Un esempio per i nostri ragazzi: Rhea, appena 11 anni, non ha i soldi per comprarsi le scarpe, crea a mano ‘Nike’ improvvisate e vince tre medaglie d’oro!

 

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Un esempio per i nostri ragazzi: Rhea, appena 11 anni, non ha i soldi per comprarsi le scarpe, crea a mano ‘Nike’ improvvisate e vince tre medaglie d’oro!

Questa giovanissima ragazza ha dimostrato che un’atleta per avere successo ha bisogna di determinazione, passione e anche un pizzico di fantasia quando le possibilità economiche sono limitate. Rhea Bullos, ha appena 11 anni e la sua immagine è diventata virale sui social perché l’atleta ha vinto ben tre medaglie d’oro nell’atletica leggera nonostante abbia corso con delle scarpe fatte a mano con bende e gesso.

Rhea è una studentessa della scuola elementare di Balasan nelle Filippine e non ha voluto rinunciare alla gara solo perché non aveva le scarpe. Così con l’aiuto della famiglia se l’è fatte da sé mettendoci tanto di brand Nike sopra. La foto è stata condivisa sui social dal suo allenatore Predirick B. Valenzuela e ha fatto il giro del mondo, diventando esempio di tenacia e voglia di superare i limiti.

Se non si nasce in una famiglia benestante, allora bisogna ingegnarsi per non rinunciare mai ai propri sogni. Così Rhea ha corso più che ha potuto, facendolo quasi scalza. Ha vinto così nella gara dei 400, in quella degli 800 e perfino nei 1500 nel torneo sportivo organizzato dal Consiglio di Iloilo.

Per la giovane atleta sono arrivati centinaia di commenti di congratulazioni e tantissimi si sono offerti di regalarle delle scarpe vere per le competizioni future. Rhea che sogna di gareggiare in futuro nei Giochi del Sud est asiatico, è diventata un esempio per tanti altri ragazzi della sua età e non solo, dimostrando che per inseguire i propri sogni ci si deve impegnare al massimo e che molto spesso non esistono limiti per superare le sfide.

 

fonte: https://www.greenme.it/vivere/sport-e-tempo-libero/non-ha-i-soldi-per-comprarsi-le-scarpe-crea-a-mano-nike-improvvisate-e-vince-tre-medaglie-doro/

 

 

 

Imparare ad essere una donna – Il nuovo singolo di Fiorella Mannoia che rappresenta un bellissimo messaggio a tutte le donne: continuare ad imparare vuol dire essere vive.

 

Fiorella Mannoia

 

 

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Imparare ad essere una donna – Il nuovo singolo di Fiorella Mannoia che rappresenta un bellissimo messaggio a tutte le donne: continuare ad imparare vuol dire essere vive.

Non c’è un’età in cui ci siede sugli spalti e ci si rassegna a guardare la vita che corre; non c’è un’età nemmeno per smettere di far sentire la propria voce e il proprio dissenso; non c’è un tempo per vivere e un altro per subire: questo racconta Fiorella Mannoia nel suo nuovo brano, Imparare ad essere una donna, contenuto nel suo ultimo disco di inediti, Personale.

Fiorella Mannoia, nelle sue canzoni, ha raccontato spesso le donne, la loro tenacia e la loro fragilità, il dolore vissuto con dignità, la libertà di non dover inseguire un concetto astratto di perfezione. Imparare ad essere una donna è una canzone matura, consapevole, intensa e densa di vita. Non poteva che cantarla e scriverla (ne è l’autrice insieme a Federica Abbate e Cheope) una donna risoluta e sensibile come Fiorella Mannoia, che a questo brano – oltre a dare la voce e la penna – offre le proprie consapevolezze e il punto di vista della persona che è oggi. Per questo, è un pezzo intimo, ma nel contempo universale; racconta la sua storia, ma – senza pretenderlo – può essere considerato un manifesto.

Non è un’apologia delle donne, anche perché la Mannoia, da sempre un’interprete intelligente, sensibile, attenta, sa bene che un’esaltazione cieca risulterebbe quasi sminuente, sarebbe solo mera esaltazione, quasi una presa di posizione. Invece, in questo brano, si racconta dalla propria prospettiva e svela una verità condivisibile. Fiorella rivela, in questo modo, tutte le sfaccettature di una donna adulta, che sa commuoversi, che si arrabbia, che non si accontenta, che si cerca in tutte le donne che è stata, che impara ancora a vivere, perché la vita è in divenire e fermarsi significa non comprenderla appieno.

