La dolorosa storia del vero Dumbo, che dovresti conoscere prima di vedere il film

 

Dumbo

 

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La dolorosa storia del vero Dumbo, che dovresti conoscere prima di vedere il film

Ha debuttato al cinema il film Dumbo, la nuova attesa versione on live-action di Tim Burton. Ma in pochi sanno realmente che l’elefantino triste è realmente esistito. Tuttavia la sua storia non ha alcun lieto fine.

Il suo vero nome era Jumbo e nacque nel 1860 in Sudan. Dopo la morte della mamma, uccisa dai cacciatori, il piccolo venne catturato da un altro cacciatore di elefanti sudanese, Taher Sheriff. Fu poi venduto a Lorenzo Casanova, commerciante ed esploratore di animali italiano.

Noto anche come Jumbo the Elephant e Jumbo the Circus Elephant, fu un elefante africano strappato alla sua terra natale e portato a Jardin des Plantes, uno zoo a Parigi, per poi essere trasferito nel 1865 allo zoo di Londra, in Inghilterra.

Qui il povero elefante subì la rottura di entrambe le zanne schiantandosi contro la pietra del suo recinto. I suoi viaggi non finirono qui. Dopo essere stato portato dall’Africa all’Europa, nonostante le numerose proteste, Jumbo fu venduto al circo Barnum & Bailey. Anche allora la sua storia, quella vera, toccò i cuori di tutti: 100.000 bambini scrissero alla regina Vittoria implorandola di non vendere l’elefante ma il povero animale fu portato comunque negli Stati Uniti. A New York, Barnum espose Jumbo al Madison Square Garden sponsorizzando l’evento come “Jumbo, l’animale più grande del mondo” e guadagnando abbastanza in tre settimane da recuperare i soldi spesi per comprarlo.

Jumbo, il povero elefante ‘pazzo’

Purtroppo, l’animale è tristemente noto anche come l’elefante pazzo. Se di giorno era l’immagine vivente della gentilezza e trasportava in groppa anche i bambini, di notte Jumbo aveva esplosioni di violenza e distruggeva l’area in cui veniva rinchiuso per dormire.

La spiegazione di Bartlett, direttore dello zoo, era alquanto discutibile. Jumbo stava raggiungendo i 20 anni, la colpa era dei suoi ormoni. Il suo custode era Matthew Scott, che per calmare l’animale spesso gli dava del whisky. Lo stesso Scott ne raccontò la storia nella sua autobiografia.

Il trucco funzionava perché l’elefante si ubriacava. Oggi sappiamo che gli attacchi di rabbia erano causati dall’assunzione costante di dolci, così dannosi e lontani rispetto alla dieta che avrebbe dovuto seguire. Fu questa la conclusione raggiunta da Richard Thomas, archeologo dell’Università di Leicester nel Regno Unito, dopo aver esaminato i resti di Jumbo in occasione del documentario della BBC “Attenborugh and The Giant Elephant”.

L’analisi dello scheletro da parte degli archeologi inglesi ha stabilito che “Jumbo” aveva “ferite che dovevano essere molto dolorose, probabilmente causate dall’onere di trasportare migliaia di visitatori”

Thomas ha anche scoperto che, oltre ai denti, altre parti del suo corpo avevano caratteristiche insolite, in particolare le articolazioni. Jumbo a 20 anni aveva in realtà lo scheletro di un elefante di 50.

La sua altezza fino alla spalla era di circa 3,23 metri al momento della sua morte, anche se Barnum sosteneva fosse di 4 m. Era una mezza verità. Jumbo aveva, sicuramente, una grande taglia per la sua età, superiore ai tre metri, quando la maggior parte dei suoi simili erano alti 2,70 m. Probabilmente se non fosse morto giovane avrebbe raggiunto quell’altezza.

La sua tragica morte

La sua morte, come la sua vita, fu triste. Era il 1885. Il circo aveva finito lo spettacolo a Saint Thomas, una città canadese. Gli animali erano già nelle loro gabbie, pronti a partire. Qui esistono due versioni. La prima sostiene che all’appello mancavano solo Jumbo e un cucciolo di elefante. Improvvisamente, una locomotiva apparve in direzione del piccolo. Jumbo cerco di proteggerlo col suo corpo e morì all’istante. La seconda racconta che mentre Jumbo saliva sul treno, un’altra locomotiva che veniva nella direzione opposta la spinse in avanti, ferendo l’animale e causandogli un’emorragia interna che lo avrebbe portato alla morte a soli 24 anni.

Una storia davvero molto triste, priva del lieto fine della versione prodotta da Walt Disney.

fonte: https://www.greenme.it/informarsi/animali/31044-jumbo-dumbo-vera-storia

29 marzo 1946 – Viene presentata a Roma la prima Vespa – Un mito che ha accompagnato la nostra vita e che rappresenta il genio Italiano da oltre 70 anni

 

 

Vespa

 

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29 marzo 1946 – Viene presentata a Roma la prima Vespa – Un mito che ha accompagnato la nostra vita e che rappresenta il genio Italiano da oltre 70 anni

Fondata a Genova nel 1884 da Rinaldo Piaggio, che all’epoca aveva appena venti anni, la società Piaggio si dedicò all’inizio alla costruzione di arredamenti navali.

