni il transito prima in Canada e poi negli Stati Uniti. Il primo approccio con il resto del mondo risale a circa il 1100 d.c. con i Vichinghi, ma la svolta alla loro esistenza, purtroppo, avvenne nel 1492, con la “scoperta” di Cristoforo Colombo, convinto di essere sbarcato nelle Indie (da cui la denominazione di “indiani”).
Gli indiani si suddividevano in nazioni, cioè in insiemi di individui uniti dal linguaggio, dagli usi, dallo stanziamento o da una comune abitudine migratoria; le nazioni più grandi erano composte da tribù, costituite da clan o grandi famiglie. Gli indiani delle pianure, la cui economia era principalmente basata sulla caccia al bisonte (fornitore di cibo, materia per vestiario ed armi), vivevano seguendo le migrazioni stagionali dell’animale; invece gli indiani delle zone montuose o desertiche, sia per caratteristiche ambientali diverse, sia per mancanza di grossi animali migratori, facevano una vita più stanziale. Il frammischiamento tra tribù della stessa nazione, o tra le diverse nazioni, non era caso raro, come non era infrequente la guerra, che generalmente veniva condotta per ragioni di bottino, ed era per i giovani l’occasione buona per dimostrare il loro valore.
I primi insediamenti colonici, che poi costituiranno il primo nucleo della nuova nazione americana, risalgono al 1616, dove gli inglesi fondarono l’odierna Virginia, la Nuova Inghilterra, ed i Padri Pellegrini nel 1620 fondarono New Plymouth, nel Massachusetts. Prima ancora i francesi, nel 1606, insediandosi in Canada, avevano fondato Quebec.
I primi contatti con la popolazione indiana erano praticamente basati sui rapporti commerciali e si mantennero su accettabili equilibri; i bianchi portarono a conoscenza degli indiani il cavallo, che poi divenne per loro uno strumento fondamentale di caccia e di guerra, le armi da fuoco e, purtroppo, anche il whisky e le prime malattie (vedi vaiolo, varicella, influenza, etc.), che hanno distrutto intere tribù, non avendo gli indiani sviluppato anticorpi specifici per combatterle.
Successivamente il numero di coloni provenienti dall’Europa crebbe, dato che le potenze europee, specialmente l’Inghilterra, volevano evitare le tensioni sociali che, con l’avvento della borghesia e le relative espulsioni di contadini dalla terra, assorbiti solo in parte dal tessuto industriale, creavano una massa di disoccupati, potenziali promotori di scontri sociali. Così, come “valvola di sfogo”, furono usate le nuove conquiste, che alimentavano il miraggio di possedimenti terrieri e di ricchezze. Comunque, la colonizzazione del Nord e del Sud America presenta delle differenze: mentre i “conquistadores” spagnoli erano prevalentemente degli avventurieri e degli sbandati, e praticavano lo stupro sistematico (i più si unirono con donne indigene di rango superiore e diedero origine ai meticci), gli inglesi arrivarono nel nuovo mondo già in nuclei famigliari, e ciò non favorì l’integrazione. Inoltre, i nativi americani non si adattavano ad essere assoggettati come manodopera, e ciò complicava i rapporti con i bianchi “civilizzatori”, che già consideravano i nativi come “selvaggi”, con tutta la negatività che questo termine comporta.
I pellirosse non conoscevano il denaro, né mai capirono la frenesia dell’uomo bianco per l’oro; parlavano sì di ricchezze, ma per loro si trattava di beni materiali di immediata utilità come cibo, cavalli, armi ecc. Anche la stessa guerra era vista come l’occasione per dimostrare il proprio valore e, per i giovani, era una specie di “esame di maturità”; la stessa pratica di prendere gli scalpi dei nemici uccisi, contrariamente a quanto è stato dato ad intendere, era stata assorbita dagli Inglesi. Con ciò non si vuole dare un’immagine idilliaca dell’indiano: anch’egli faceva la guerra, torturava, in particolare l’Apache, i prigionieri, ma diveniva spietato quando si sentiva ingannato o per ritorsione ad eventuali eccidi dei colonizzatori… era molto raro che un guerriero indiano uccidesse donne e bambini dei nemici in guerra e, quando ciò avveniva, era per rappresaglia, mentre spesso i generali yankee comandavano ai soldati di farlo, per affrettare l’estinzione delle tribù native. Gli stessi Apache, considerati tradizionalmente i più feroci, avevano alle spalle una radice storica ben precisa: lo sfuttamento e gli eccidi subiti dai messicani, che li consideravano intrusi e da eliminare, e che usavano rapire i loro bambini per venderli come schiavi e le loro bambine per avviarle alla prostituzione; in fondo era per difendersi, che l’Apache era diventato un maestro della guerriglia ed un guerriero spietato e feroce.