Il messaggio di Imparare ad essere una donna

A dire il vero, al brano è possibile dare una lettura più universale: non è un inno alle donne, ma alla vita, perché ognuno di noi salvaguardi il proprio entusiasmo, la voglia di lasciarsi sorprendere e, qualche volta, persino ammutolire; ciò che conta è esserne parte attiva, non spettatori, nemmeno arbitri. Il messaggio di Imparare ad essere una donna è chiaro sin dai primi versi; il brano, infatti, si apre così: “A mani nude, a piedi scalzi, affrontare la vita sul campo e mai dagli spalti”.

È il racconto di una donna che ha “più passato che futuro”, che ha fatto i conti con i propri sbagli e, col tempo, ha saputo farne un monito, non un limite. La donna raccontata dalla Mannoia, infatti, non si è lasciata inaridire dal dolore: sa ancora concedersi lacrime di rabbia e commozione, non rinnega i ricordi, che sono pulsanti e travolgenti, ma vive saldamente nel presente, guarda in avanti e impara ogni giorno a essere una donna, sopportandone il peso e accogliendone la bellezza.

Testo

Il testo di Imparare ad essere una donna è diretto e genuino e l’interpretazione di Fiorella, come sempre, è intensa, raffinata, personale. L’originalità del brano sta nel fatto che racconta una donna inedita, raramente presa in esame nelle canzoni: non quella che s’affaccia alla vita per la prima volta, non quella che è vittima, nemmeno quella che è forte a tutti i costi, non una mamma, non una figlia, non una persona innamorata e neanche una ferita. Racconta una donna che ha un imponente vissuto alle spalle, più ricordi che ambizioni, ma una sola, incrollabile certezza: c’è sempre qualcosa da imparare, perché vivere vuol dire non essere mai sazi di conoscenza, di curiosità e di bellezza.

Ecco il testo del brano:

Imparare ad essere una donna

A mani nude, a piedi scalzi
Affrontare la vita sul campo e mai dagli spalti
Senza risparmi
Andando sempre comunque avanti
E niente è mai sicuro
E quando hai più passato che futuro
Sai che hai imparato dagli altri anche i peggiori sbagli
Per giorni, mesi, anni
Ma ancora mi commuovo
Per un bacio lontano, una foto ricordo
Per la notte che piano ridiventa giorno
Ogni emozione mi attraversa il respiro
E piango di gioia oppure senza motivo
Ci sono giorni in cui vorrei sparire
E altri che la felicità non ha una fine
Ogni emozione mi attraversa il respiro
E rido di gioia oppure senza motivo
Convinta che alla fine tutto torna
Con il peso e la bellezza di imparare
Ad essere una donna
E camminare sui vetri rotti
Di mille scelte sbagliate da bruciare gli occhi
E nonostante i colpi
Non dare peso alle ragioni, ai torti
E ancora mi commuovo
Ogni volta che aspetto la primavera
Quando incrocio lo sguardo di una persona vera
Ogni emozione mi attraversa il respiro
E piango di gioia oppure senza motivo
Ci sono giorni in cui vorrei sparire
Altri che la felicità non ha una fine
Ogni emozione mi attraversa il respiro
E rido di gioia oppure senza motivo
Convinta che alla fine tutto torna
Con il peso e la bellezza di imparare
Ad essere una donna
Ogni emozione mi attraversa il respiro
E rido di gioia oppure senza motivo
Convinta che alla fine tutto torna
Con il peso e la bellezza di imparare
Ad essere una donna
Una donna

Fiorella Mannoia

 

FONTE: https://www.greenme.it/vivere/arte-e-cultura/fiorella-mannoia-donne-imparare/

 

 

 

Una bella storia – Monica Bergantin, sconfigge il tumore e si licenzia dalla fabbrica: “Ora lavoro in ospedale, era il mio sogno”

 

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Una bella storia – Monica Bergantin, sconfigge il tumore e si licenzia dalla fabbrica: “Ora lavoro in ospedale, era il mio sogno”

Padova, batte il tumore e si licenzia dalla fabbrica: «Ora lavoro in ospedale, era il mio sogno»

La veneziana Monica Bergantin, 49 anni: «Volevo seguire le mie ambizioni. È come se il cancro mi avesse spinto a migliorarmi»

PADOVA La prima domanda non cambia mai: «Perché proprio a me?». Le ragioni di un tumore, che entra a gamba tesa nella quotidianità di una persona, non trovano risposta nelle menti normalmente occupate nei piccoli o grandi affanni della vita. Chiunque è impreparato a rispondere a una domanda come questa: «Perché a me?». Quando Monica Bergantin scopre a 35 anni di avere un tumore al seno, anche lei perde la testa dietro a questo rompicapo. «È un pensiero che sta lì a tormentarti giorno e notte – spiega – poi, improvvisamente, scopri che è una trappola, è una domanda che non ha risposta, e allora io ho iniziato a reagire, la mia vita doveva cambiare, ma non potevo aspettare di guarire, dovevo iniziare subito, io non ero il cancro, io sono sempre stata Monica».