In seguito l’attività dell’azienda venne estese anche alla costruzione di carrozze e vagoni ferroviari, motori, tram e carrozzerie speciali per autocarri. Intanto, con la prima guerra mondiale, la Piaggio fece il suo ingresso nel settore aeronautico, nel quale opererà per diversi decenni.

Negli anni appena precedenti la seconda guerra mondiale, e anche durante il conflitto, Piaggio è stato uno dei maggiori produttori italiani di aerei e proprio per questo gli stabilimenti di Genova, Finale Ligure e Pontedera, diventano bersaglio delle forze alleate ed escono distrutti dalla II guerra mondiale.

I figli di Rinaldo Piaggio, Enrico e Armando, nell’immediato dopoguerra curarono il nuovo avvio della produzione industriale. Enrico, ebbe il compito di ricostruire il grande stabilimento di Pontedera, anche recuperando parte dei macchinari che intanto erano stati trasferiti a Biella.

Enrico, dal canto suo, puntò ad una totale riconversione industriale, puntando sulla mobilità individuale di un Paese che usciva dalla guerra. Avrebbe realizzato la sua intuizione, creando allo stesso tempo un veicolo destinato a grandissima celebrità, grazie allo straordinario lavoro progettuale di Corradino D’Ascanio (1891-1981), ingegnere aeronautico e geniale inventore.

La Vespa nasce così dalla volontà di Enrico Piaggio di creare un prodotto a basso costo e di largo consumo, idea già elaborata negli ultimi anni di guerra. E fu nello stabilimento di Biella che venne realizzato un “motorscooter” sul modello delle piccole motociclette per paracadutisti.

Il prototipo, siglato MP 5, venne battezzato “Paperino” per la sua strana forma: ma non piacque ad Enrico, che incaricò Corradino D’Ascanio di rivedere il progetto. Il progettista aeronautico non amava però. Secondo lui era scomoda, ingombrante, con gomme troppo difficili da cambiare in caso di foratura; e inoltre, a causa della catena di trasmissione, sporcava. E dunque cerò di rimediare a tutti questi inconvenienti, riuscendovi proprio grazie alla sua esperienza aeronautica.

Per eliminare la catena immaginò un mezzo con scocca portante, a presa diretta; per rendere la guida più agevole pensò di posizionare il cambio sul manubrio; per facilitare la sostituzione delle ruote escogitò non una forcella ma un braccio di supporto simile appunto ai carrelli degli aerei.

E infine ideò una carrozzeria capace di proteggere il guidatore, di impedirgli di sporcarsi o scomporsi nell’abbigliamento: decenni prima della diffusione degli studi ergonomici, la posizione di guida di Vespa era pensata per stare comodamente e sicuramente seduti, anziché pericolosamente in bilico su una motocicletta a ruote alte. Una vera e propria rivoluzione, dunque. Si trattava di un mezzo pratico e maneggevole, oltre che divertente e adatto a tutti. Persino alle donne.

Dal nuovo progetto di D’Ascanio nacque un mezzo che con il “Paperino” non aveva più nulla a che vedere: una soluzione assolutamente originale e rivoluzionaria rispetto a tutti gli altri esempi di locomozione motorizzata a due ruote. Con l’aiuto di Mario D’Este, disegnatore, a Corradino D’Ascanio bastarono pochi giorni per mettere a punto la sua idea e preparare il primo progetto della Vespa, prodotto a Pontedera nell’aprile del 1946.

Il nome del veicolo fu pensato dallo stesso Enrico Piaggio che davanti al prototipo MP 6, dalla parte centrale molto ampia per accogliere il guidatore e dalla “vita” stretta, esclamò: «Sembra una vespa!». E il resto, come tutti ben sappiamo, è storia. Con una veicolo che ha segnato un’epoca ed è diventato uno dei simboli dell’Italia nel mondo.

fonte: https://www.ilmemoriale.it/cultura/2017/12/09/viene-presentata-a-roma-la-prima-vespa.html

Marlon Brando, quell’Oscar rifiutato per protesta contro lo sterminio degli Indiani d’America

 

Indiani d'America

 

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Marlon Brando, quell’Oscar rifiutato per protesta contro lo sterminio degli Indiani d’America

Brando, quell’Oscar rifiutato contro lo sterminio degli Indiani d’America

Era il marzo del 1973. L’attore non ritirò mai l’Oscar per Il Padrino . Al suo posto mandò una giovane Apache, Sacheen Littlefeather. E scrisse una lettera che è ancora un atto d’accusa contro il potere.

Los Angeles, California. Era la notte del 5 marzo del 1973. Due gli ospiti d’onore che aspettano gli Oscar per farne incetta: Bob Fosse con Cabaret e Francis Ford Coppola con Il Padrino, una ventina di nomination in due. Fanno fuori tutte le portate principali, fra cui quelle di miglior attore e di miglior attrice. Le statuette vanno a Marlon Brando e Liza Minnelli. Ma Brando che è al secondo Oscar, dopo Fronte del Porto, boicotta lo show.