Comunque, prima della nascita degli Stati Uniti d’America (nel 1776), il “nuovo mondo” fu terreno di scontro fra le varie nazioni europee (Inghilterra, Spagna, Francia, Paesi Bassi), che cercavano di assicurarsi l’alleanza dei nativi, impegnandosi con promesse, poi mai mantenute, spingendoli sempre più ad Ovest, quando il conflitto si attenuava.
Le continue pressioni dei bianchi, appunto, crearono i primi scontri tra gli Indiani: i Chippewua che vivevano nell’attuale Minnesota e Wisconsin si spostarono verso Ovest, scontrandosi con i Sioux, ed a questo scontro fecero seguito diverse battaglie di assestamento tra gli indiani, che coinvolsero diverse tribù minori. Alla fine dell’assestamento, le genti indiane si potevano, grosso modo, dividere così: nelle pianure erano predominanti i Sioux, mentre a Sud gli Apache, e queste due “nazioni” furono le vere grandi avversarie dei bianchi. Ma questo continuo avanzamento dei colonizzatori ebbe l’effetto di spingere diverse tribù o nazioni ad accantonare le vecchie rivalità per potere resistere, e così, di fatto, iniziarono le”guerre indiane”, come gli storici statunitensi le chiamarono, per descrivere la serie di conflitti avuti dagli indiani prima con i coloni, e poi con gli Stati Uniti.
Ma erano ancora degli episodi limitati, ed è con la nomina a presidente del generale A. Jackson, che la politica americana avrebbe mostrato il proprio volto. Uno dei primi atti del presidente fu il “Removal Act” del 1829, che, di fatto, era un ordine di deportazione di cinque “nazioni indiane” (Creek, Choctaw, Chicasaw, CheroKee e Seminole) dalla Florida all’odierno Oklahoma, che in seguito sarebbe diventato “territorio indiano”. La deportazione forzata fu il primo atto di una serie di prepotenze fatte per scacciare i nativi dalle terre ritenute utili all’avanzamento dei coloni. Con lo scoppio della guerra (Maggio 1846) tra Messico e Stati Uniti, gli indiani si illusero, alleandosi con gli Americani, di poterci convivere, ma la scoperta dell’oro nel 1848 e di altri giacimenti nel 1851 fecero sì che i territori degli Apache Minbreno fossero invasi da una moltitudine di cercatori, e, quando gli Indiani cominciarono a ribellarsi, si accorsero ben presto che i soldati USA, loro alleati contro i messicani, avevano l’ordine di garantire il passaggio delle carovane dei cercatori, perchè il governo voleva che quei territori venissero colonizzati, e quindi la spinta alla ricerca dell’oro doveva essere favorita, e non frenata.
Nelle grandi pianure la situazione, invece, era più tranquilla, e nel 1851 a Fort Laramie si tenne una grande assemblea con gli indiani, i quali si erano impegnati ad un atteggiamento amichevole verso le carovane di emigranti, mentre l’esercito doveva difenderli dai soprusi dei coloni. Ma il flusso dei coloni era innarestabile, così come era inevitabile lo scontro tra i bianchi ed i pellirosse. Teniamo presente che lo sviluppo degli Stati Uniti fu grandioso, sia in termini di popolazione, sia in termini di progresso economico, tecnico e scientifico. Nel 1810 la popolazione era di 7.329.000, nel 1860 era di 31.513.000; basti pensare che solo nel 1851, anno dell’oro, erano giunti dall’Europa 1.046.470 immigrati. Gli Stati che, all’inizio erano 13, nel 1860 erano divenuti 34! Nel 1850 la produzione industriale era di oltre 500 milioni di dollari, raddoppiati in solo dieci anni; nel 1842 la ferrovia copriva cinquemila chilometri, nel 1852 erano 17000, ed il 10 maggio 1869, a Promontory Point, si congiungeranno i due tratti della prima ferrovia transcontinentale. Tutto questo per gli Indiani era invece ritenuto un danno, e sconvolgeva il loro modo di vita: vedevano distrutte le fonti di sopravvivenza.