Da operaia a tecnico dei servizi sociali

Come un’amazzone questa coraggiosa donna che oggi ha 49 anni e che vive a Cavarzere, ha ripreso in mano la sua vita, e ne ha fatto la sua rivoluzione. E volendo rovesciare quella domanda, si potrebbe quasi affermare che Monica è guarita perché doveva ancora fare delle cose, quelle più importanti, quelle che le riempiono il cuore e l’hanno fatta diventare una donna nuova. Monica era operaia in una ditta di vestiti e dopo l’esito dei primi accertamenti sul suo tumore al seno, dopo aver superato lo smarrimento e la paura iniziale, ha deciso che quella vita di prima non le bastava più, che c’era ben altro a pulsarle dentro. «Avevo lasciato andare le mie ambizioni, e me le sono riprese», dice, per cui ha studiato e ha preso il diploma di tecnico dei servizi sociali seguendo la scuola serale. I libri da una parte, la flebo della chemio dall’altra e la mamma che la interrogava per farla arrivare preparata. Forte come una tigre Monica ha preso la Maturità, ma ha dovuto affrontare una nuova prova: un altro carcinoma, questa volta alla Tiroide. La diagnosi rapida e l’intervento risolutore le hanno permesso di non abbattersi e continuare. Il percorso della sua nuova vita l’ha portata a lavorare al reparto di Rianimazione dell’ospedale dell’Immacolata Concezione di Piove di Sacco. Dal tumore al seno è guarita, la tiroide è ok, ma deve stare sotto controllo. «È come se il cancro mi avesse spinto a migliorarmi, non potevo dargliela vinta, non sarei stata io, ho sentito dentro una forza che mai avrei pensato di avere, ora lavoro a tempo pieno, sono a contatto ogni giorno con il dolore e la malattia, la disabilità, ma cerco di portare speranza con il mio esempio – racconta – ho il rimpianto di non aver figli ma ho Nero e Camilla, i miei due cani, che adoro, ho sei splendidi nipotini e sono loro le mie medicine – continua – ho imparato che le cure, le medicine salvano, ma anche l’amore salva. Ho imparato che i giorni che abbiamo davanti non sono infiniti, per cui bisogna aggiungere tanta vita in ogni giorno che viviamo». «Sono ammaliato di fronte a tanta straordinaria caparbietà – dice il direttore dell’Ulss 6 euganea Domenico Scibetta – Monica ha tirato fuori gli artigli e si è salvata, ora il suo coraggio e quella bellezza li trasferisce ogni giorno in ospedale, dove si trasforma in una infusione di vita».

tratto da:

 https://corrieredelveneto.corriere.it/padova/cronaca/19_ottobre_29/padova-batte-tumore-si-licenzia-fabbrica-ora-lavoro-ospedale-era-mio-sogno-fa8d9914-fa20-11e9-b1d3-8ef4db66594d.shtml?fbclid=IwAR1pgV2EL8ql3YhIvtmDS6nel6XFcvofvJtN7eT8zpvml42uyo06zEZk18E

19 aprile 1967 – Kathrine Switzer sfidò il maschilismo nello sport correndo la maratona di Boston

 

19 aprile

 

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19 aprile 1967 – Kathrine Switzer sfidò il maschilismo nello sport correndo la maratona di Boston

Kathrine Switzer aveva diciannove anni quando nel 1967 decise di correre la maratona di Boston violandone le regole.

La gara era infatti interdetta alla partecipazione femminile. Secondo gli organizzatori le donne non erano in grado di competere sulle 26 miglia del tracciato. 

L’anno prima Bobbi Gibb aveva partecipato alla competizione sotto mentite spoglie. Iscrivendosi sotto falso nome e vestendosi da uomo era riuscita a correre fino al traguardo raggiungendo il 125° posto su 500 partecipanti con un tempo di 3h21′. 