Liv Ullman e Roger Moore, che presentavano la serata, lo chiamano sul palco. Al posto dell’attore si presenta una ragazza. E’ Sacheen Littlefeather, vestita da vera Apache, che spiega con fermezza le obiezioni dell’attore contro l’immagine che la tv e il cinema hanno dato degli Indiani d’America nel corso degli anni. Fischi, urla.

Sacheen però non molla. Dice: “Sono una Apache e sono la presidente del National Native American Affirmative Image Committee (comitato degli affari degli Indiani d’America). Stasera rappresento Brando e mi ha detto di dirvi, in un discorso molto lungo che non posso condividere con voi attualmente, per motivi di tempo, ma che sarò lieta di condividere con la stampa più tardi, che non può accettare questo generoso premio a causa del trattamento oggi riservato agli indiani d’America nell’industria del cinema”.

Quella lettera era  e rimane un atto d’accusa pesantissimo nei confronti del governo a Stelle e Strisce. Ed è a tutt’oggi un gesto di ribellione valido in tutti i casi in cui il potere schiaccia le minoranze. Brando scriveva: “Per duecento anni abbiamo detto agli Indiani, che si battevano per la loro terra, le loro famiglie e il loro diritto di essere liberi: ‘deponete le armi, amici, e vivremo insieme’; quando loro hanno deposto le armi, li abbiamo uccisi. Abbiamo mentito, li abbiamo privati delle loro terre. Li abbiamo costretti a firmare accordi fraudolenti, che abbiamo chiamato ‘trattati’, e che non abbiamo mai mantenuto. Li abbiamo trasformati in mendicanti in un continente che ha dato loro la vita (…). Quando i bambini indiani guardano la televisione, e guardano i film, e quando vedono la loro razza raffigurata come è nei film, le loro menti si feriscono in modi che non possiamo immaginare”.
Marlon Brando concluse quella lettera potente con una frase che dovrebbe essere mandata a memoria ovunque i diritti vengano schiacciati, ovunque la vita venga trattata come un imprevisto, ovunque l’umanità sia presa a calci dal potere: “Se non siamo l’angelo custode di nostro fratello, almeno lasciateci non essere il suo carnefice.”
Nel 1979 in Pocahontas, una canzone a sostegno degli indiani d’America, contenuta nell’album Rust Never Sleeps, il musicista canadese Neil Young omaggiò il gesto di Brando. La canzone recita più o meno così:  “Vorrei essere un cacciatore. Darei mille pelli per passare una notte con Pocahontas. E scoprire e come si sentì al mattino nelle verdi pianure. Nella terra natia che non abbiamo mai visto. E forse Marlon Brando
sarà li accanto al fuoco. Ci siederemo e parleremo di Hollywood. Marlon Brando, Pocahontas e io…”
Lasciateci non essere i carnefici delle nostre sorelle, dei nostri fratelli. Da qualche parte Pocahontas, ieri come oggi, sta sorridendo sotto il poster di The Godfather. 

 

tratto da: http://www.globalist.it/cinema/articolo/2018/03/27/brando-quell-oscar-rifiutato-contro-lo-sterminio-degli-indiani-d-america-2021682.html

Perché tutti stanno stanno indossando un giubbotto di salvataggio: cosa è Orange Vest

 

Orange Vest

 

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Perché tutti stanno stanno indossando un giubbotto di salvataggio: cosa è Orange Vest

In rete sono state diffuse da diversi profili immagini di persone che indossano giubbotti salvagente arancioni. Ma di cosa si tratta? Il movimento si chiama ‘Orange Vest’, e il logo è appunto un classico giubbotto da salvataggio con un cuore al centro. La prima campagna di comunicazione del movimento nato un mese fa è quella a sostegno della piattaforma umanitaria ‘Mediterranea’.

Sui social network, sono comparse, come foto profilo di diversi utenti, immagini di persone che indossano giubbotti salvagente arancioni. Ma di cosa si tratta? Il movimento si chiama ‘Orange Vest’, e il logo è appunto un classico giubbotto da salvataggio con un cuore al centro: si tratta di un progetto apartitico, senza leader e senza scopro di lucro, a cui hanno già aderito oltre 200 persone ‘comuni’ oltre a diversi personaggi famosi, uniti dall’idea di protestare in modo pacifico contro l’odio, l’intolleranza, il razzismo e l’indifferenza, sentimenti che oggi più che mai sono sentiti come una minaccia per i valori su cui si regge la nostra società. Un movimento nato tra Hong Kong (Michele Salati), Los Angeles (Simone Nobili), Barcellona (Fabiana Cumia) e Roma (Ernesto Faraco), che non si è  prefissato come obiettivo quello di risolvere i problemi che riguardano la convivenza tra i popoli, o quello di trovare soluzioni definitive per gestire i flussi migratori: Orange Vest è aperto a gente che vuole comunque difendere il principio del rispetto della vita umana e dell’accoglienza.

