Pierre Rabhi – L’uomo che sussurrava ai campi

Pierre Rabhi

 

 

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Pierre Rabhi – L’uomo che sussurrava ai campi

L’Ardèche è una delle regioni più povere della Francia, sul bordo orientale del Massiccio Centrale. Altopiani verdeggianti si alternano a gole rocciose, gli inverni sono rigidi e nevosi, i venti violenti, i suoli calcarei e aridi.

È qui che si è stabilito nel 1961 Pierre Rabhi, algerino, nato in un’oasi del Sahara ma cresciuto nella città di Orano. Immigrato a Parigi negli anni Cinquanta, dopo una breve esperienza in fabbrica durante la quale conosce la donna che sarà la sua compagna di vita, si trasferisce con lei a Montchamp, un luogo aspro e duro in cima alla montagna, senza acqua corrente né elettricità. Qui la coppia inizia ad allevare capre praticando la biodinamica e a partire dal ’68 attira altri giovani in fuga dal modello urbano e capitalista.

Pierre Rabhi, partendo dalla sua quotidiana esperienza di contadino, è diventato negli anni un maestro di vita e di spiritualità, ma – ciò che più conta – è stato l’inventore dell’agroecologia.

Secondo quanto lui stesso racconta, tutto inizia dalla presa d’atto che l’agricoltura biologicanon è sufficiente in contesti particolarmente difficili. Quando la terra manca di fertilità o è devastata dalla siccità, bisogna ristabilire l’equilibrio tra i vari elementi naturali piantando molti alberi, imparando a gestire e conservare l’acqua, usando tecniche diverse per riparare i danni subiti dall’ambiente.

È un metodo di coltivazione ma anche una chiave di lettura; applica i principi ecologici alla produzione di alimenti, capovolge il sistema dell’agrobusiness, si prende cura delle risorse naturali e valorizza la biodiversità: ci offre delle buone pratiche.

Il suo valore aggiunto è l’aspetto politico, il fatto che si pone l’obiettivo di sfamare i poveri e si basa sulle conoscenze di chi lavora i campi, di chi con il 20 per cento dei terreni produce l’89 per cento del cibo che mangiamo. Quando, qualche anno fa, ho incontrato Pierre Rabhi, c’è stata un’immediata intesa sulla necessità di restituire la giusta dignità ai contadini e sul ruolo che l’agroecologia può avere nel promuovere una loro presa di coscienza.

Pierre si autodefiniva un agroecologo perché questo termine mette fine a tutte le questioni riguardo a chi è certificato “biologico” e chi no: «L’agroecologia non deve rispondere a nessuna regola predefinita. Quello che importa è cosa è utile all’equilibrio ecologico e a un’agricoltura realmente sostenibile» mi disse. «Ovviamente si tratta di pratiche biologiche o biodinamiche, ma queste definizioni diventano etichette poco importanti rispetto al risultato: produrre cibo sano e preservare le risorse naturali».

Rabhi, che compie quest’anno 80 anni, ha dedicato la vita alla diffusione della sua concreta filosofia: ha insegnato presso il Centre d’étude et de formation rurales appliquées (Cefra) e ha portato la sua esperienza anche in Burkina Faso, Camerun, Mali, Niger, Senegal, Tunisia.

È riconosciuto quale esperto internazionale per la sicurezza alimentare e la lotta alla desertificazione, definita come tutto ciò che minaccia l’integrità e la vitalità della biosfera, e le sue conseguenze per gli esseri umani: in questa veste, è protagonista di programmi su scala mondiale e sotto l’egida delle Nazioni Unite.

Ha scritto numerosi libri e fondato l’associazione Terre & Humanisme, per diffondere la sua interpretazione spirituale del coltivare: «Posso spiegarvi come fare affinché la terra riesca a creare energia per la vita, ma non il perché ci riesce. C’è un momento in cui la razionalità non può più darci risposte. La razionalità ha un limite, l’orto è un universo illimitato».

 

Carlo Petrini

da La Repubblica del 15 marzo 2018

 

La rivincita della Cannabis – Nei campi confiscati alla camorra oggi cresce la canapa!

 

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La rivincita della Cannabis – Nei campi confiscati alla camorra oggi cresce la canapa!