L’anno seguente Khatrine raccolse il testimone ma decise di dare battaglia a tutto campo. Non si travestì e non cambiò nome ma usò solo le iniziali nel modulo di iscrizione. Accompagnata dal fidanzato Tom Miller, lanciatore di pesi di 109 kg, si presentò puntuale alla partenza.

Passarono pochi minuti dall’inizio della gara quando Khatrine finì per essere notata da alcuni fotografi, che seguivano da un pulman, i concorrenti. Alcuni di loro cominciarono ad urlare “c’è una ragazza” e a scattare delle foto. 

Anche il direttore della corsa Jock Semple era sul pulman. Noto per la sua visione retrograda e per il suo carattere rissoso, scese dal veicolo, rincorse Khatrine ed iniziò a strattonarla gridando “vattene dalla mia gara e dammi la pettorina!”. Tom che seguiva la ragazza intervenne energicamente placcando Semple e mandandolo con il sedere a terra. 

Khatrine, ormai libera, poté continuare la sua corsa e raggiungere il traguardo. 

La sua storia fece il giro del mondo, e questa foto divenne un simbolo di lotta contro le discriminazioni di genere. Pochi anni dopo la maratona fu finalmente aperta alle donne. 

Khatrine partecipò per ben otto volte alla competizione e nel 1974 trionfò con un tempo di 2h51′.

Il 3 aprile di 15 anni fa ci lasciava, troppo presto, l’indimenticabile Gabriella Ferri – Ricordiamola con le sue cinque canzoni più belle…

 

Gabriella Ferri

 

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Il 3 aprile di 15 anni fa ci lasciava, troppo presto, l’indimenticabile Gabriella Ferri – Ricordiamola con le sue cinque canzoni più belle…

 

Gabriella Ferri ci lasciava il 3 aprile del 2004, lasciando un vuoto immenso nella musica italiana e nei nostri cuori. La bella e triste Signora di Roma ha saputo reinterpretare la tradizione dei canti popolari con la sua personalità esuberante, raccogliendo l’eredità di Claudio Villa. E’ stata una interprete indimenticabile, vera e sensibile, al punto di ammalarsi di quella depressione che la uccise.

Vogliamo renderle omaggio ricordando le sue 5 canzoni più belle.

Sempre
Ognuno è un cantastoria
Tante facce nella memoria
Tanto di tutto tanto di niente
Le parole di tanta gente.
Tanto buio tanto colore
Tanta noia tanto amore
Tante sciocchezze tante passioni
Tanto silenzio tante canzoni.
Anche tu così presente
Così solo nella mia mente
Tu che sempre mi amerai
Tu che giuri e giuro anch’io
Anche tu amore mio
Così certo e così bello.
Anche tu diventerai
Come un vecchio ritornello
Che nessuno canta più
Come un vecchio ritornello.
Anche tu così presente – sempre
Così solo nella mia mente – sempre
Tu che sempre mi amerai – sempre
Tu che giuri e giuro anch’io – sempre
Anche tu amore mio – sempre
Così certo e così bello.
Anche tu diventerai
Come un vecchio ritornello
Che nessuno canta più
Come un vecchio ritornello
Che nessuno canta più.
Ognuno è un cantastoria
Tante facce nella memoria
Tanto di tutto tanto di niente
Le parole di tanta gente.
Anche tu così presente
Così solo nella mia mente
Tu che sempre mi amerai
Tu che giuri e giuro anch’io
Anche tu amore mio
Così certo e così bello
Anche tu diventerai
Come un vecchio ritornello
Che nessuno canta più
Come un vecchio ritornello
Che nessuno canta più.
Dove sta Zazà
Era la festa di San Gennaro,
quanta folla per la via…
Con Zazá, compagna mia,
me ne andai a passeggiá.
C’era la banda di Pignataro
che suonava il “Parsifallo”
e il maestro, sul piedistallo,
ci faceva deliziá…
Nel momento culminante
del finale travolgente,
‘mmiez’a tutta chella gente,
se fumarono a Zazá!…
Dove sta Zazá?!
Uh, Madonna mia…
Come fa Zazá,
senza Isaia?…
Pare, pare, Zazá,
che t’ho perduta, ahimé!
Chi ha truvato a Zazá
ca mm”a purtasse a me…
Jámmola a truvá…
sù, facciamo presto.
Jámmola a incontrá
con la banda in testa…
Uh, Zazá!
Uh, Zazá!
Uh, Zazá!
tuttuquante aîmm”a strillá:
Zazá, Zazá,
Isaia sta ccá!
Isaia sta ccá!
Isaia sta ccá!…
Zazá, Zazá,
za-za-za-za,
comm’aggi ‘a fá pe’ te truvá?!
I’, senza te, nun pozzo stá…
Zazá, Zazá,
za-za-za-za…
Za-za-za-za-za-za-zá…
Era la festa di San Gennaro,
l’anno appresso cante e suone…
bancarelle e prucessione…
chi se po’ dimenticá!?
C’era la banda di Pignataro,
centinaia di bancarelle
di torrone e di nocelle
che facevano ‘ncantá.
Come allora quel viavai,
ritornò per quella via…
Ritornò pure Isaia,
sempre in cerca di Zazá…
Dove sta Zazá?
Uh! Madonna mia…
Come fa Zazá,
senza Isaia?
Pare pare, Zazá
che t’ho perduta, ahimé!
Chi ha truvato a Zazá,
ca mm”a purtasse a me…
Se non troverò
lei, ch’è tanto bella,
mm’accontenterò
‘e trová ‘a sorella…
T’amerò,
t’amerò,
t’amerò,
pure a lei glielo dirò
che t’amerò:
T’amerò, Zazá!
T’amerò, Zazá!
T’amerò, Zazá!
Zazá, Zazá,
za-za-za-za…
che t’amerò ll’aggi”a cuntá…
Con tua sorella aggi”a sfugá…
Zazá, Zazá,
za-za-za-za…
Zazá, Zazá,
za-za-za-za…
comm’aggi”a fá pe’ te truvá?!
I’, senza te, nun pòzzo stá!
Zazá, Zazá,
za-za-za-za-za…
Za-za-za-za-za-za-zá.