Quella a sostegno della piattaforma delle associazioni ‘Mediterranea’, che, lo ricordiamo, non è una ong, è solo la prima campagna di comunicazione lanciata. In cosa consiste? Per dichiarare il proprio appoggio alla nave italiana di ‘Mediterranea Saving Humans‘, cioè il rimorchiatore ‘Mare Jonio‘ posto sotto sequestro dalla Procura di Agrigento non più tardi di due giorni fa, gli attivisti di Orange Vest hanno indossato il giubbotto arancione, e si sono fatti immortalare così. L’equipaggio e il comandante di Mare Jonio sono stati accusati dal ministro degli Interni Matteo Salvini di non aver rispettato la legge, per aver portato a Lampedusa 49 migranti recuperati in mare, dopo averli salvati da morte certa.

La finalità dell’iniziativa di sensibiliazzazione è quella di raccogliere fondi per permettere alla nave italiana dei volontari di operare in mare, documentando quando avviene nel Mediterraneo, dove secondo l’Oim, dall’inizio del 2018sono morte 1.104 migranti. Bisogna tenere presente che questo è un numero 4 volte superiore a quello delle morti in mare nella rotta verso la Spagna, dove nello stesso periodo sono annegate 254 persone. Ma il numero degli arrivi in Italia e Spagna è pressoché identico.

Per manifestare il proprio dissenso si può anche ricorrere alla applicazione di realtà virtuale, che è stata creata ad hoc, sviluppata su Facebook da Andrea Pinchi e Gabriele Gallo, disponibile a questo link: un filtro in ‘Augmented Reality’, che consente di indossare ‘virtualmente’ il giubbotto e scattare così una foto da condividere sui social. A quel punto basta aggiungere l’hashtag ‘#OrangeVest’ e un messaggio. Poi le immagini saranno raccolte e diffuse sulle pagine ufficiali del movimento su Facebook, Twitter e Instagram. I promotori dell’iniziativa lo chiamano il “dress code per tutti quelli che vogliono lacerare la corazza dell’indifferenza e dell’ostilità e vogliono ricordare a tutti i migranti che sono le nostre sorelle, i nostri fratelli, i nostri figli”.

Fanpage.it ha contattato uno degli organizzatori della campagna di comunicazione, Ernesto Faraco: “Abbiamo lavorato esclusivamente tramite WhatsUp e i canali social. Abbiamo preso spunto dall’iniziativa di protesta di Hong Kong, quando, era l’ottobre del 2014, i pacifisti, per lo più universitari che occuparono le piazze della metropoli per più di 80 giorni, chiedevano libere elezioni. Come segno distintivo avevano gli ombrelli apert, sia per proteggersi dal sole, sia per proteggersi dai lacrimogeni della polizia. Ecco idealmente ci siamo ispirati a loro”.

Chi sono gli ambasciatori di Orange Vest
La protesta sui social è stata salutata con entusiasmo da artisti come Valeria Solarino, Corrado Fortuna, Lella Costa, Moni Ovadia, Caterina Guzzanti, le Iene Gaetano Pecoraro e Roberta Rei, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, Cecilia Strada e giornalisti come Vauro, Sandro Ruotolo, Lirio Abbate e Alessandro Gilioli.

Fonte: https://www.fanpage.it/perche-tutti-stanno-stanno-indossando-un-giubbotto-di-salvataggio-cosa-e-organge-vest/

Buon compleanno Alda – Oggi 21 marzo nasceva Alda Merini, poetessa d’amore e di follia, i veri ingredienti della vita.

 

Alda Merini

 

 

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Buon compleanno Alda – Oggi 21 marzo nasceva Alda Merini, poetessa d’amore e di follia, i veri ingredienti della vita.

Alda Merini è stata una delle più importanti scrittrici italiane del Novecento. Nasce il 21 marzo 1931 a Milano, città che l’ha ospitata sino alla morte, avvenuta il 1° novembre 2009.

Alda Giuseppina Angela Merini passa l’infanzia in viale Papiniano, dove si trova la casa dei suoi genitori: padre dipendente presso un’agenzia assicurativa, madre casalinga e due fratelli. Le condizioni economiche in cui la futura poetessa cresce sono modeste, la famiglia umile. Di questi primi anni non si sa molto, se non quel poco che la stessa Merini ha raccontato: ama suonare il pianoforte, ma soprattutto lo studio, che da sempre ha rappresentato un aspetto essenziale della sua vita. Brava e ambiziosa studentessa tenta di accedere al Liceo Manzoni – istituto storico di Milano -, inutilmente in quanto non supera il test di italiano. Lei, una delle più grandi penne della letteratura italiana novecentesca, valutata insufficiente proprio in questa prova! Ben presto verrà però risarcita da tale delusione: grazie ad una professoressa delle medie, che aveva colto la scintilla della Merini, conosce Giacinto Spagnoletti, che le fa da mentore mentre lei muove i primi passi nel mondo della letteratura.

All’età di sedici anni, però, un’ombra nera si fa strada nell’esistenza della Merini: nel 1947 è ricoverata in una clinica milanese, dove le viene diagnosticato un disturbo bipolare. Da questo momento in poi la vita della poetessa sarà scandita periodicamente dalla permanenza in centri e ospedali psichiatrici.

Ero matta in mezzo ai matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti. Sono nate lì le mie più belle amicizie. I matti son simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita.

