Buon compleanno Franca Viola – Oggi, il 9 gennaio 1948, nasceva la ragazza che 50 anni fa rivoluzionò la nostra società da medioevo col suo no alle nozze riparatrici

 

Franca Viola

 

 

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Buon compleanno Franca Viola – Oggi, il 9 gennaio 1948, nasceva la ragazza che 50 anni fa rivoluzionò la nostra società da medioevo col suo no alle nozze riparatrici

Franca Viola – “Io, che 50 anni fa ho fatto la storia con il mio no alle nozze riparatrici”

Franca Viola.
Nel ’67 rifiutò di sposare l’uomo che l’aveva violentata. Il suo coraggio cambiò il codice penale. “Mai avere paura di lottare”.
È di nuovo Natale a casa Viola. In sala da pranzo finiscono il dolce e i racconti il marito, Giuseppe, i due figli, Sergio e Mauro, le nuore. L’unica nipote, tredici anni, è appena uscita per raggiungere gli amici. Una ragazzina bellissima, Sonia: bruna e bianca come sua nonna Franca. «Ha visto com’è cresciuta? Mi ricordo che dieci anni fa, quando lei signora venne a trovarmi, mi trovò che pulivo le scale, di fuori, e quando la feci entrare in soggiorno c’era il triciclo della bambina e i suoi giocattoli a terra. Che vergogna questo disordine, pensai. Ancora me ne dispiaccio. Lei è l’unica giornalista che ho fatto entrare in casa mia, lo sa? Non lo so perché: certe volte è una parola, uno sguardo. Una cosa piccola, è quella che cambia».
Non c’era nessun disordine signora Franca, solo il triciclo di una bambina. «Sonia adesso ha la stessa età di quando mi sono promessa a suo nonno Giuseppe. La vita è un lungo attimo. Mi somiglia moltissimo: quando a scuola hanno chiesto le foto dei nonni le ho dato la mia alla prima comunione e la maestra ha detto ‘Sonia, avevo chiesto la foto di tua nonna non la tua’. Ma questa è mia nonna, è Franca Viola… Mi rende così felice che sia orgogliosa di sua nonna. Certo che la sa la storia, sì, gliel’ho raccontata io ma non ce ne sarebbe stato bisogno. Sta su Internet, mi cerca lei tutte le notizie. Io non so usare il computer, neppure riesco a vedere i messaggi nel telefono. Però c’è lei che fa tutto. Le ho solo detto, in più: l’importante Sonia è che tu faccia quello che ti dice il cuore, sempre.
Poi certo, bisogna che le persone che ti amano ti aiutino e non ti ostacolino, come è successo a me con mio padre e mia madre. Ma lo sa che sono passati cinquant’anni dal fatto?». Il fatto, lo ha sempre chiamato. «Chi se lo poteva immaginare che sarebbe stata una vita così». Così come?
«Così bella. Perché poi la storia grande nella vita delle persone è una storia piccola. Un gesto, una scelta naturale. Io per tantissimi anni non mi sono resa conto di quello che mi era successo. Quando mi volle vedere il Papa, il giorno del mio matrimonio, chiesi a mio marito: ma come fa il Papa a sapere la nostra storia, Giuseppe? ».
«Per me la mia vita è stata la mia famiglia. Stamattina sono andata a trovare mia madre, che vive qui accanto, da sola.
Ha 92 anni, è lucidissima. Per prima cosa mi ha detto: Franca, ti ricordi che giorno è oggi? È il 26 mamma, sì. Per lei il 26 dicembre è il giorno del mio rapimento e il giorno della morte di mio padre. Lo sa che mio padre è morto 18 anni dopo il mio rapimento, lo stesso giorno alla stessa ora?
È stato in coma tre giorni, io pensavo: vuoi vedere che aspetta la stessa ora.
E infatti: è morto alle nove del mattino, l’ora in cui entrarono a casa a prendermi. Ha aspettato, voleva dirmi: vai avanti».
Cinquant’anni fa, alle nove del mattino, Franca aveva 17 anni e 11 mesi. Era la ragazza più bella di Alcamo, figlia di contadini. Filippo Melodia, nipote di un boss, la voleva per sé. Lei si era promessa a Giuseppe Ruisi, un coetaneo amico di famiglia. Melodia e altri dodici della sua banda bussarono alla porta e rapirono lei e il fratello Mariano, 8 anni. Li portarono in un casolare in campagna. Dopo due giorni lasciarono andare il bambino, dopo sei portarono Franca a casa della sorella di Melodia, in paese. La legge diceva, allora, all’articolo 544 del codice penale, che il matrimonio avrebbe estinto il reato di sequestro di persona e violenza carnale. Reato estinto per la legge, onore riparato per la società. Doveva sposare Melodia, insomma: era scritto. Ma Franca non volle. Fu la prima donna in Italia – in Sicilia – a dire di no alla “paciata”, la pacificazione fra famiglie, e al matrimonio riparatore. Ci fu un processo, lungo, a Trapani. Lei lo affrontò. Un grande giudice, Giovanni Albeggiani. I sequestratori furono tutti condannati. Melodia è morto, ucciso da ignoti con un colpo di lupara, molti anni dopo. Gli altri sono ancora lì, in paese. «Quando li incontro per strada, capita, abbassano lo sguardo. Non fu difficile decidere. Mio padre Bernardo venne a prendermi con la barba lunga di una settimana: non potevo radermi se non c’eri tu, mi disse. Cosa vuoi fare, Franca. Non voglio sposarlo. Va bene: tu metti una mano io ne metto cento. Questa frase mi disse. Basta che tu sia felice, non mi interessa altro. Mi riportò a casa e la fatica grande l’ha fatta lui, non io. È stato lui a sopportare che nessuno lo salutasse più, che gli amici suoi sparissero. La vergogna, il disonore. Lui a testa alta. Voleva solo il bene per me. È per questo che quando ho letto quel libro sulla mia storia, “Niente ci fu”, mi sono tanto arrabbiata. Non è quella la mia storia, per niente. Mio padre non era un padre padrone: era un uomo buono e generoso. Lo scriva ».
Lo scrivo. «Perché poi vede, il Signore mi ha dato una grazia grande: non ho mai avuto paura di nessuno. Non ho paura e non provo risentimento». Intende risentimento per chi la rapì? «Né per loro nè per nessun altro dopo. Sono stati molti altri i dolori della vita, ma di più sono state le gioie. Ho un marito meraviglioso. Nei giorni del processo e anche dopo mi arrivarono tante proposte di matrimonio, per lettera. Giuseppe però mi aveva aspettata. Io non volevo più maritarmi, dopo. Gli dicevo: sarà durissima per te. Ma lui mi ha detto non esistono altre donne per me, Franca. Esisti tu. Sono arrivati i figli, mio padre ha fatto in tempo a vederli e vedermi felice. Poi c’è stata la malattia di Sergio: temevo che morisse. Quando nel 2014 il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha voluto darmi il titolo di Grande ufficiale ho pensato ecco, una persona ora la conosco. E ho chiesto aiuto per curare Sergio. Ma non è servito a niente. Mi hanno dato il numero di un medico, dal Quirinale, poi questo medico non rispondeva e quando sono andata a Roma con mio figlio, ad agosto, mi hanno detto che era in ferie. Ho lasciato stare e ho fatto da sola. Un difetto si ce l’ho: l’orgoglio. Il Signore spero mi perdoni».
Il 9 gennaio Franca Viola compirà 69 anni. Nella sua vita ha visto abolire la norma del codice penale sul matrimonio riparatore. Ha visto nel 1996, solo 20 anni fa, la legge che fa dello stupro un reato contro la persona e non contro la morale. Si è vista riprodotta in foto, con grande incredulità, sui libri di scuola. «Il primo è stato Sergio. Era alle medie, mi ha detto: mamma sul mio libro c’è una tua foto da ragazza. Come mai? Gli ho raccontato. Un poco, certo, non tutto. Certe cose non si possono raccontare. Ma altre sì: che ciascuno è libero fino all’ultimo secondo, che tutto quello che dipende da te è nelle tue mani. Questo ho potuto spiegare ai miei figli e adesso a mia nipote. Sonia è una ragazzina del suo tempo. Vorrebbe fare l’attrice, mi fa sorridere: mi dice nonna, ma tu non conosci nessuno che mi possa insegnare a recitare? Le dico amore mio, impara da sola. Ciascuno si fa con le sue mani. I fatti grandi della vita, glielo ripeto sempre, mentre accadono sono fatti piccoli. Bisogna decidere quello che è giusto, non quello che conviene».

(Concita De Gregorio)

da La Repubblica del 27/12/2015.

Dopo Davide Astori e Fabrizio Frizzi, se ne va anche Emiliano Mondonico… Ma com’è che, con tutta la feccia che c’è sulla Terra, sono sempre le persone perbene che se ne vanno troppo presto?

 

Emiliano Mondonico

 

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Dopo Davide Astori e Fabrizio Frizzi, se ne va anche Emiliano Mondonico… Ma com’è che, con tutta la feccia che c’è sulla Terra, sono sempre le persone perbene che se ne vanno troppo presto?

 

Dopo Davide Astori e Fabrizio Frizzi, su cui in questi giorni le lodi (tutte più che giustificate) si sono sprecate se ne va ora Emiliano Mondonico. Un grande allenatore ed un grande uomo.

Ricordiamo solo che il “sogno” di Diego Armando Maradona era quello di essere allenato proprio da Mondonico…

Ma la nostra amara riflessione è un’altra…

Ci avete fatto caso come sono sempre le persone perbene che se ne vanno troppo presto?

Ripenso solo ai criminali nazisti morti ultranovantenni… E i politici? Com’è che di politici scomparsi prematuramente se ne ha solo qualche rarissima notizia?

Che il buon Dio non li voglia tra le palle è fuor di dubbio, ma…

È troppo chiedergli di lasciarci un po’ di più con noi esempi di onestà, professionalità, umanità come questi “ragazzi” che ci hanno appena lasciato?

In attesa di risposta salutiamo calorosamente Davide, Fabrizio e Emiliano… Persone perbene.

 

Profondo spessore umano, Emiliano Mondonico volle allenare i ragazzi rimasti senza contratto, per aiutarli a trovare una squadra. Guidò anche gli ex tossicodipendenti e gli ex alcolisti.

Aveva già lottato e vinto contro la malattia (la “bestia”, come la chiamava lui) quando decise di tornare ad allenare.

Lo fece con una squadra diversa dal solito, quella dei calciatori disoccupati dell’Equipe Lombardia. Siamo nell’estate del 2014 ed Emiliano Mondonico ha 67 anni. Guida i ragazzi senza contratto e, con la sua squadra improvvisata, affronta alcune amichevoli importanti, contro AlbinoLeffe, Monza, Como, Renate e Caronnese. L’obiettivo non è spaccare il mondo e vincere chissà quale campionato. Vuole dare una possibilità ai tanti calciatori, ancora fisicamente validi e pieni di speranze, rimasti senza squadra. Un gesto nobile quello di Mondonico, che in passato ha allenato fior di squadre (Atalanta, Torino, Napoli e Fiorentina).

In un’intervista al quotidiano il Giorno spiegò così la sua filofosia: “È diverso allenare una squadra per vincere e guidarla con l’obiettivo di metterla solo in mostra. Schiero i giocatori nel ruolo che li mette in maggior evidenza, indipendentemente dal gioco. Non conta il risultato, non si gioca per vincere, ma solo per fare bella figura”. E ancora: “Non è giusto che ragazzi così giovani smettano di sognare. Gli dico sempre di continuare a lottare, di diventare giudici del proprio destino. È un insegnamento per tutti. Anche per gli avversari che ci hanno affrontato sempre con tanto rispetto. Negli anni passati questa squadra è stata sottavalutata anche umanamente. Ora non è più così, ci hanno trattato con i guanti”.

Non è, questo, l’unico esempio di amore verso gli altri, quelli rimasti indietro, da parte di Mondonico. All’inizio di quest’anno aveva spiegato il suo nuovo progetto: usare il pallone come terapia contro le dipendenze. Si dedicava agli ex tosicodipendenti e agli ex alcolisti all’ospedale di Rivolta d’Adda, il suo paese natale. “Non si riesce a esprimere la soddisfazione che provo a seguire questi ragazzi – raccontò –. Ho messo a disposizione tutta la mia esperienza. Insegno le regole e a rispettarle, ma soprattutto a fare gruppo: non è fondamentale solo fare gol. Superare la solitudine e avere rispetto per sé, i compagni e gli avversari”.

Il rispetto, le regole (fondamentali da seguire), le difficoltà da superare insieme, l’avversario (non un nemico) da rispettare. Allenamenti due volte a settimana nel campo dell’oratorio. E organico che ruota ogni tot mesi, per dare spazio a più persone possibile. La lezione di Mondonico era fondamentalmente questa: dedicarsi a questi ragazzi con la stessa cura che aveva usato coi professionisti della serie A. Per Mondonico il calcio era soprattutto amore. Per la vita.

tratto da: http://www.ilgiornale.it/news/sport/mondonico-allen-anche-i-disoccupati-ex-drogati-e-alcolisti-1510327.html

L’umanità che finisce nei cassonetti

 

umanità

 

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L’umanità che finisce nei cassonetti

A scuola ci sono bambini che rimangono indietro, potremmo buttarli in un cassonetto, così, gli altri possono andare avanti. Oppure quelli con il buco nelle magliette e i pantaloni rotti. O quegli alunni a cui a mensa diamo doppia razione perché sappiamo che la sera non mangeranno.Potremmo buttare i vecchi, quelli che rendono la nostra società improduttiva. O i malati. Un peso per la società. O gli stranieri, tutti quanti, intanto sono rifiuti. E nessuno li vuole vedere in giro, mentre cercano cibo o vestiti. Disturbano le Signore e i Signori mentre portano a spasso il loro cane.

Potremmo buttare nel cassonetto, anche il corpo di Beauty, la madre nigeriana, che ha salvato suo figlio (leggi anche Beauty, il suo destino è il nostro di Andrea Segre). Anzi, buttiamo anche lui, intanto qui non c’è posto. Che poi, magari da grande, prova ad attraversare il confine, o si spiaggia a Ventimiglia e sono grane. Già che ci siamo potremmo buttare nei cassonetti tutti i disabili. Se non vincono medaglie, a cosa servono?

Un cassonetto per ogni disturbo. Ogni mancanza. Ogni cosa che ci turba, turba la nostra ricca normalità. Al Nord si potrebbero buttare nei cassonetti tutti quelli del Sud, i terroni. E quelli del Sud potrebbero buttare nei cassonetti quelli ancora più a Sud. Quelli sui barconi, ad esempio. Ah, no! Quelli li buttiamo già in mare. Comunque c’è sempre qualcuno che sta più a sud di qualche d’un altro. Il che mi tranquillizza.

I cassonetti sono una buona soluzione per la nostra società. Non so perché non ci abbiano pensato prima! Un’intuizione, gli altri comuni potrebbero prenderci a esempio, che a veder rovistare i poveri non se ne poteva davvero più.

Ora i cassonetti sono pieni, nessuno rovista, che se non la vediamo la povertà, possiamo pensare che non ci sia. Possiamo pensare che sia un problema che non ci tocchi. Lontano. Molto lontano.

Così come la disabilità e magari chiudere i consultori, intanto ci sono i cassonetti!

Il problema è che dentro ai cassonetti, insieme alla spazzatura e ai rifiuti, c’è finita l’unica cosa che ci rende persone, l’unica cosa che dovremmo difendere. La nostra umanità.

C’è un punto oltre il quale non possiamo andare. Oltre il quale non siamo più persone ma qualcos’altro.

A Genova c’è stata un ordinanza del sindaco che sanziona con una multa da duecento euro chi rovista nei cassonetti. La povertà non è un crimine. Io so da che parte voglio stare, spero lo sappiate anche voi.

 

di Penny*

* Insegnante e madre di due ragazze adolescenti. Sul sul suo blog sosdonne.com (dove questo articolo è apparso con il titolo completo Quando la povertà è dei bambini. Voi che parlate di meritocrazia, sciacquatevi la bocca) dice di scrivere “per necessità” e che la sua ragazza quindicenne fa i disegni (davvero belli, come quello di questo articolo). Ha autorizzato con piacere Comune a pubblicare i suoi articoli e ha aderito alla campagna Un mondo nuovo comincia da qui scrivendo:

Se c’è una libertà che abbiamo ancora, è quella di poter utilizzare le parole. Le parole sono potenti. Hanno la presunzione di cambiare le cose. Distruggere muri e creare ponti. Comunedona una possibilità alle parole, come quella di avvicinarsi alla verità, anche se scomoda. E lo fa nell’unico modo possibile, mettendo insieme e interrogandosi. Noi possiamo esserci. E farlo insieme in un progetto che unisce. Dicendo no a una società che divide. Penny

fonte: https://comune-info.net/2018/03/lumanita-finisce-nei-cassonetti/

Pierre Rabhi – L’uomo che sussurrava ai campi

Pierre Rabhi

 

 

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Pierre Rabhi – L’uomo che sussurrava ai campi

L’Ardèche è una delle regioni più povere della Francia, sul bordo orientale del Massiccio Centrale. Altopiani verdeggianti si alternano a gole rocciose, gli inverni sono rigidi e nevosi, i venti violenti, i suoli calcarei e aridi.

È qui che si è stabilito nel 1961 Pierre Rabhi, algerino, nato in un’oasi del Sahara ma cresciuto nella città di Orano. Immigrato a Parigi negli anni Cinquanta, dopo una breve esperienza in fabbrica durante la quale conosce la donna che sarà la sua compagna di vita, si trasferisce con lei a Montchamp, un luogo aspro e duro in cima alla montagna, senza acqua corrente né elettricità. Qui la coppia inizia ad allevare capre praticando la biodinamica e a partire dal ’68 attira altri giovani in fuga dal modello urbano e capitalista.

Pierre Rabhi, partendo dalla sua quotidiana esperienza di contadino, è diventato negli anni un maestro di vita e di spiritualità, ma – ciò che più conta – è stato l’inventore dell’agroecologia.

Secondo quanto lui stesso racconta, tutto inizia dalla presa d’atto che l’agricoltura biologicanon è sufficiente in contesti particolarmente difficili. Quando la terra manca di fertilità o è devastata dalla siccità, bisogna ristabilire l’equilibrio tra i vari elementi naturali piantando molti alberi, imparando a gestire e conservare l’acqua, usando tecniche diverse per riparare i danni subiti dall’ambiente.

È un metodo di coltivazione ma anche una chiave di lettura; applica i principi ecologici alla produzione di alimenti, capovolge il sistema dell’agrobusiness, si prende cura delle risorse naturali e valorizza la biodiversità: ci offre delle buone pratiche.

Il suo valore aggiunto è l’aspetto politico, il fatto che si pone l’obiettivo di sfamare i poveri e si basa sulle conoscenze di chi lavora i campi, di chi con il 20 per cento dei terreni produce l’89 per cento del cibo che mangiamo. Quando, qualche anno fa, ho incontrato Pierre Rabhi, c’è stata un’immediata intesa sulla necessità di restituire la giusta dignità ai contadini e sul ruolo che l’agroecologia può avere nel promuovere una loro presa di coscienza.

Pierre si autodefiniva un agroecologo perché questo termine mette fine a tutte le questioni riguardo a chi è certificato “biologico” e chi no: «L’agroecologia non deve rispondere a nessuna regola predefinita. Quello che importa è cosa è utile all’equilibrio ecologico e a un’agricoltura realmente sostenibile» mi disse. «Ovviamente si tratta di pratiche biologiche o biodinamiche, ma queste definizioni diventano etichette poco importanti rispetto al risultato: produrre cibo sano e preservare le risorse naturali».

Rabhi, che compie quest’anno 80 anni, ha dedicato la vita alla diffusione della sua concreta filosofia: ha insegnato presso il Centre d’étude et de formation rurales appliquées (Cefra) e ha portato la sua esperienza anche in Burkina Faso, Camerun, Mali, Niger, Senegal, Tunisia.

È riconosciuto quale esperto internazionale per la sicurezza alimentare e la lotta alla desertificazione, definita come tutto ciò che minaccia l’integrità e la vitalità della biosfera, e le sue conseguenze per gli esseri umani: in questa veste, è protagonista di programmi su scala mondiale e sotto l’egida delle Nazioni Unite.

Ha scritto numerosi libri e fondato l’associazione Terre & Humanisme, per diffondere la sua interpretazione spirituale del coltivare: «Posso spiegarvi come fare affinché la terra riesca a creare energia per la vita, ma non il perché ci riesce. C’è un momento in cui la razionalità non può più darci risposte. La razionalità ha un limite, l’orto è un universo illimitato».

 

Carlo Petrini

da La Repubblica del 15 marzo 2018

 

Lele Joker, un piccolo eroe sorridente, nonostante tutto – La storia del piccolo youtuber italiano gravemente ammalato che sta conquistando il web con la sua semplicità i suoi sorrisi e la sua forza.

 

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Lele Joker, un piccolo eroe sorridente, nonostante tutto – La storia del piccolo youtuber italiano gravemente ammalato che sta conquistando il web con la sua semplicità i suoi sorrisi e la sua forza.

La storia dello youtuber Lele Joker, un piccolo eroe

Lele Joker è lo youtuber di 9 anni affetto da neuroblastoma che sta conquistando il web con la sua semplicità e la forza dei suoi video

Un nome d’arte molto particolare – Lele Joker – e una simpatia che ha conquistato il web. Gabriele ha 9 anni, vive a Milano e nella vita sogna di diventare uno youtuber famoso.

Sino a qui niente di strano, se non fosse che questo bambino dagli occhi grandi e dal sorriso contagioso, è affetto da neuroblastoma, un tumore che colpisce il sistema nervoso.

Nonostante le continue cure, le corse in ospedale e il dolore, Gabriele non ha mai perso la sua positività, la stessa che trasmette nei suoi video pubblicati su Youtube. In meno di un mese Lele Joker ha conquistato i social e il suo canale ha raccolto oltre 6 mila iscritti.

I fan apprezzano il modo di raccontare la vita quotidiana di questo bambino di 9 anni, la sua semplicità e come faccia apparire ogni cosa speciale. Nelle clip, spesso girate in un letto d’ospedale, Lele Joker parla del cibo (è un appassionato di patatine fritte!), di ciò che ama fare e d’amore, raccogliendo tantissimi Like.

In poco tempo Lele Joker è diventato un life coach per moltissime persone. “Ragazzi, inseguite i vostri sogni – spiega in un video che ha ottenuto una pioggia di Like -, io ad esempio da grande voglio fare il dottore e questo farò, mi laureerò perché voglio aiutare le persone a stare meglio, inseguite i vostri sogni perché vi fa bene, stimola il vostro cervello”.

Ascoltandolo non sembra di essere di fronte ad un bambino di 9 anni, che sta combattendo una difficile battaglia contro la malattia. Le sue riflessioni infatti sanno essere spensierate, ma anche molto profonde: “Per i bambini l’amore è quando una persona ne bacia un’altra e baciandosi fanno un figlio” spiega.

Poi si confida con i follower, confessando: “Ho alcune cose che mi rendono triste. Io non ho una vita normale, ho tante cose a cui pensare, ma vi prego: non scrivetemi cose brutte, siete le mia forza”. Un appello che è stato accolto da tante persone che continuano a seguire e ad apprezzare Lele Joker, ma soprattutto a fargli forza nel lungo percorso di guarigione che l’attende.