 

 

Dove sta Zazà?
Dove sta Zazá?! Uh, Madonna mia… 

Le Mantellate
Ma che parlate a fa’…qui drento ce sta solo infamità.

 

Remedios
Remedios, niña pequeña, chiquita, hermosa, preciosa… Linda niñita quedada así, sentada en la orilla del mar…

 

Grazie alla vita
Grazie alla vita / Che mi ha dato tanto /Mi ha dato il passo /Dei miei piedi stanchi /Con loro ho attraversato /Città e pozze di fango /Lunghe spiagge vuote /Valli e poi alte montagne /E la tua casa la tua strada /Il tuo cortile…

 

Sempre
Anche tu diventerai /Come un vecchio ritornello /Che nessuno canta più.

 

 

Buon compleanno Alda – Oggi 21 marzo nasceva Alda Merini, poetessa d’amore e di follia, i veri ingredienti della vita.

 

Alda Merini

 

 

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Buon compleanno Alda – Oggi 21 marzo nasceva Alda Merini, poetessa d’amore e di follia, i veri ingredienti della vita.

Alda Merini è stata una delle più importanti scrittrici italiane del Novecento. Nasce il 21 marzo 1931 a Milano, città che l’ha ospitata sino alla morte, avvenuta il 1° novembre 2009.

Alda Giuseppina Angela Merini passa l’infanzia in viale Papiniano, dove si trova la casa dei suoi genitori: padre dipendente presso un’agenzia assicurativa, madre casalinga e due fratelli. Le condizioni economiche in cui la futura poetessa cresce sono modeste, la famiglia umile. Di questi primi anni non si sa molto, se non quel poco che la stessa Merini ha raccontato: ama suonare il pianoforte, ma soprattutto lo studio, che da sempre ha rappresentato un aspetto essenziale della sua vita. Brava e ambiziosa studentessa tenta di accedere al Liceo Manzoni – istituto storico di Milano -, inutilmente in quanto non supera il test di italiano. Lei, una delle più grandi penne della letteratura italiana novecentesca, valutata insufficiente proprio in questa prova! Ben presto verrà però risarcita da tale delusione: grazie ad una professoressa delle medie, che aveva colto la scintilla della Merini, conosce Giacinto Spagnoletti, che le fa da mentore mentre lei muove i primi passi nel mondo della letteratura.

All’età di sedici anni, però, un’ombra nera si fa strada nell’esistenza della Merini: nel 1947 è ricoverata in una clinica milanese, dove le viene diagnosticato un disturbo bipolare. Da questo momento in poi la vita della poetessa sarà scandita periodicamente dalla permanenza in centri e ospedali psichiatrici.

Ero matta in mezzo ai matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti. Sono nate lì le mie più belle amicizie. I matti son simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita.