Dopo la reclusione del ’47 si apre però un momento di serenità e felicità per la scrittrice: la Merini ottiene le sue prime pubblicazioni e si sposa con Ettore Carniti, proprietario e gestore di alcune panetterie milanesi. L’amore con quest’uomo è stato totalizzante, entusiasmante, sofferto e a tratti penoso. Le quattro figlie da lui avute (Emanuela, Flavia, Simona, Barbara) raccontano di quanto la madre si disperasse per il marito, che viene descritto come un uomo semplice, indefesso lavoratore, ma con il vizio dell’alcol. Da ubriaco lui la picchiava. E lei stava male. Soffriva, soffriva profondamente non tanto per le ferite reali quanto più per vedere infranta una volta di più la speranza che lui cambiasse. Nonostante tutto, Carniti è stato il grande amore della Merini, che gli ha dedicato alcune delle parole più dolci della sua produzione, come quelle della poesia Ieri sera era amore (a Ettore):

Ieri sera era amore,
io e te nella vita
fuggitivi e fuggiaschi
con un bacio e una bocca
come in un quadro astratto:
io e te innamorati
stupendamente accanto.
Io ti ho gemmato e l’ho detto:
ma questa mia emozione
si è spenta nelle parole.

È stato proprio Carniti a fare internare nuovamente la moglie nel 1961: la Merini, come ha raccontato lei stessa, sotto stress per il molto lavoro e per le condizioni economiche precarie, ha dato «in escandescenze». La scrittrice è così costretta a scontrarsi nuovamente con la terribile esperienza della psichiatria, che riporta in alcuni suoi scritti, fra cui La Terra Santa L’altra verità. Diario di una diversa.  Le considerazioni che la poetessa milanese fa sulla permanenza al Paolo Pini confermano l’immagine comune del manicomio come teatro degli orrori. L’ospedale viene descritto dalla Merini come un labirinto da cui avrebbe fatto fatica ad uscire, e ancora come «un’istituzione falsa, una di quelle istituzioni che, altro non servono che a scaricare gli istinti sadici dell’uomo». Nel momento in cui vi mette piede, la scrittrice sente di impazzire per davvero. Quel luogo è vera follia. La mancanza di libertà, l’impossibilità di autodeterminarsi, l’essere privata dei propri affetti, l’allontanamento dal mondo “reale”.

Dai miei visceri partì un urlo lancinante, un’ invocazione spasmodica diretta ai miei figli e mi misi a urlare e a calciare con tutta la forza che avevo dentro, con il risultato che fui legata e martellata di iniezioni calmanti. 

Ma può essere davvero questa la “soluzione” ad un male così oscuro, che silenziosamente si impossessa della mente e la offusca? Il totale allontanamento dalla vita, l’elettroshock, terapie farmacologiche aggressive possono realmente giovare a chi di contatto con il mondo ha forse più bisogno di chiunque altro?

Ciò che è certo è che la Merini, con la sua estrema sensibilità e con un’audacia senza paragoni, non si è lasciata intimorire da questa esperienza claustrofobica ed estraniante. Il mostro della malattia, sempre incombente, non le ha impedito di amare la vita e le gioie che essa le ha regalato. Anzi, trasformare questo male da una condizione limitante ad uno “stato di grazia”, che le ha garantito uno sguardo diverso e più profondo sul mondo, è forse la prima testimonianza del coraggio e della grandezza di questa mente immensa. 

di Francesca De Fanis per MIfacciodiCultura

Non tutti sanno che Pietro Mennea detiene un record mondiale che resiste da 36 anni. Ancora imbattuto, neanche Usain Bolt è riuscito a strapparglielo: quello dei 150 metri piani.

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Non tutti sanno che Pietro Mennea detiene un record mondiale che resiste da 36 anni. Ancora imbattuto, neanche Usain Bolt è riuscito a strapparglielo: quello dei 150 metri piani.

Di recente, il 22 giugno 2018, Filippo Tortu ha stabilito il nuovo record Italiano sui 100 metri piani, riuscendo così a battere il record di Pietro Mennea di 10″01, fissato nel 1979. Ci sono voluti insomma quasi 40 anni per batterlo.

Altrettanto longevo è stato il suo record del mondo sui 200 metri. Per superare il suo 19″72, stabilito nel ’79 a Città del Messico, ci sono voluti ben 17 anni ed un mostro come Bolt. Il 19″72 resta comunque, dopo ben oltre 40 anni, l’imbattuto record Europeo ed Italiano.

Peraltro, finora, Mennea è l’unico duecentista del pianeta ad aver conquistato quattro finali olimpiche di fila (dal 1972 al 1984).

Quelli che però non tutti sanno è che nel 1983 Mennea stabilì un altro record del mondo. Il primato mondiale sui 150 metri piani. Un primato che resiste tutt’oggi.

Il 22 marzo del 1983 sulla pista dello stadio di Cassino “Gino Salveti” Mennea stabilì il record mondiale dei 150 metri con uno straordinario 14″8. Nessuno è riuscito a strappargli il record che ancora resiste.

Nel 2009 Usain Bolt a Manchester fece meglio con 14″35 ma il risultato non poteva essere omologato perché ottenuto su una pista rettilinea.

È in onore di quell’impresa che lo stadio “Salveti” dal 13 maggio del 2013 è stato intitolato proprio a Pietro Mennea.