Nel 1860, la giovane nazione americana si apprestava ad una feroce guerra civile (“Guerra di secessione”) tra gli insediamenti del Nord e quelli del Sud. Tale scontro ha avuto un diverso impatto sulle “nazioni” indiane; quelli delle Grandi Pianure, che erano sotto il controllo della Unione nordista, hanno vissuto un momento di tranquillità, avendo i nordisti tutto l’interesse di non turbare il flusso dei rifornimenti provenienti da quei territori, mentre diversa era la situazione del Sud Ovest, dove la California e il Kansas erano rimasti fedeli all’Unione; sicchè si era creato un fronte, dove i nordisti cercavano di bloccare i rifornimenti che dal Messico arrivavano ai Confederali sudisti. Le cinque “nazioni”, che trent’anni prima erano state spostate dalla Florida, presero le armi contro i nordisti con la promessa che, con la vittoria del Sud, sarebbero ritornate sulla loro terra. La sconfitta dei Confederali, invece, costò ai pellirosse un prezzo altissimo. Invece nei territori dell’Arizona e del Nuovo Messico il Nord ritirò le guarnigioni e gli indiani ebbero mano libera per la loro vendetta, facendo terra bruciata degli insediamenti dei coloni che abbandonarono ogni cosa, e persino le città.
Così nel 1862 si ruppe di fatto il precario equilibrio tra uomini bianchi e uomini rossi ed iniziò la “politica di sterminio”, che prosegui negli anni successivi con ” memorabili” battaglie e “memorabili” massacri. Inoltre, nel 1874 gli Indiani delle Pianure furono colpiti da un’altra calamità: i bisonti non seguivano più le piste abituali, ed, in più, la caccia indiscriminata fatta dagli uomini bianchi aveva fatto crescere un florido commercio delle carni e delle pelli del bisonte; tra il 1872 ed il 1874 i bisonti uccisi furono circa 3 milioni e mezzo, di cui solo 150mila dagli indiani. Quando il commercio cominciò a ristagnare fu troppo tardi, perchè i bisonti rimasti non bastavano alla sopravvivenza degli indiani.
Fu poi grazie a documenti falsificati, ma in realtà per dare “campo libero” ai cercatori d’oro, che la Casa Bianca decise che entro il 31 Gennaio 1876, tutti gli indiani dovevano ritirarsi nelle costituende “riserve”, di cui si parlerà più avanti. Infatti poi, senza curare alcuna adeguata informazione su tale “ritiro”, il 1 Febbraio, centoquaranta anni fa, venne ufficialmente dichiarata loro guerra aperta.
Il Giugno 1876, la battaglia di Little Big Horn, con la sconfitta e la morte del famigerato generale Custer, fu di fatto il canto del cigno del popolo indiano, schiacciato poi dalla superiorità militare americana e condannato a sparire da una nuova “civiltà”, che anteponeva l’interesse economico, di potere e di espansione, a qualsiasi considerazione di lealtà ed umanità. Gli americani, comunque, avevano capito che non potevano continuare con la politica dello sterminio e passarono dalla morte fisica dell’indiano alla morte della loro cultura, del loro essere sociale e delle loro tradizioni, integrandoli forzatamente, richiudendoli nelle riserve e riducendoli a personaggi di folklore.
Il primo atto della nuova politica era stato quello di trasformare le agenzie indiane in riserve: mentre nelle prime gli Indiani riuscivano a conservare il proprio modo di vita, nelle seconde, volenti o no, si imponeva loro l’integrazione, ed inoltre non potevano varcare i confini senza autorizzazione, e non avevano il libero esercizio della caccia, dipendendo cosi dagli aiuti del governo. Infatti le riserve sono nominalmente affidate agli Indiani, ma di fatto sono in mano al governo, tramite agenti federali bianchi o indiani, comunque al servizio dei bianchi. I consigli tribali sono governi fantoccio, che seguono direttive dettate da esigenze non indiane, e che sono ben lontane dalle reali aspettative delle tribù. Ovviamente i territori assegnati agli indiani erano sempre stati scelti sulla base della loro “appetibilità” o meno ai fini di uno sfruttamento minerario o agricolo da parte dei bianchi.
Più recentemente, la legge, denominata “Relocation Act”, del 1953 prevedeva che gli indiani potevano lasciare le terre e le riserve e, per il loro inserimento nella società americana, vi erano appositi programmi, che prevedevano una proposta di lavoro con aggiunta di una piccola sovvenzione iniziale, tale da consentire loro l’inserimento nel tessuto sociale. Ma la perdita dei legami con il proprio retroterra culturale, le discriminazioni razziali, la diversità della vita nelle grandi città e l’impossibilità di adattarvisi, hanno determinato in brevissimo tempo un accumulo di rabbia e frustazioni, tali da provocare forme di autodistruzione e azioni violente contro la collettività. Non a caso è molto alta la percentuale di alcoolizzati, dei malati di mente, dei reclusi, dei suicidi, soprattutto tra le nuove generazioni.
“La spada, il fucile ed il bisturi”, gli strumenti USA. Perchè accomunare uno strumento chirurgico, che “salva” la vita, con le armi che, invece, la tolgono? Perchè tale strumento rappresentava l’ultimo brevetto “made in USA” per una efficace soppressione della vita senza tanti clamori. Infatti, una inchiesta condotta nel 1974 stima che, su una popolazione di 800mila nativi, il 42% delle donne in età fertile ed il 15% degli uomini sia stato sterilizzato forzatamente, e ciò è stato possibile con tre semplici strumenti: con l’inganno, con le minacce ed i ricatti, e quando l’ottenimento del consenso avveniva in una lingua che il paziente non poteva comprendere.
Gli indiani, anche se praticamente distrutti, cercarono anche nel ventesimo secolo, specialmente a partire dagli anni ’50, di mobilitarsi, e vi furono numerose proteste per il mancato rispetto dei trattati e delle richieste sociali e politiche, come l’occupazione di Wounded Knee nel 1973 e la simbolica marcia su Washington; nel 1980 gli Oglala/Sioux ottennero 100.000 milioni di dollari per la perdita del territorio di Black Hills, nel 2007 alcuni Lakota/Sioux guidati da Russel Means hanno chiesto la secessione della loro “nazione” ed, a seguito di questa azione politica pacifica, è stata proclamata la nascita di uno Stato non riconosciuto, la “Repubblica Lakota”.
Il popolo indiano, come centinaia di altri popoli, ha subito sulla propria pelle la ferocia e gli orrori del colonialismo, ed i missionari, capeggiando la corsa europea alla loro distruzione, venivano riconosciuti come nemici. Sono, però, stati rimpiazzati dai capitalisti USA, la cui missione è di sfruttare efficientemente la strada aperta dai missionari e, per far questo, non si sono fermati e non si fermeranno davanti a nessuno; hanno anticipato nel tempo quel razzismo, che poi storicamente il nazismo è riuscito a perfezionare ed ampliare: il genocidio, i campi di concentramento (così erano le prime riserve!…), l’eutanasia con la sterilizzazione.
Ebbene, ora va tutto più o meno bene? No, perche l’ironia della sorte ha voluto che le terre dove gli indiani sono rinchiusi (ne vive ancora lì il 35%), si sono rivelate quelle più ricche di uranio, carbone, gas naturale, metalli preziosi, materie prime utilissime alle industrie, per cui le multinazionali del profitto stanno cercando con tutti i mezzi di accappararsele, e stanno anche progettando di prosciugare, per il proprio tornaconto, le falde acquifere nel South Dakota, nelle terre dei Navajo, degli Opi, dei Cheyenne del nord, dei Crow, ecc., rendendo le terre, di fatto, inabitabili.
Alcuni intellettuali indiani sono critici anche verso il marxismo perchè, secondo loro, lo sviluppo delle forze produttive porterà ad una maggior industializzazione, con relativo aumento del consumo di materie prime, che, a sua volta, porterà più velocemente al collasso del globo. Essi non fanno alcuna distinzione tra marxismo e comunismo reale, e vedono nella storia di quest’ultimo la continuazione dell’ingordigia del capitalismo. Molto focalizzati sulla discriminazione razziale subita, essi non sanno che Marx era per l’indipendenza delle nazioni e la salvaguardia dei popoli indigeni, e non conoscono la visione marxista del rapporto tra uomo e natura; qualsiasi industrializzazione ne dovrebbe, ed urge che perlomeno ne dovrà, tenere conto se l’uomo vuole continuare a vivere su questo pianeta.