Dopo la reclusione del ’47 si apre però un momento di serenità e felicità per la scrittrice: la Merini ottiene le sue prime pubblicazioni e si sposa con Ettore Carniti, proprietario e gestore di alcune panetterie milanesi. L’amore con quest’uomo è stato totalizzante, entusiasmante, sofferto e a tratti penoso. Le quattro figlie da lui avute (Emanuela, Flavia, Simona, Barbara) raccontano di quanto la madre si disperasse per il marito, che viene descritto come un uomo semplice, indefesso lavoratore, ma con il vizio dell’alcol. Da ubriaco lui la picchiava. E lei stava male. Soffriva, soffriva profondamente non tanto per le ferite reali quanto più per vedere infranta una volta di più la speranza che lui cambiasse. Nonostante tutto, Carniti è stato il grande amore della Merini, che gli ha dedicato alcune delle parole più dolci della sua produzione, come quelle della poesia Ieri sera era amore (a Ettore):

Ieri sera era amore,
io e te nella vita
fuggitivi e fuggiaschi
con un bacio e una bocca
come in un quadro astratto:
io e te innamorati
stupendamente accanto.
Io ti ho gemmato e l’ho detto:
ma questa mia emozione
si è spenta nelle parole.

È stato proprio Carniti a fare internare nuovamente la moglie nel 1961: la Merini, come ha raccontato lei stessa, sotto stress per il molto lavoro e per le condizioni economiche precarie, ha dato «in escandescenze». La scrittrice è così costretta a scontrarsi nuovamente con la terribile esperienza della psichiatria, che riporta in alcuni suoi scritti, fra cui La Terra Santa L’altra verità. Diario di una diversa.  Le considerazioni che la poetessa milanese fa sulla permanenza al Paolo Pini confermano l’immagine comune del manicomio come teatro degli orrori. L’ospedale viene descritto dalla Merini come un labirinto da cui avrebbe fatto fatica ad uscire, e ancora come «un’istituzione falsa, una di quelle istituzioni che, altro non servono che a scaricare gli istinti sadici dell’uomo». Nel momento in cui vi mette piede, la scrittrice sente di impazzire per davvero. Quel luogo è vera follia. La mancanza di libertà, l’impossibilità di autodeterminarsi, l’essere privata dei propri affetti, l’allontanamento dal mondo “reale”.

Dai miei visceri partì un urlo lancinante, un’ invocazione spasmodica diretta ai miei figli e mi misi a urlare e a calciare con tutta la forza che avevo dentro, con il risultato che fui legata e martellata di iniezioni calmanti. 

Ma può essere davvero questa la “soluzione” ad un male così oscuro, che silenziosamente si impossessa della mente e la offusca? Il totale allontanamento dalla vita, l’elettroshock, terapie farmacologiche aggressive possono realmente giovare a chi di contatto con il mondo ha forse più bisogno di chiunque altro?

Ciò che è certo è che la Merini, con la sua estrema sensibilità e con un’audacia senza paragoni, non si è lasciata intimorire da questa esperienza claustrofobica ed estraniante. Il mostro della malattia, sempre incombente, non le ha impedito di amare la vita e le gioie che essa le ha regalato. Anzi, trasformare questo male da una condizione limitante ad uno “stato di grazia”, che le ha garantito uno sguardo diverso e più profondo sul mondo, è forse la prima testimonianza del coraggio e della grandezza di questa mente immensa. 

di Francesca De Fanis per MIfacciodiCultura

Era il 9 marzo 1973 quando Franca Rame venne rapita, malmenata e stuprata da un gruppo di fascisti. Da grande Donna trovò il coraggio di raccontare la sua terribile esperienza in un memorabile monologo: “lo stupro” – Non ve lo perdete, soprattutto Voi maschi…

 

Franca Rame

 

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Era il 9 marzo 1973 quando Franca Rame venne rapita, malmenata e stuprata da un gruppo di fascisti. Da grande Donna trovò il coraggio di raccontare la sua terribile esperienza in un memorabile monologo: “lo stupro” – Non ve lo perdete, soprattutto Voi maschi…

Permettetemi di dedicare questo monologo di Franca Rame a tutte quelle merde che mi fanno vergognare di essere nato uomo… (by Eles)

(dopo il testo, che va assolutamente letto, trovate il video)

LO STUPRO

Il brano che ora reciterò è stato ricavato da una testimonianza apparsa sul “Quotidiano Donna”, testimonianza che vi riporto testualmente.