 

 

 

Un ricordo – Il 21 marzo 6 anni fa ci lasciava Pietro Mennea, la Freccia del Sud più veloce del mondo – La sua fantastica storia.

 

Pietro Mennea

 

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Un ricordo – Il 21 marzo 6 anni fa ci lasciava Pietro Mennea, la Freccia del Sud più veloce del mondo – La sua fantastica storia.

Ecco tutta la storia di Pietro Mennea, il più grande velocista europeo della storia. Fu per 17 ani primatista mondiale dei 200 metri.

Nel mondo dell’atletica leggera italiana è stato un mito. Il campione più acclamato nonostante un carattere schivo e, a volte, anche spigoloso.
Ma lui, Pietro Menea, la cosiddetta Freccia del Sud, orgoglio di Barletta, della Puglia e di tutta l’Italia è rimasto nei cuori degli sportivi per il suo talento, la sua perseveranza, la sua voglia di vincere fatta di tanti sacrifici e di allenamenti durissimi.

La sua storia

Nasce in una modesta famiglia di Barletta. Il padre è sarto e la mamma casalinga. Dopo le medie si iscrive a ragioneria. A 15 anni, su uno stradone di Barletta, sfidava in velocità una Porsche color aragosta e un’Alfa Romeo 1750 rossa: a piedi, sui 50 metri, batteva l’una e l’altra e guadagnava le 500 lire per pagarsi un cinema o un panino. Prosegue gli studi all’Isef.

Sposa Manuela Olivieri, avvocatessa. Si laurea a Bari una prima volta in scienze politiche, su consiglio di Aldo Moro, allora ministro degli Esteri. Poi consegue anche le lauree in giurisprudenza, scienze dell’educazione motoria e lettere. Pietro Mennea esercitava la professione di avvocato ed è stato autore di venti libri.

Nel 2000 il nome di Mennea tornò agli onori delle cronache quando l’Università degli Studi dell’Aquila, presso cui aveva partecipato a un concorso per la cattedra di Sistematica, regolamentazione e organizzazione dell’attività agonistica presso la facoltà di Scienze motorie, gli propose l’assunzione, essendosi classificato primo in graduatoria, ma, giudicando la posizione di professore a contratto (istituto di diritto privato) incompatibile con la carica di membro del Parlamento europeo (carica di natura pubblica), gli chiese le dimissioni da quest’ultimo. La vicenda provocò polemiche e interrogazioni parlamentari. Tuttavia il Governo Amato II, rappresentato dall’allora Sottosegretario di Stato per l’Università e la Ricerca Scientifica e Tecnologica on. Luciano Guerzoni, diede ragione all’Università.

Mennea è stato docente a contratto di Legislazione europea delle attività motorie e sportive presso la Facoltà di Scienze dell’Educazione Motoria dell’Università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti-Pescara.

Nel 2006 ha dato vita insieme alla moglie alla “Fondazione Pietro Mennea”, onlus di carattere filantropico, che effettua donazioni e assistenza sociale a enti caritatevoli o di ricerca medico-scientifica, associazioni culturali e sportive, attraverso progetti specifici. Lo scopo secondario è di carattere culturale e consiste nel diffondere lo sport e i suoi valori, nonché promuovere la lotta al doping.

Oltre alla carriera sportiva, ha operato come curatore fallimentare e insegnante di educazione fisica, eurodeputato (a Bruxelles dal 1999 al 2004) e commercialista.

Nel 2010, insieme alla consorte (entrambi legali con studio a Roma, ubicato vicino al tribunale civile), si occupa di class action negli Stati Uniti per difendere alcuni risparmiatori italiani finiti nel crac della Lehman Brothers.

Nel marzo del 2012 la città di Londra, nell’ambito delle iniziative connesse ai Giochi olimpici di Londra 2012, dedica all’ex atleta barlettano, una stazione della metropolitana cittadina (High Street Kensington).

Muore il 21 marzo 2013, in una clinica di Roma, a causa di una grave malattia. Avrebbe compiuto a giugno 61 anni.

La carriera sportiva

Mennea iniziò la sua lunga carriera atletica internazionale nel 1971, quando debuttò ai Campionati europei con un terzo posto nella staffetta 4×100 metri e un sesto nei 200 metri. Fece il suo debutto olimpico a Monaco di Baviera, ai Giochi olimpici estivi del 1972, dove raggiunse la finale dei 200 m, la specialità nella quale era più forte.[2] Tagliò il traguardo al terzo posto, dietro al sovietico Valerij Borzov e all’americano Larry Black. A questa sarebbero seguite altre tre finali olimpiche nella stessa specialità.

Ai Campionati europei del 1974, Mennea vinse l’oro nei 200 m davanti al pubblico di casa di Roma, e si piazzò secondo nei 100 m (dietro a Borzov, suo rivale storico) e nella staffetta veloce. Dopo alcune prestazioni deludenti, nel 1976 Mennea decise di saltare i Giochi olimpici, ma il pubblico italiano protestò e Mennea andò a Montréal. Riuscì a qualificarsi per la finale dei 200 m, ma vide l’oro finire nelle mani del giamaicano Don Quarrie, mentre lui finì ai piedi del podio, quarto. Lo stesso risultato, mancando di poco il bronzo, venne raggiunto nella staffetta 4×100 metri. Nel 1978, a Praga, difese con successo il suo titolo europeo dei 200 m, ma mostrò le sue doti anche sulla distanza più breve, vinta anch’essa. In quell’anno si aggiudicò anche l’oro nei 400 metri piani agli europei al coperto.

Nel 1979, Mennea, studente di scienze politiche, prese parte alle Universiadi, che si disputavano sulla pista di Città del Messico. Il tempo con cui il 12 settembre vinse i 200 metri piani, 19″72, era il nuovo record del mondo: esso resistette per ben 17 anni, ma va tenuto conto del fatto che fu ottenuto correndo a oltre duemila metri di quota come del resto il precedente primato, stabilito da Tommie Smith sempre a Città del Messico (si noti comunque che Mennea detenne anche il record del mondo a livello del mare dal 1980 al 1983, con 19″96, tempo stabilito nella sua città natale, Barletta). Il record venne battuto da Michael Johnson ai trials statunitensi per le Olimpiadi del 1996.

In quanto detentore del primato mondiale, Mennea era senz’altro uno dei favoriti per l’oro olimpico a Mosca anche a causa del boicottaggio statunitense delle Olimpiadi del 1980. Nella finale dei 200 m, Mennea affrontò il campione uscente Don Quarrie e il campione dei 100 m Allan Wells. Wells sembrò dirigersi verso una vittoria netta ma Mennea gli si avvicinò sul rettilineo e lo sopravanzò negli ultimi metri, aggiudicandosi l’oro per 2 centesimi di secondo. Vinse anche il bronzo con la staffetta staffetta 4×400 metri.

Mennea, soprannominato la Freccia del Sud, nel 1981 annunciò il suo ritiro concedendosi più tempo per lo studio. Successivamente ritornò sui suoi passi e l’anno dopo prese parte agli europei gareggiando però solo nella 4×100 che arrivò quarta.

Il 22 marzo 1983 stabilì il primato mondiale (manuale) dei 150 metri piani, con 14″8 sulla pista dello stadio di Cassino: questo primato è ancora imbattuto, perché il tempo di 14″35 stabilito il 17 maggio 2009 da Usain Bolt a Manchester non è stato omologato dalla Federazione in quanto stabilito su pista rettilinea.

Successivamente partecipò alla prima edizione dei mondiali che si svolse ad Helsinki dove vinse la medaglia di bronzo nei 200 e quella d’argento con la staffetta 4×100. Un anno dopo, scese in pista nella sua quarta finale olimpica consecutiva dei 200 m, primo atleta al mondo a compiere tale impresa. In quest’occasione, anche se campione uscente, terminò al settimo posto e, a fine stagione, si ritirò dalle competizioni per la seconda volta.

Ancora una volta, Mennea fece il suo ritorno e gareggiò nelle sue quinte Olimpiadi a Seul nel 1988, sempre nei 200 metri, dove si ritirò dopo aver superato il primo turno delle batterie. In quest’edizione dei Giochi fu alfiere portabandiera della squadra azzurra durante la cerimonia d’apertura.

Dal punto di vista tecnico Mennea (come in seguito Carl Lewis ) aveva una partenza dai blocchi relativamente lenta ma progressivamente accelerava riuscendo a raggiungere velocità di punta superiori a qualunque atleta. Questa partenza lenta ha relativamente penalizzato le sue prestazioni sui 100 metri (dove comunque ha primeggiato a livello europeo), mentre le gare sui 200 si concludevano spesso con rimonte ai limiti del prodigioso (come la finale delle olimpiadi di Mosca). Sempre grazie alla sua eccezionale velocità di punta le ultime frazioni e le relative rimonte di Mennea nella 4×100 (nelle quali partiva lanciato) erano impressionanti per la superiorità sugli altri atleti.

I capolavori che si stanno sciogliendo. La mostra beffarda di un geniale artista Austriaco che dovrebbe farci riflettere… E vediamo se così lo capiamo…!

 

 

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I capolavori che si stanno sciogliendo. La mostra beffarda di un geniale artista Austriaco che dovrebbe farci riflettere… E vediamo se così lo capiamo…!

Immaginate di essere in un museo troppo caldo e di vedere i quadri che piano piano si sciolgono, uno dopo l’altro. Alper Dostal, artista austriaco, usa questa metafora artistica per porre l’accento su quello che sta succedendo al nostro Pianeta per colpa del surriscaldamento globale e dei cambiamenti climatici.

Si definisce un’artista multidisciplinare e nel suo progetto d’arte digitale Hot Art Exhibition mette in scena una triste realtà: i capolavori di Picasso, Van Gogh, Mondrian, Dalì e tanti altri escono dalle cornici e si sciolgono. L’idea è quella di rappresentare gli effetti del cambiamento climatico e spingere a riflettere su un problema diventato ormai globale.

Il progetto che potrebbe sembrare ironico, in realtà racchiude tutte le preoccupazioni di Alper Dostal. Con il surriscaldamento è in pericolo anche tutto il patrimonio artistico: le opere diventano irriconoscibili, così come i luoghi che eravamo abituati a pensare in un altro modo.

Così la Notte stellata di Van Gogh potrebbe rappresentare l’Artico con i suoi ghiacci sciolti, Guernica di Picasso, fiumi e laghi prosciugati dalla siccità.

“Le mie opere sono spesso influenzate dalla vita di ogni giorno, dal surrealismo, dal disegno industriale e dall’astrattismo. Il mio lavoro è un po’ bizzarro, umoristico e con un goccio di sarcasmo, ma dietro tutto ciò è nascosta la realtà”.

I capolavori che “si sciolgono”
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Guardate cosa succede alle installazioni:

 

 

“È colpa dei neri” – Un geniale video dei The Jackal che in modo ironico, sarcastico e divertente mette a nudo l’idiozia del razzismo italiano…

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“È colpa dei neri” – Un geniale video dei The Jackal che in modo ironico, sarcastico e divertente mette a nudo l’idiozia del razzismo italiano…

Vi riproponiamo questo geniale video dei The Jackal: «È colpa dei neri». Un video datato, forse tra i primi, ma sempre attuale, anzi oggi più attuale che mai.

Una satira pungente ed esilarante su come i problemi cronici del nostro paese vengano scaricati sulla “grana” dell’immigrazione.

Non riuscite ad avere il sussidio di disoccupazione? È colpa dei neri che «vengono qua e prendono lo stipendio gratis». I mezzi pubblici non funzionano? È colpa dei neri. Avete bisogno di andare in bagno ma lo trovate occupato? È colpa dei neri. La batteria dell’iPhone non vi arriva nemmeno a metà pomeriggio? È colpa dei neri.

È sempre colpa dei Neri che vengono in Italia perché, in Africa, la vita tra lussi e agi li annoia a morte e allora decidono di fare qualcosa di frizzante: «Andare in Italia a rompere il c***o agli italiani»…!

Un Cult – Mariangela Melato e Giancarlo Giannini in “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”

 

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Un Cult – Mariangela Melato e Giancarlo Giannini in “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”

Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto con Mariangela Melato e Giancarlo Giannini, regia di Lina Wermuller fu un vero cult degli anni ’70.

Tra le parti più indimenticabili del film sono gli insulti di Gennarino nei confronti di Raffaella, ingiurie in cui si ritrova tutta l’amarezza e la rabbia della classe operaia nei confronti della “razza padrona”. Fra i due, Gennarino è forse il personaggio più complesso: rappresenta il proletariato sfruttato del sud che si ribella all’oppressione del capitalismo industriale del nord. Ma Gennarino non riesce veramente, come molti suoi contemporanei, a stare al passo coi tempi. Non comprende che la rivoluzione operaia dovrebbe andare di pari passo con altre rivoluzioni, una fra tutte quella femminista, e quindi da una parte riscatta la sua classe oppressa ma dall’altra continua a molestare e tormentare Raffaella non solo in quanto rappresentante del capitalismo industriale, ma anche in quanto donna.

Secondo la filosofia pratica di Gennarino, le donne servono solo per lavare le mutande degli uomini. Quindi se da una parte ridiamo, nostro malgrado, quando Gennarino impartisce la sua punizione fatta di calci e schiaffi a Raffaella mentre declama il catalogo delle colpe della sua classe per l’aumento della carne, del parmigiano, della benzina, per gli ospedali che non funzionano, per l’evasione fiscale, dall’altra non possiamo non sentire un profondo disagio quando lo stesso Gennarino schiavizza Raffaella facendole lavare la sua biancheria, facendosi servire, schiaffeggiandola e violentandola. Gennarino non capisce che il sessismo è una forma di oppressione equiparabile allo sfruttamento del proletariato.

Raffaella, d’altra parte, è politicamente conservatrice e razzista, anticlericale ma anche sessualmente emancipata. La sua trasformazione e sottomissione sull’isola, per quanto difficili da comprendere, rappresentano una liberazione dalle convenzioni della sua vita precedente. Forse solo una volta arrivata su un’isola deserta Raffaella si rende conto di quanto sia stata infelice per tutta la sua vita precedente. La teme ma, una volta tornata, non può non riaccostarvisi.

Il film offre uno spaccato di vita impossibile, il ritorno a una condizione primitiva che la regista ha definito ritorno alla natura, ai ruoli tradizionali di uomo e donna. A quarantacinque anni di distanza i due naufraghi fanno ancora discutere: Gennarino a causa del suo atteggiamento violento e sessista e Raffaella per i suoi modi razzisti. Ma, a pensarci bene, non sono poi così anacronistici. Basta dare uno sguardo alle prime pagine per trovare tanti personaggi fin troppo simili a Raffaella e Gennarino anche nel nostro secolo.

Ricordava la mitica Mariangela Melato “per due mesi Lina (Wermuller) ci obbligava, me e Giancarlo, a pestarci a sangue, come ricorderà chi ha visto il film. E non erano botte tanto finte, da cinema, ma erano sberle, calci, spintoni, slogature vere, si era in pieno realismo e ci sono rimaste le ammaccature e i lividi anche tornati a Roma». Nel film la Melato è una ricca signora snob alla milanese e Giannini il proletario al suo servizio: naufraghi, sarà un redde rationem sociale senza esclusione di colpi.