Nei campi confiscati alla camorra oggi cresce la canapa.

La pianta dalle mille virtù si prende la sua ennesima doppia rivincita: oltre a crescere rigogliosa dal nord al sud del Paese, lo fa come testimonianza di legalità in una terra martoriata dalla camorra, portando sostenibilità e natura dove prima comandava la violenza. È un progetto nato da Campanapa, cooperativa nata 2 anni fa dall’unione di diverse aziende agricole che avevano già una lunga esperienza nel settore e che ha associato anche operatori nel settore sociale che si occupano del recupero dei beni confiscati alla camorra. I campi confiscati a Casal di Principe e Santa Maria la Fossa sono stati affidati alla Cooperativa femminile “Nuova Terra Verde” e all’associazione “Nero e non solo”, dopo il progetto “La Terra dei cuori”, un crowdfunding portato avanti da giovani campani che vivono in Inghilterra attraverso una campagna di sensibilizzazione sul tema della Terra dei Fuochi. Qui la canapa, oltre a creare reddito in una regione votata alla sua coltivazione per tradizione, può essere utile per bonificare i terreni inquinati grazie alle sue proprietà fitodepurative. Di questo la cooperativa ne ha parlato lo scorso marzo al Parlamento europeo direttamente a Bruxelles dove hanno preso la parola alla conferenza The Multiple Uses Of Hemp.

«La questione ambientale e quella della terra dei fuochi per noi è molto importante», ci ha raccontato il presidente di Campanapa, Francesco Pedicini, «soprattutto per chi come i nostri associati e agricoltori del casertano, vivono quotidianamente sulle proprie teste».

Intanto la cooperativa su un potenziale di 1000 ettari, sta coltivando canapa in modo sperimentale su circa 50 ettari. Oltre alla sperimentazione agronomica portata avanti nel tempo, è stato chiuso un protocollo di intesa con ANCE (Associazione nazionale costruttori edili) insieme alle università di Benevento e Napoli per sviluppare dei prodotti per il settore. Un altro progetto avviato riguarda il tessile: il problema riscontrato è la trasformazione e stiamo avviando una progettazione per creare impianti innovativi.

L’idea è quella di capire quali varietà si adattino meglio ai diversi scopi, prima di avviare una produzione vera e propria. L’obiettivo infatti è quello di aumentare gli introiti delle aziende agricole con la coltivazione della canapa, dalla cui pianta è possibile ricavare centinaia di prodotti «con una redditività» calcola Pedicini «simile a quei 7-8.000 euro che gli agricoltori ricavavano dal tabacco».

«Il nostro», continua Pedicini, «è un obiettivo politico chiaro: sulla scorta dell’esperienze quarantennali di aziende in Italia, non vorremmo fare la fine dei produttori di tabacco in Campania o di quelli delle arance in Sicilia e così via. Politicamente c’è l’interesse di creare sovrastrutture come i consorzi agrari o le aziende che intercettano gli investitori e che organizzano la vendita e la commercializzazione del prodotto e che governino il settore, ma noi siamo contro questa ideologia. Dalla produzione alla commercializzazione non ci devono essere intermediari, così evitiamo la possibilità che tra 10 anni ci vengano a dire che sarà conveniente andare a prendere le paglie in Africa piuttosto che in Cina, come accade in tutti i settori».

L’obiettivo è dunque quello di chiudere le varie filiere e vedere il prodotto finito. «La nostra idea è quella di avere il prodotto agricolo e quindi paglie, semi e infiorescenze, realizzare i prodotti finiti e venderli direttamente. Altrimenti non conviene produrre il solo prodotto agricolo e poi non nasciamo come conferitori. Noi abbiamo alle spalle 40 anni di storia nella coltivazione del tabacco in Campania e lo Stato ha investito migliaia di miliardi, sotto monopolio, per un settore che è finito in 3 mesi perché tutta la filiera era basata su un monocliente che era Philip Morris. Il giorno che la multinazionale ha smesso di produrlo qui, è finita la coltivazione del tabacco. Tutte le aziende che avevano investito in tecnologie, macchinari e macchine operatrici, magari con mutui ventennali, con chi se la vanno a prendere? Ho paura che con la canapa possa succedere la stessa cosa».

Leggi l’intervista integrale su www.canapaindustriale.it