C’è una radio che suona… ma solo dopo un po’ la sento. Solo dopo un po’ mi rendo conto che c’è qualcuno che canta. Sì, è una radio. Musica leggera: cielo stelle cuore amore… amore…

Ho un ginocchio, uno solo, piantato nella schiena… come se chi mi sta dietro tenesse l’altro appoggiato per terra… con le mani tiene le mie, forte, girandomele all’incontrario. La sinistra in particolare.

Non so perché, mi ritrovo a pensare che forse è mancino. Non sto capendo niente di quello che mi sta capitando.

Ho lo sgomento addosso di chi sta per perdere il cervello, la voce… la parola. Prendo coscienza delle cose, con incredibile lentezza… Dio che confusione! Come sono salita su questo camioncino? Ho alzato le gambe io, una dopo l’altra dietro la loro spinta o mi hanno caricata loro, sollevandomi di peso?

Non lo so.

È il cuore, che mi sbatte così forte contro le costole, ad impedirmi di ragionare… è il male alla mano sinistra, che sta diventando davvero insopportabile. Perché me la storcono tanto? Io non tento nessun movimento. Sono come congelata.

Ora, quello che mi sta dietro non tiene più il suo ginocchio contro la mia schiena… s’è seduto comodo… e mi tiene tra le sue gambe… fortemente… dal di dietro… come si faceva anni fa, quando si toglievano le tonsille ai bambini.

L’immagine che mi viene in mente è quella. Perché mi stringono tanto? Io non mi muovo, non urlo, sono senza voce. Non capisco cosa mi stia capitando. La radio canta, neanche tanto forte. Perché la musica? Perché l’abbassano? Forse è perché non grido.

Oltre a quello che mi tiene, ce ne sono altri tre. Li guardo: non c’è molta luce… né gran spazio… forse è per questo che mi tengono semidistesa. Li sento calmi. Sicurissimi. Che fanno? Si stanno accendendo una sigaretta.

Fumano? Adesso? Perché mi tengono così e fumano?

Sta per succedere qualche cosa, lo sento… Respiro a fondo… due, tre volte. Non, non mi snebbio… Ho solo paura…

Ora uno mi si avvicina, un altro si accuccia alla mia destra, l’altro a sinistra. Vedo il rosso delle sigarette. Stanno aspirando profondamente.

Sono vicinissimi.

Sì, sta per succedere qualche cosa… lo sento.

Quello che mi tiene da dietro, tende tutti i muscoli… li sento intorno al mio corpo. Non ha aumentato la stretta, ha solo teso i muscoli, come ad essere pronto a tenermi più ferma. Il primo che si era mosso, mi si mette tra le gambe… in ginocchio… divaricandomele. È un movimento preciso, che pare concordato con quello che mi tiene da dietro, perché subito i suoi piedi si mettono sopra ai miei a bloccarmi.

Io ho su i pantaloni. Perché mi aprono le gambe con su i pantaloni? Mi sento peggio che se fossi nuda!

Da questa sensazione mi distrae un qualche cosa che subito non individuo… un calore, prima tenue e poi più forte, fino a diventare insopportabile, sul seno sinistro.

Una punta di bruciore. Le sigarette… sopra al golf fino ad arrivare alla pelle.

Mi scopro a pensare cosa dovrebbe fare una persona in queste condizioni. Io non riesco a fare niente, né a parlare né a piangere… Mi sento come proiettata fuori, affacciata a una finestra, costretta a guardare qualche cosa di orribile.

Quello accucciato alla mia destra accende le sigarette, fa due tiri e poi le passa a quello che mi sta tra le gambe. Si consumano presto.

Il puzzo della lana bruciata deve disturbare i quattro: con una lametta mi tagliano il golf, davanti, per il lungo… mi tagliano anche il reggiseno… mi tagliano anche la pelle in superficie. Nella perizia medica misureranno ventun centimetri. Quello che mi sta tra le gambe, in ginocchio, mi prende i seni a piene mani, le sento gelide sopra le bruciature…

Ora… mi aprono la cerniera dei pantaloni e tutti si dànno da fare per spogliarmi: una scarpa sola, una gamba sola.

Quello che mi tiene da dietro si sta eccitando, sento che si struscia contro la mia schiena.

Ora quello che mi sta tra le gambe mi entra dentro. Mi viene da vomitare.

Devo stare calma, calma.

“Muoviti, puttana. Fammi godere”. Io mi concentro sulle parole delle canzoni; il cuore mi si sta spaccando, non voglio uscire dalla confusione che ho. Non voglio capire. Non capisco nessuna parola… non conosco nessuna lingua. Altra sigaretta.

“Muoviti puttana fammi godere”.

Sono di pietra.

Ora è il turno del secondo… i suoi colpi sono ancora più decisi. Sento un gran male.

“Muoviti puttana fammi godere”.

La lametta che è servita per tagliarmi il golf mi passa più volte sulla faccia. Non sento se mi taglia o no.

“Muoviti, puttana. Fammi godere”.

Il sangue mi cola dalle guance alle orecchie.

È il turno del terzo. È orribile sentirti godere dentro, delle bestie schifose.

“Sto morendo, – riesco a dire, – sono ammalata di cuore”.

Ci credono, non ci credono, si litigano.

“Facciamola scendere. No… sì…” Vola un ceffone tra di loro. Mi schiacciano una sigaretta sul collo, qui, tanto da spegnerla. Ecco, lì, credo di essere finalmente svenuta.

Poi sento che mi muovono. Quello che mi teneva da dietro mi riveste con movimenti precisi. Mi riveste lui, io servo a poco. Si lamenta come un bambino perché è l’unico che non abbia fatto l’amore… pardon… l’unico, che non si sia aperto i pantaloni, ma sento la sua fretta, la sua paura. Non sa come metterla col golf tagliato, mi infila i due lembi nei pantaloni. Il camioncino si ferma per il tempo di farmi scendere… e se ne va.

Tengo con la mano destra la giacca chiusa sui seni scoperti. È quasi scuro. Dove sono? Al parco. Mi sento male… nel senso che mi sento svenire… non solo per il dolore fisico in tutto il corpo, ma per lo schifo… per l’umiliazione… per le mille sputate che ho ricevuto nel cervello… per lo sperma che mi sento uscire. Appoggio la testa a un albero… mi fanno male anche i capelli… me li tiravano per tenermi ferma la testa. Mi passo la mano sulla faccia… è sporca di sangue. Alzo il collo della giacca.

Cammino… cammino non so per quanto tempo. Senza accorgermi, mi trovo davanti alla Questura.

Appoggiata al muro del palazzo di fronte, la sto a guardare per un bel pezzo. Penso a quello che dovrei affrontare se entrassi ora… Sento le loro domande. Vedo le loro facce… i loro mezzi sorrisi… Penso e ci ripenso… Poi mi decido…

Torno a casa… torno a casa… Li denuncerò domani.

(continua dopo il video)

Era il 9 marzo 1973 quando Franca Rame fu stuprata. La fecero salire a forza su un camioncino cinque esponenti dell’estrema destra, pedine di un gioco malato architettato da alcuni ufficiali dei Carabinieri per punire “la compagna di Dario Fo”, attrice teatrale, drammaturga, politica, attivista. Una donna scomoda, che parlava quando doveva stare zitta, che non sapeva tacere su quello che non andava e non funzionava. Che aveva prestato la sua voce prima all’Organizzazione Soccorso Militare e poi, negli anni Settanta, al movimento femminista. Una donna che doveva imparare a stare al suo posto.

Le spaccarono gli occhiali, le tagliarono viso e corpo con una lametta, – una maschera di sangue -, le bruciarono la pelle con le sigarette e la violentarono a turno. Per quello stupro non c’è mai stata nessuna condanna, ma solo la prescrizione, a 25 anni dal fatto, nonostante nel 1987 due fascisti, Angelo Izzo e Biagio Pitaresi, rivelarono al giudice Salvini che a compiere lo stupro fu una squadraccia neofascista e soprattutto che l’ordine di “punire” Franca Rame con lo stupro venne dall’Arma dei Carabinieri. Nonostante la testimonianza di Nicolò Bozzo, che sarebbe diventato stretto collaboratore di Carlo Alberto Dalla Chiesa e che al tempo dei fatti era in servizio presso la divisione Pastrengo.

 

by Eles

Il fantastico monologo di Luciana Littizzetto contro la violenza sulle donne – vediamo se arriva il messaggio: quando una donna dice NO è NO!

 

Luciana Littizzetto

 

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Il fantastico monologo di Luciana Littizzetto contro la violenza sulle donne – vediamo se arriva il messaggio: quando una donna dice NO è NO!

Io sono contenta di essere una donna. Solo ogni tanto vorrei essere un uomo per dirmi “Ciao bella figa”.

Poi mi piacerebbe essere un uomo per fare la pipì in piedi e magari scrivere nella neve “Saluti da Bardonecchia”, oppure “La panettiera di via Cosmo usa solo lievito madre”. