Quando in america i bambini di colore venivano usati come esca per cacciare i coccodrilli…

 

bambini di colore

 

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Quando in america i bambini di colore venivano usati come esca per cacciare i coccodrilli…

Tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo, la pelle di coccodrillo era particolarmente apprezzata negli Stati Uniti dove era molto usata per fabbricare scarpe, borse e cinture.
Catturare un alligatore non era però un’attività priva di rischi ed erano molti i casi di cacciatori che perdevano un braccio, una gamba o che riportavano altre ferite durante la caccia.

In Florida i cacciatori ebbero un’idea raccapricciante: affittare bambini neri da usare come esche vive per i coccodrilli.

Sembra incredibile, ma durante la schiavitù e sotto le leggi Jim Crow, abrogate solo nel 1965, negli Stati Uniti gli afroamericani furono brutalizzati e maltrattati in ogni maniera immaginabile.
Gli afroamericani erano infatti considerati come “sub-umani” e rappresentati come creature selvagge e prive di valore.

Se esisteva un modo per schiavizzare, torturare, opprimere o uccidere una persona dalla pelle nera, questo veniva quasi sicuramente messo in pratica, per quanto brutale fosse.

In questo terribile contesto, tra le tante atrocità commesse dai bianchi contro i neri in quel periodo, ci fu anche quella di utilizzare i bambini per cacciare i coccodrilli.

Il Jim Crow Museum, in Michigan, raccoglie oggetti legati all’opprimente discriminazione razziale dei neri, tra cui una fotografia dell’epoca in cui sono mostrati nove bambini neri, senza abiti, la cui legenda recita “Alligator Bait”, cioè “esca per coccodrillo”.

Alligator bait

Nell’era più buia della segregazione razziale, i cacciatori noleggiavano i bambini dalle famiglie in cambio di due dollari, per buttarli in acqua allo scopo di attirare i coccodrilli.

Dagli articoli di giornale dell’epoca, i sostenitori di questa tremenda iniziativa, dichiaravano che non ci fosse nulla di terribile nell’utilizzare i bambini come esche, che uscivano dall’acqua solo un po’ bagnati ma divertiti pronti per essere restituiti sani e salvi alle loro madri.

Bambini neri esche per alligatori

I bambini di pelle nera erano usati anche dalle guardie degli zoo per riuscire a spostare gli alligatori nelle aree dei parchi. Nel 1908 il Washington Times riferì che un custode del Giardino Zoologico di New York attirò gli alligatori, per farli uscire dal loro rifugio invernale,  utilizzando i pickaninnies, termine dispregiativo cui ci si riferiva ai bambini di colore.

Sebbene non si trattasse di una prassi diffusa, quella di utilizzare i bambini come esche per i coccodrilli era comunque una pratica abbastanza comune, tanto che il termine “alligator bait” veniva usato anche come insulto nei confronti degli afroamericani.

Che dire, davvero una pagina buia della storia della Florida e dell’umanità.

 

fonte: https://www.greenme.it/vivere/speciale-bambini/bambini-neri-usati-come-esche/

Amazzonia: i Guardiani della Foresta lottano, e muoiono, per tutti noi

 

Amazzonia

 

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Amazzonia: i Guardiani della Foresta lottano, e muoiono, per tutti noi

Fisso la foto di Paulo Paulino Guajajara scattata qualche mese fa, al termine di una spedizione notturna con i guardiani Guajajara alla ricerca dei trafficanti di legno. Mi avevano invitato a unirmi a loro come attivista e ricercatrice di Survival International, il movimento mondiale per i popoli indigeni che da anni sostiene il lavoro dei Guardiani e li aiuta a diffondere la loro voce nel mondo.

Dopo avervi fatto due buchi per gli occhi, Paulino usava il mio cappellino come passamontagna per coprirsi il volto e non essere riconosciuto dai taglialegna. Diceva che avrebbe potuto salvargli la vita. Ma quando il pericolo passava, tornava a scoprire il suo sorriso contagioso.

Indossava il mio cappellino anche quel drammatico 1° novembre. Ma questa volta non è servito a proteggerlo. Lui e l’amico Tainaky Tenetehar non si sentivano in pericolo perché stavano semplicemente andando a caccia. Non stavano pattugliando l’area alla ricerca dei trafficanti di legno, come facevano nelle missioni per proteggere la propria terra e i vicini Awà incontattati. Tainaky è riuscito miracolosamente a sopravvivere all’attacco, anche se è stato gravemente ferito. Ma per Paulino non c’è stato nulla da fare e io continuo a fissare la fotografia, con dolore e sgomento.

Era aprile e la tensione tra chi voleva distruggere la foresta e chi la voleva proteggere era allarmante. I taglialegna avevano già assassinato tre guardiani. E arrivavano puntualmente nuove minacce di morte.

Quel giorno la rabbia e l’urgenza erano palpabili. Non potevamo aspettare il mattino perché i taglialegna erano lì intorno. E così siamo partiti di notte. “Ci stanno osservando”, hanno sussurrato i Guardiani dell’Amazzonia mentre percorrevamo chilometri al buio nella foresta verso un centro di disboscamento illegale. “Ma noi stiamo osservando loro e questa è la nostra foresta. La conosciamo perfettamente. Li prenderemo!”.

Man mano che avanzavamo incontravamo macchie di foresta appena distrutte. Decine di alberi giacevano come cadaveri, pronti per il mercato nero. Paulino era preoccupato. “Mi fa impazzire vedere tutto questo! Questa gente pensa di poter venire qui, nella nostra casa e servirsi liberamente della nostra foresta? No. Non glielo permetteremo. Noi non facciamo irruzione nelle loro case e non le derubiamo, giusto? Mi ribolle il sangue. Sono tanto arrabbiato.”

 Abbiamo allestito il campo dove si incrociavano due sentieri di disboscamento. Per terra c’erano rametti spezzati poche ore prima. I trafficanti di legno erano vicini. Abbiamo dormito intorno a un piccolo fuoco e al tramonto siamo ripartiti. Ci stavamo avvicinando: le tracce degli invasori erano frequenti. Alcune ore più tardi, finalmente, abbiamo individuato la base. Avanzavamo con cautela, ma non c’era più nessuno. I taglialegna erano fuggiti in fretta e furia. E così i Guardiani hanno dato fuoco al campo. Con ogni probabilità gli invasori erano stati informati dalle loro spie. Consapevoli dell’efficacia delle operazioni dei Guardiani, che spesso riescono a cacciare i taglialegna e a bruciare le attrezzature, avevano preferito fuggire e abbandonare i preziosi tronchi.

Quella notte ci trovavamo nel cuore di Arariboia, nel Nordest dell’Amazzonia. Guardando le immagini satellitari si resta impressionati dal contrasto dei colori lungo i suoi confini: è un’isola verde in mezzo a un mare di devastazione. Ma questa non è una sorpresa: i popoli indigeni si prendono cura della propria terra meglio di chiunque altro.

I Guardiani rispettano e proteggono la foresta come parte integrante della loro vita, perché dà cibo, protezione, medicine. È il loro tutto. “Noi popoli indigeni conosciamo la nostra foresta meglio di chiunque altro. Combatteremo fino a che avremo vita”, diceva Tainaky. “Non abbiamo altra scelta”.

Brasile: l’attacco di Bolsonaro e la reazione dei popoli indigeni

Paulino ha pagato con la vita l’impegno per salvare la foresta. Arariboia viene distrutta a una velocità allarmante. Gli Awá rischiano l’estinzione e le parole razziste del presidente Bolsonaro, insieme alle sue proposte genocide di rubare terra indigena, incoraggiano i trafficanti di legno. Da quando Bolsonaro si è insediato, il numero di invasioni di territori indigeni e di attacchi alle comunità è schizzato alle stelle. “Il Presidente ha chiarito che non proteggerà neanche un millimetro in più di terra indigena. Vogliono ucciderci tutti e prendersi la nostra terra”, mi spiegava Tainaky.

La presidenza di Bolsonaro ha aumentato l’attenzione sulla foresta: ma se da un lato sono aumentati gli occhi di coloro che la vogliono depredare, dall’altra sono cresciuti anche quelli di chi la vuole proteggere. Per il futuro di Arariboia e di altre terre indigene – i luoghi a maggiore biodiversità sulla terra e àncora di salvezza per tutti noi – dobbiamo continuare a mantenere i nostri occhi sulla foresta e a sostenere gli occhi indigeni nella foresta.

Dobbiamo onorare la vita di Paulino e di altri come lui che non sapranno mai quanto gli siamo grati, così come noi non capiremo mai quanto gli dobbiamo davvero. In prima linea nella lotta per i popoli indigeni, la natura e l’umanità ci sono loro. Ma a noi resta il compito importante di unirci a loro e restare al loro fianco per dire #StopBrazilsGenocide.

di Sarah Shenker, SURVIVAL INTERNATIONAL per IL FATTO QUOTIDIANO

 

tratto da: https://raiawadunia.com/amazzonia-i-guardiani-della-foresta-lottano-e-muoiono-per-tutti-noi/

 

 

20 luglio 1893 – La vera storia di Pietro Rigosi, il ferroviere ribelle protagonista de “La Locomotiva”, l’eroe “giovane e bello” della guerra santa dei pezzenti di Francesco Guccini

 

Pietro Rigosi

 

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20 luglio 1893 – La vera storia di Pietro Rigosi, il ferroviere ribelle protagonista de “La Locomotiva”, l’eroe “giovane e bello” della guerra santa dei pezzenti di Francesco Guccini

LA VERA STORIA DI PIETRO RIGOSI, IL FERROVIERE RIBELLE PROTAGONISTA DE “LA LOCOMOTIVA” DI GUCCINI

“Non so quanti anni avesse visto allora, di che colore i suoi capelli,
ma nella fantasia ho l’immagine sua: gli eroi son tutti giovani e belli”.

Invece il protagonista della canzone di Guccini un nome e un cognome preciso ce l’ha: Pietro Rigosi. Sarà lo stesso cantautore a parlarne diverso tempo dopo l’uscita di una delle sue canzoni di maggior successo.. I fatti sono riportati dettagliatamente anche in un articolo del Resto del Carlino il 21 luglio 1893. Giorno 20 il telegrafo della stazione di Bologna aveva trascritto un messaggio proveniente da quella di Poggio Renatico. Il contenuto era chiaro: la locomotiva del treno merci 1343 era stata sganciata dai vagoni e si dirigeva a una velocità di 50 km orari, parecchio per l’epoca, verso il capoluogo senza alcun permesso. Si sollecitavano i colleghi di Bologna e di tutte le stazioni che la precedevano a far transitare il treno su binari sgombri affinché l’azione non provocasse un disastro. A guidare quella “locomotiva impazzita” c’era il ferroviere Pietro Rigosi, classe 1860, sposato e padre di due bambini. Aveva approfittato di una distrazione del macchinista del treno merci per prenderne possesso e poi, facendo fischiare la motrice come un forsennato, lanciarsi al galoppo verso il suicidio. Sì perché l’intento di Rigosi era chiaro: uccidersi. E lo dimostrò quando entrando alle 17 e 10 alla stazione di Bologna e vedendo che era stato deviato su un binario tronco, uscì dalla cabina e si piazzò sul fanale di fronte della locomotiva. Impattò violentemente con i carri merci che si trovavano sulla linea morta. Unico coinvolto nell’incidente, Rigosi ne uscì vivo ma ferito gravemente; perse una gamba e fu segnato da profonde cicatrici al volto. Secondo alcune ricostruzioni il suo obiettivo era un treno di prima classe che in quell’orario stazionava quotidianamente a Bologna.
Tanto la stampa dell’epoca quanto la direzione delle Ferrovie bollò il suo gesto come quello di un matto. Uno squilibrato da pensionare e graziare misericordiosamente. L’azione di Rigosi fu invece, probabilmente, l’eclatante gesto di un ferroviere che più volte aveva dimostrato di mal digerire le durissime condizioni di lavoro e le dure punizioni aziendali riservate a chi non rispettava la ferrea disciplina. Erano anni in cui i macchinisti spalavano quintali di carbone per percorrere pochi chilometri, facevano turni massacranti che li portavano a guidare spesso per più di ventiquattro ore consecutive e avevano una speranza di vita assai breve. Evidentemente quello di Rigosi era un atto estremo che voleva porre l’accento sul mondo dei ferrovieri e, più in generale, dei lavoratori che in quell’Italia di fine ottocento non si vedevano riconosciuti i diritti più elementari.

Cannibali e Re

tratto da:

https://www.facebook.com/cannibaliere/photos/a.989651244486682/1997802613671535/?type=3&theater

20 luglio, una data triste per gli Uomini Liberi – Il 20 luglio 1881 anche Toro Seduto fu costretto ad arrendersi all’arroganza dei visi pallidi…!

 

Toro Seduto

 

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20 luglio, una data triste per gli Uomini Liberi – Il 20 luglio 1881 anche Toro Seduto fu costretto ad arrendersi all’arroganza dei visi pallidi…!

Il 20 luglio 1881 Toro Seduto, il leggendario capo Sioux che guidò l’alleanza dei nativi d’America nella resistenza all’invasione delle Grandi pianure, si arrende all’esercito dei bianchi. Nato intorno al 1831 nei pressi di Grand River, nel Sud Dakota, Toro Seduto (in lingua lakota ‘Tatanka Iyotanka’, ovvero ‘bufalo seduto imbronciato’) non stipulò mai alleanze con i ”visi pallidi” con i quali rifiutò sempre di sottoscrivere qualsiasi trattato, tanto da diventare un simbolo della resistenza dei nativi e da essere eletto nel 1867 capo dell’intera nazione Sioux.

Con la scoperta dell’oro nelle Black Hills, cuore del territorio Sioux e area sacra per molte tribù (dichiarata tra l’altro off limits ai bianchi dal Trattato di Fort Laramie del 1868) le ostilità con i ‘visi pallidi’ s’intensificano, fino a quando, nel 1875, il governo degli Stati Uniti ordina agli indiani di stabilirsi definitivamente nelle riserve, scatenando così la loro reazione. Toro Seduto riunisce le tribù nel suo accampamento sul Rosebud Creek, nel Montana, offrendo preghiere al Grande Spirito e ferendosi le braccia fino a farne sgorgare il sangue in segno di sacrificio.

E’ appunto in occasione di questa cerimonia che ha una visione in cui i soldati degli Stati Uniti cadono dal cielo su un accampamento indiano come cavallette. Spostatisi nella valle del fiume Little Bighorn, i Lakota vengono raggiunti da altri tremila indiani: il 25 giugno 1876 l’accampamento è attaccato dal Settimo cavalleggeri comandato dal generale George Armstrong Custer (come ha appunto previsto Toro Seduto nella sua visione) e la battaglia che segue si risolve in una disfatta per l’esercito degli Stati Uniti, trovatosi inaspettatamente in inferiorità numerica.

La spietata reazione statunitense riduce però allo stremo i nativi, costringendo infine alla resa Toro Seduto, ultimo dei capi Lakota a cedere le armi, appunto il 20 luglio 1881. Raggiunto il suo popolo a Standing Rock nel 1883, due anni più tardi si unisce a Buffalo Bill girando con lui per l’America e l’Europa nel ‘Buffalo Bill Cody’s Wild West Show’, uno spettacolo da circo in cui guadagna 50 dollari alla settimana esibendosi a cavallo e firmando fotografie e gadget per il pubblico dei bianchi.

Tornato in riserva (dove trascorre i suoi giorni in una capanna sul Grand River continuando ad avere due mogli e rifiutando la religione cristiana), viene arrestato come agitatore e ucciso “accidentalmente” il 15 dicembre 1890. Sepolto a Forte Yates, nel 1953 i suoi resti vengono trasferiti a Mobridge, nel Sud Dakota, con una stele di granito a indicare la tomba.

C’è un uomo in prigione. Un uomo condannato per aver difeso il diritto all’acqua del suo popolo contro il potere delle Multinazionali. Alberto Curamil, il leader Mapuche che ha salvato i fiumi… finché ha potuto…!

 

acqua

 

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C’è un uomo in prigione. Un uomo condannato per aver difeso il diritto all’acqua del suo popolo contro il potere delle Multinazionali. Alberto Curamil, il leader Mapuche che ha salvato i fiumi… finché ha potuto…!

Alberto Curamil, il leader Mapuche che ha salvato i fiumi: imprigionato per la lotta alle centrali idroelettriche

È riuscito ad impedire la realizzazione di due centrali idroelettriche che avrebbero sottratto litri e litri d’acqua al suo popolo, i Mapuche, e distrutto un intero ecosistema. Alberto Curamil ha riunito la gente dell’Araucanía, regione sud orientale del Cile, fermando la realizzazione dei progetti sul fiume Cautín nel Cile centrale.

Il corso d’acqua dove dovevano sorgere le centrali è sacro per gli indigeni, ma non è (solo) la questione religiosa ad aver guidato la rivolta: i progetti prevedevano infatti la deviazione ogni giorno di centinaia di milioni di litri di acqua dal fiume, danneggiando un ecosistema critico e aggravando le condizioni di siccità nella regione.

Ma, grazie alla grinta di Curamil e al supporto di un intero popolo, tutto è stato fermato alla fine del 2016 e, anche se due anni dopo è stato arrestato per la presunta partecipazione ad attività criminali e tuttora resta in carcere, l’attivista è stato insignito del Goldman environmental prize, noto anche come ‘Premio Nobel per l’ambiente’, insieme ad altri 5 eroi moderni come Bayarjargal Agvaantseren che ha salvato il leopardo delle nevi.

Il premio è stato ritirato dalla figlia, che in un appassionato discorso ha ricordato come l’unione fa la forza, anche contro potenze che sembrano impossibili da sconfiggere.

“[Il premio] è un incentivo a continuare a credere che un altro mondo sia possibile ma con l’unità e l’impegno collettivo e non con l’individualismo che governa il mondo oggi”.

Una storia di soprusi e povertà

“Il popolo Mapuche – si legge sul sito del premio – è il più numeroso gruppo indigeno del Cile e ritiene foreste, fiumi e animali dei fratelli. Nel diciannovesimo secolo l’esercito cileno invade l’Araucanía, allora terra Mapuche autonoma, e consegna a proprietari privati la terra, che oggi risulta la regione più povera del Cile, con circa un terzo della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà“.

Della sanguinaria dittatura trentennale cilena di Augusto Pinochet resta, tra le altre cose, la privatizzazione delle risorse idriche del Cile: il Paese, nel 1981, ha deciso infatti di eliminare l’acqua come bene comune, consegnando la proprietà di questa risorsa ai migliori offerenti, con effetti terribili soprattutto per i Mapuche, che dipendono dai fiumi per il loro sostentamento e considerano sacre queste acque.

I progetti idroelettrici che rischiano di aggravare la situazione

Come se non bastasse, tra il 2010 e il 2015 la zona vive un terribile periodo di siccità, al culmine del quale il ministro dell’energia cilena annuncia un massiccio piano energetico che include 40 grandi progetti idroelettrici sui fiumi dell’Araucanía: il governo e due società private, la SwissHydro e l’Agrisol, progettano, senza consultare le comunità Mapuche, impianti idroelettrici multimilionari sul fiume Cautín, nel cuore del territorio Mapuche.

Noti rispettivamente come Alto Cautín e Doña Alicia, potrebbero deviare oltre 500 milioni di litri d’acqua al giorno dal fiume Cautín per la produzione di energia, e ridurre così tanto la quantità di acqua che scorre può danneggiare il pesce e altri animali selvatici, minando un intero ecosistema, oltre che aggravando la siccità della zona.

La lotta di Alberto Curamil

In questo contesto nasce e si sviluppa la lotta di Curamil: 45 anni, mapuche indigeno nella regione centrale dell’Araucanía cilena e portavoce per l’Alianza Territorial Mapuche con numerose altre battaglie ambientali nel curriculum, riunisce il suo popolo alla lotta, organizzando una vera e propria resistenza ai progetti idroelettrici.

Ma non solo Mapuche: Curamil invita anche i membri di altre comunità, organizzazioni ambientaliste e accademiche, riuscendo a creare una coalizione numerosa e molto accanita, che mette in campo proteste di strada, marce e blocchi stradali, e d’altra parte chiede consigli ad accademici, professionisti ambientali e ONG sull’impatto ambientale e culturale dei progetti, in modo da poter portare numeri inconfutabili sui danni potenziali per il suo popolo.

In questo modo riesce a lanciare una campagna legale contro i progetti idroelettrici, con la collaborazione di avvocati pro bono che avevano sostenuto anche in passato i gruppi indigeni del Cile. Insieme riescono a dimostrare che il governo cileno aveva violato la stessa legge del Paese, che garantisce il consenso libero, preventivo e informato prima di portare avanti qualsiasi progetto di sviluppo.

E Curamil non si ferma nemmeno davanti alla reazione dei potenti: nel 2014 la polizia infatti lo arresta insieme ad altri due leader Mapuche con l’accusa di condotta disordinata, picchiandolo duramente mentre era sotto custodia e provocandogli gravi ferite sul volto. Secondo quanto riportato sul sito del premio, le forze dell’ordine avrebbero aggredito anche la moglie che all’epoca era incinta.

Vittoria!

Eppure ce l’ha fatta: nel 2016 l’Agenzia per i servizi ambientali del Cile annulla il progetto idro di Alto Cautín, citando l’opposizione pubblica delle comunità, e il terzo tribunale ambientale del Cile stabilisce che anche il progetto idroelettrico di Doña Alicia non poteva andare avanti, osservando che il governo non aveva né consultato i Mapuche né considerato gli impatti ambientali.

Purtroppo due anni dopo, nell’agosto 2018, la polizia cilena arresta nuovamente Curamil per presunta partecipazione ad attività criminali, ma fonti all’unanimità ritengono che l’attivista sia in carcere a causa del suo ruolo nel fermare i progetti idroelettrici: troppi interessi danneggiati meritano una punizione.

Forza Alberto, il Cile e l’ambiente hanno ancora bisogno di te.

 

 

fonte: https://www.greenme.it/vivere/costume-e-societa/31483-alberto-curamil-mapuche

Se incontrate un ragazzo africano non donategli un sorriso – Leggi queste poche righe e rifletti…!

 

ragazzo africano

 

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Se incontrate un ragazzo africano non donategli un sorriso – Leggi queste poche righe e rifletti…!

Se incontrate un ragazzo africano non donategli un sorriso.

Non ne ha bisogno.

Raccontategli invece quello che forse non sa. E non perché è stupido, ma perché non gliel’hanno mai detto.

Raccontategli che la sua terra è la stessa di grandi rivoluzionari come Thomas Sankara, Samora Machel, Agostinho Neto, Patrice Lumumba, Steve Biko, Nelson Mandela.

E chi e perché ha ammazzato molti di loro.

Raccontategli che il petrolio, l’oro, i diamanti, l’uranio e tutte le altre risorse appartengono al popolo africano e non alle multinazionali che le sfruttano.

Raccontategli che se i loro Paesi fossero veramente liberi, indipendenti e sovrani non vivrebbero fame e carestia.

Raccontategli che l’Europa che sognano non esiste. E che per loro, qui, c’è solo miseria, elemosina, accattonaggio, marginalità, sfruttamento, schiavitù.

Raccontategli che non ha bisogno di diventare come noi, ma che esiste un’alternativa. Quella di vivere da uomo libero in una terra che dà pane e lavoro.

Raccontategli che anzichè sognare l’accoglienza dovrebbe sognare l’emancipazione, della sua terra e dei suoi figli.

Raccontategli che il suo nemico non è il disoccupato europeo che chiamate razzista, ma il colonialista che continua a sfruttarlo.

Raccontategli di come il colonialismo sia diverso rispetto a un secolo fa.

E di come, nonostante la decolonizzazione, l’occidente continui a interferire sulla sua vita.

Con le guerre per procura, gli stati fantoccio, i mercanti d’armi e i signori della guerra, le guerre tribali e i genocidi, che seminano morte e disperazione in quei giovani Paesi.

Le multinazionali che, grazie ad accordi con governi compiacenti e amici dell’occidente, ne depredano le risorse lasciando briciole alle popolazioni. ONG e aiuti umanitari che ne fiaccano la volontà.

Che la principale battaglia politica non è aprire i porti e abbattere le frontiere, ma pretendere che i Governi del mondo ricco la smettano di interferire con la vita dei Paesi africani, che azzerino il loro debito e che investano in infrastutture, sanità e istruzione, senza chiedere nulla in cambio. Se non la facoltà di commerciare le risorse in condizioni eque e paritarie.

Che il socialismo non è donare sorrisi con un sms di 2€.

Ma è coscienza e lotta di classe, cooperazione, solidarietà internazionale, sovranità, indipendenza, autodeterminazione dei popoli.

Se gli racconterete tutto questo, il suo sogno non sarà più essere salvato in mezzo al mare per venire qui a raccogliere pomodori.

Ma capirà che l’unica vera salvezza è “emancipare sé stessi dalla schiavitù mentale”, diventando un combattente per la libertà.

Lo cantava anche Bob Marley ma il significato di quei versi, voi frikkettoni, non l’avete ancora capito.

E continuare a non capirlo significa perseverare nel trattarlo come un selvaggio da civilizzare.

Significa farlo restare uno schiavo.

Raccontategli tutto questo e gli avrete fatto il dono più grande di tutti: la coscienza.

Dopo potete tranquillamente sorridergli.

Perché è vostro fratello.

 

fonte: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-se_incontrate_un_ragazzo_africano/29278_29279/

Quello che i politici non dicono sull’immigrazione – La Francia continua a mantenere un ferreo controllo delle “ex” colonie. In cambio dell’indipendenza generosamente concessa, ha preteso lo sfruttamento delle loro risorse, pagandole 4 soldi e impedendo la trasformazione locale per ostacolare il loro sviluppo…

Francia

 

 

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Quello che i politici non dicono sull’immigrazione – La Francia continua a mantenere un ferreo controllo delle “ex” colonie. In cambio dell’indipendenza generosamente concessa, ha preteso lo sfruttamento delle loro risorse, pagandole 4 soldi e impedendo la trasformazione locale per ostacolare il loro sviluppo…

 

Quello che nessun politico vi dice sull’immigrazione…e che invece servirebbe ad affrontarla!

La Francia continua a mantenere un ferreo controllo delle sue 14 “ex” colonie in Africa.
Ne controlla la moneta, il cfa, stampato a Parigi e sorretto dal prelievo forzoso, ogni anno, di gran parte dei proventi di quelle nazioni. Un giro di affari finanziario da centinaia di miliardi.
La Francia ha concesso l’indipendenza a questi paesi a patto che le loro risorse vadano, come cliente di prima istanza, all’economia francese che le paga ben poco e non ne consente la trasformazione in quei paesi impedendone così lo sviluppo.
La Francia ha imposto e continua a sostenere al potere, nelle sue “ex ” colonie, elites corrotte e fedeli ai suoi interessi ed attraverso loro controlla le loro economie ed i loro voti all’assemblea generale delle Nazioni Unite.
La Francia siede in Consiglio di Sicurezza dell’Onu, con potere di veto, grazie a questo controllo e al suo essere potenza nucleare. Come? L’uranio del Niger, paese potenzialmente ricchissimo grazie ai suoi giacimenti di questo materiale strategico, alimenta questo potere. In Niger la gente muore di fame ed ogni volta che un governo di quel paese ha provato a ricontrattare i bassi prezzi pagati dalla Francia, guarda un pò, si sono verificati colpi di stato e guerre civili e quei prezzi sono rimasti di fatto bassissimi.

C’è qualche forza politica disposta a far meno demagogia e a costringere la Francia a lasciar libera l’Africa?

Una volta intervistai il presidente di un paese africano ricco di petrolio. Gli chiesi se sapesse quanto petrolio veniva estratto, ogni anno, dal sottosuolo del suo paese da un’importante compagnia petrolifera. “Non lo so e non voglio saperlo“, mi rispose. Ed aveva l’aria spaventata. Uno dei suoi predecessori aveva chiesto queste semplici informazioni ed era stato defenestrato da un colpo di stato.
In Africa funziona così. Puoi chiedere una tangente, la tua parte del bottino. Ma non hai mai voce in capitolo sul controllo delle infinite ricchezze presenti nel sottosuolo del continente. Comandano le compagnie minerarie e petrolifere. Sono loro a decidere i prezzi. Sono loro le vere proprietarie di quelle ricchezze. Pagano poco o niente e se qualche governante prova a governare, cioè chiede rispetto e prezzi equi, la sua sorte è segnata.
L’amministrazione Obama aveva previsto , con la legge Frank Dodd, una tracciabilità minima delle materie prime provenienti dall’Africa. Era un primo possibile approccio ad una maggiore trasparenza e metteva un pò in difficoltà chi se le procacciava anche a suon di stragi finanziando mini eserciti che razziavano le aree minerarie più importanti. Ora l’amministrazione Trump sta annullando quella legge. Il risultato? Penso subito alla Repubblica Democratica del Congo dove negli ultimi quindici anni ci sono stati milioni di morti a causa di questo “mercato”, sarà una ripresa degli assassinii di massa e dei saccheggi.

E della fuga di massa verso l’Europa.

C’è qualche forza politica pronta, invece di far demagogia sull’immigrazione, a battersi per una vera trasparenza nei mercati delle materie prime e per assicurare un giusto prezzo ai paesi africani che le producono?

Fonte: https://www.dolcevitaonline.it/quello-che-nessun-politico-vi-dice-sullimmigrazione/

Autore:  – Giornalista d’inchiesta escluso dalla RAI. Ha realizzato e condotto per anni la trasmissione “C’era una volta”, andata in onda su Rai3 dal ’99 al 2013. Ha collaborato con Dolce Vita per alcuni anni.

 

È in fin di vita, ma hanno voglia di insultarlo, il suo grido di dolore non morirà mai – Migranti, Andrea Camilleri: NON IN NOME MIO – Io mi rifiuto di essere complice di questa volgarità nazista…

 

Andrea Camilleri

 

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È in fin di vita, ma hanno voglia di insultarlo, il suo grido di dolore non morirà mai – Migranti, Andrea Camilleri: NON IN NOME MIO – Io mi rifiuto di essere complice di questa volgarità nazista…

“Ci tengo da cittadino italiano, a dire questa frase: Non in nome mio”. Così lo scrittore Andrea Camilleri è intervenuto commentando lo sgombero avvenuto a Castelnuovo di Porto di una comunità di 540 migranti, definendolo “persecutorio, cioè a dire che stiamo entrando in un regime di violenza e di prepotenza”. Camilleri ha anche sottolineato la necessità di “tenere aperti i porti a tutti, mai chiusi, mentre si perseguitano anche coloro che ormai sono italiani perfettamente integrati. Questa è un’ossessione, rendetevene conto. Mi rifiuto di essere un cittadino italiano complice di questa nazista volgarità”.

A. Camilleri

Andrea Camilleri, in un video inviato a Fanpage.it, ha commentato lo sgombero avvenuto al centro di accoglienza di Castelnuovo di Porto, alle porte di Roma, di più di 500 migranti: “Non in nome mio. Questa è un’ossessione, rendetevene conto. Io mi rifiuto di essere un cittadino italiano complice di questa nazista volgarità”.

“Ci tengo da cittadino italiano, a dire questa frase: Non in nome mio”. Comincia così lo sfogo dello scrittore Andrea Camilleri, intervenuto inviando un videomessaggio a Fanpage.it per commentare lo sgombero avvenuto a Castelnuovo di Porto, alle porte di Roma, di una comunità di 540 migranti “che erano riusciti perfettamente a integrarsi nella società italiana, com gente che lavorava e pagava le tasse in Italia”, come effetto del Decreto Sicurezza voluto dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Un provvedimento, quello attuato nel Cara capitolino, che Camilleri ha definito “persecutorio, cioè a dire, attenzione, stiamo entrando assolutamente in un regime di violenza e di prepotenza”.

Lo scrittore di origine siciliana ha anche sottolineato la necessità di  “tenere aperti i porti a tutti, mai chiusi, perché i porti spesso sono la riva sognata dalla gente, da migliaia di persone. Gli si chiude la porta in faccia e non solo, si comincia a perseguitare anche coloro che ormai sono italiani perfettamente integrati. Questa è un’ossessione, rendetevene conto. Io mi rifiuto di essere un cittadino italiano complice di questa nazista volgarità”. Dal 22 gennaio scorso è iniziato lo sgombero del Cara di Castelnuovo di Porto, che dovrebbe terminare entro il 31 gennaio, quando circa 500 migranti saranno trasferiti altrove. Ieri la protesta della parlamentare Leu Rossella Muroni, che si è messa davanti al pullman in partenza con i primi profughi chiedendo indicazioni precise del luogo dove i migranti venivano portati. Il tutto tra gli applausi dei presenti. Dopo il centro di accoglienza alle porte di Roma, è stato già annunciato dalle autorità competenti che la stessa procedura sarà avviata per il più grande centro di rifugiati d’Europa, il Cara di Mineo in provincia di Catania, e poi ancora in quelli di Bologna, Crotone, Bari e Borgo Mezzanone, nel Foggiano. Circa seimila, in tutto, le persone che saranno trasferite, mentre molti rischiano il rimpatrio perché non hanno più la protezione umanitaria.

Tratto da: https://www.fanpage.it/migranti-camilleri-tenere-i-porti-aperti-non-saro-complice-di-questa-volgarita-nazista/

…E poi, la maratona “vietata ai neri” l’ha vinta proprio Noel: ruandese con sei fratelli morti nel genocidio…!

 

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…E poi, la maratona “vietata ai neri” l’ha vinta proprio Noel: ruandese con sei fratelli morti nel genocidio…!

La maratona “vietata ai neri” l’ha vinta propria Noel: ruandese con sei fratelli morti nel genocidio

Infanzia difficile, come tanti suoi coetanei. A 4 anni, durante i terribili mesi del genocidio, perde il padre e sei fratelli.

Dopo l’altolà agli atleti africani, i timori di sfruttamento e caporalato nell’atletica, gli organizzatori hanno capito che il rimedio era peggio del male e hanno chiamato un pugno di runner di colore. Racconta tutto sul Corriere.it, Riccardo Bruno.
Noel Hitimana si è presentato alla 24esima Trieste Half Marathon e ha tagliato il traguardo da solo dopo un’ora 3 minuti 28 secondi. «I veri ostacoli sono stati la pioggia e il vento. Le polemiche? Ho saputo, ma credo che sia giusto far partecipare tutti. Poi io sono contento di essere qui e di allenarmi in Italia». Ha una voce calma, quasi delicata. Risponde al telefono in inglese, sta rientrando in treno a Siena dove vive dagli inizi di aprile. Fa parte del gruppo di atleti gestiti da Enrico Dionisi, manager storico del running. Vivono in tre appartamenti, due per gli uomini, uno per le donne. Attualmente ci sono 5 ruandesi e 9 keniani, 10 uomini e 4 donne. Paolo Traversi è colui che l’ha scoperto in Africa. «Ha iniziato a correre tardi, quattro anni fa. Quest’anno ha fatto i mondiali di cross, poi è venuto con noi».

Infanzia difficile, come tanti suoi coetanei. A 4 anni, durante i terribili mesi del genocidio, perde il padre e sei fratelli. «Non ho avuto la possibilità di crescere con loro, per fortuna ho avuto una madre bravissima». Finite le elementari è costretto ad abbandonare gli studi per le ristrettezze economiche. Ha la passione del ballo, ha un discreto talento, diventa danzatore dell’Urukerereza, il balletto nazionale. Ma quando vede la Kigali International Peace Marathon, la gara più importante della nazione, decide che il suo futuro è nella corsa. «Non una scelta scontata — aggiunge Traversi —. Il Rwanda dal punto di vista sportivo è il più europeo dei Paesi africani. I bambini giocano a calcio, fanno ciclismo, basket e volley».I primi risultati non sono pari all’entusiasmo. Fino al 20 maggio dell’anno scorso, primo alla mezza maratona di Kigali, il sogno di una vita. Consacrazione tra gli atleti nazionali, porte aperte per gli ingaggi all’estero.

fonte: https://www.globalist.it/sport/2019/05/06/la-maratona-vietata-ai-neri-l-ha-vinta-propria-noel-ruandese-con-sei-fratelli-morti-nel-genocidio-2040993.html

Più una società si allontana dalla verità più odierà quelli che la dicono, ci insegnò George Orwell

 

George Orwell

 

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Più una società si allontana dalla verità più odierà quelli che la dicono, ci insegnò George Orwell

Nel 2017 sul magazine The New Yorker fu pubblicato un articolo di Jill Lepore, professoressa di storia americana dell’Università di Harvard, intitolato Un’età d’oro per la narrativa distopica. La professoressa spiegava che i romanzi distopici nacquero in contrapposizione alla narrativa utopica: “Un’utopia è un paradiso, una distopia un paradiso perduto”, ha scritto Lepore per poi evidenziare quanto gli attuali scenari politici mondiali abbiano favorito la rinascita di questo genere, sia con la scrittura di nuovi romanzi, film e serie tv, che con la riscoperta dei grandi classici. Un dato esemplificativo: nel primo mese dell’amministrazione di Donald Trump, durante il quale il suo staff faceva continuo riferimento ai “fatti alternativi”, il romanzo cult di George Orwell, 1984, registrò unrecord di vendite su Amazon.

È difficile non cogliere l’attualità delle opere di George Orwell, pseudonimo di Eric Arthur Blair, e delle sue riflessioni su temi come la corruzione, il tradimento e più in generale gli orrori che può generare una società capitalista e individualista come quella in cui viviamo. L’odierno scenario della politica e della società civile, italiana e di altre democrazie occidentali, può trovare sufficienti corrispondenze, e trarre insegnamenti, in quanto raccontato da Orwell nel romanzo breve La fattoria degli animali del 1945.

La genesi di questo racconto allegorico deve molto al vissuto personale dello scrittore britannico. Orwell, nato in India nel 1903, era figlio di un funzionario coloniale e sin da adolescente entrò in contatto con le profonde ingiustizie che l’amministrazione britannica imponeva alle popolazioni indigene, empatizzando con la loro condizione. Tornò in Europa nel 1927, deciso a seguire la sua vocazione di scrittore, scelta che gli fece patire la fame per anni, ma che lo mise in contatto con quella parte della popolazione, povera e senza speranza, che rafforzò le sue idee socialiste e lo convinse a combattere contro le ingiustizie sociali. Nel 1937 Orwell combatteva dalla parte dei repubblicani nella guerra civile spagnola come volontario nelle file del Poum (Partito obrero de unificaciòn marxista), un partito marxista di ispirazione trotzkista della Catalogna. L’esperienza di guerra durò poco meno di un anno: a maggio il Poum venne dichiarato illegale, costringendo lo scrittore a fuggire in Francia. L’esperienza spagnola ispirò il libro Omaggio alla Catalogna, pubblicato nel 1938, dove già si intravedevano le idee di fondo che lo condussero alla stesura de La fattoria degli animali: l’elogio della rivoluzione, l’avversione nei confronti di coloro che si lasciano corrompere dal potere e l’aspra critica al comunismo nella sua derivazione stalinista.

La fattoria degli animali racconta la ribellione di un gruppo di animali stanchi di essere vessati e sfruttati dall’uomo, il terribile signor Jones, per autogovernarsi. Il padre morale della rivolta è il Vecchio Maggiore, il maiale più anziano e saggio della fattoria, che poco prima di morire incita gli altri a insorgere contro la tirannia degli esseri umani: “Tutto il prodotto del nostro lavoro ci viene rubato dall’uomo. […] L’uomo è il solo, vero nemico che abbiamo. Si tolga l’uomo dalla scena e sarà tolta per sempre la causa della fame e della fatica”. Guidati da queste parole, e approfittando delle continue ubriacature del signor Jones , gli animali riescono a liberarsi, cacciando gli umani e diventando padroni della fattoria. Fin da subito, l’operato di tre di loro spicca su quello di tutti gli altri: i maiali Palla di Neve, Napoleon e Clarinetto. I primi due si rivelano essere abili strateghi mentre il terzo, capace di “far vedere bianco per nero”, lavora per influenzare l’opinione degli altri animali coinvolti nella rivoluzione, in un’allegoria non troppo velata alla propaganda dei regimi e al servilismo di alcuni media.

I maiali ritenendosi più intelligenti degli altri animali, si autoproclamano capi: imparano a leggere e a scrivere ed elaborano sette comandamenti, plasmati sui principi della rivoluzione, a cui la comunità deve sottostare. Ben presto, però, il mondo di uguaglianza e libertà dai lavori più umili, in cui avevano tutti riposto fiducia, si rivela un orizzonte irraggiungibile. I suini cambiano le regole continuamente e siccome pochi animali sanno leggere e scrivere, i principi della rivoluzione vengono dimenticati e nessuno ha la forza o la conoscenza necessaria per opporsi a chi è al potere. Nell’epilogo i capi arrivano a riunirsi allo stesso tavolo per cenare e riappacificarsi con l’uomo, di cui ormai hanno assunto i comportamenti e la postura eretta, rendendo impossibile distinguere i maiali dai fattori, un tempo dipinti come nemici. C’è un momento del romanzo, in cui le sette regole che il gruppo di ribelli si era dato per organizzare la vita all’interno della fattoria vengono soppiantate dall’unico motto “Tutti gli animali sono uguali” a cui viene aggiunto “ma alcuni sono più uguali degli altri”. Questa fu la sintesi trovata da Orwell per spiegare i meccanismi che possono corrompere gli ideali rivoluzionari, seppur mossi dalla volontà di creare società più giuste ed egualitarie. Il messaggio, come accade in ogni grande opera che resiste al passare del tempo, ha dunque una portata universale che arriva fino ai giorni nostri.

In Italia abbiamo al governo del Paese un partito nato come antisistema: il Movimento 5 Stelle è nato per combattere la vecchia politica, ma ora che gioca con le sue stesse regole sembra essersi dimenticato le ragioni della sua rivoluzione. Il motto che Orwell fa scrivere sui muri della fattoria ricorda l’originario “Ognuno vale uno” declamato nel 2010 dagli attuali capi del Movimento, primo tra tutti Beppe Grillo, che l’anno della fondazione scriveva “La massa non è più stupida, la massa diventa intelligente, si autogoverna […] Per la prima volta nasce un movimento dove ognuno vale uno, un movimento che non ha bisogno di sovvenzioni e di partiti”. Come nel libro di Orwell, oggi appaiono evidenti le contraddizioni tra i vecchi principi e i provvedimenti presi dal M5S una volta arrivato al governo.

Il M5S sta pagando a livello elettorale le incoerenze tra il suo programma e l’azione legislativa, come dimostra il caso dell’Ilva di Taranto. Il Movimento ha chiesto per anni, anche per bocca dell’attuale vicepremier Luigi Di Maio, la chiusura, la bonifica del territorio e la formazione dei lavoratori per reimpiegarli nel settore della green economy. Con queste promesse alle elezioni politiche il M5S si è guadagnato quasi la metà dei voti della provincia, ma nel settembre 2018, Di Maio, in qualità di ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, ha firmato un accordo con i nuovi proprietari dell’ex Ilva, in base al quale il complesso siderurgico continuerà a lavorare con impianti obsoleti, senza aver disposto nessun piano di bonifica. Evoluzione simile ha avuto anche il dibattito sul progetto della Tap, il gasdotto Trans-Adriatico, ferocemente contestato da quella classe politica che oggi dice di essersi resa conto di non poterlo bloccare. La lista di promesse non mantenute si allunga di giorno in giorno, come l’acquisto dei caccia da combattimento di ultima generazione F-35, considerato una spesa da tagliare con priorità prima di arrivare al governo del Paese e che oggi è stata confermata perché secondo il sottosegretario alla Difesa del M5S, , “Resta ovvio che non possiamo rinunciare a quella che è una grande capacità aerea della nostra aeronautica”.

L’incoerenza del M5S è evidente anche nelle sue linee di condotta, come ad esempio il divieto del doppio mandato. Se Grillo nel 2009 scriveva: “Riduzione a due mandati per i parlamentari, per qualunque carica pubblica e eliminazione di ogni privilegio per i parlamentari”, dieci anni dopo i pentastellati hanno deciso di abolire la regola del doppio mandato. Anche sul tema dell’immunità parlamentare, demonizzata quando si trovava all’opposizione, il M5S ha rivisto la sua posizione al Tribunale dei Ministri di Catania l’autorizzazione a procedere contro il vicepremier e alleato di governo Matteo Salvini, accusato di sequestro di persona aggravato per il caso della nave Diciotti.

Orwell lascia intendere  nel suo romanzo che la rivoluzione è stata tradita anche per due motivi: la maggior parte degli animali non ha conservato la memoria dei vecchi principi e chi l’aveva, come l’asino Benjamin, ha scelto di non tacere. I primi si sono lasciati rabbonire dalle parole di Clarinetto, il maiale servo del potere che distorce la realtà alle ragioni della propaganda. Mentre Benjamin, cinico e disilluso, non ha messo al servizio della comunità la sua istruzione e le sue conoscenze, proprio come quella schiera di intellettuali colpevoli nel corso della storia di non essersi schierati contro le dittature. Oggi più che mai bisogna leggere, fare proprie e riflettere sulle parole che Orwell scrisse nella nota che precedeva La fattoria degli animali: “La libertà intellettuale è una tradizione profondamente radicata, senza la quale è assai dubbio che la nostra tipica cultura occidentale possa esistere. Molti nostri intellettuali si sono visibilmente allontanati da questa tradizione. […] Se libertà vuol dire veramente qualcosa, significa il diritto di dire alla gente quello che la gente non vuol sentir dire”.

 

 

 

fonte:

https://thevision.com/cultura/george-orwell/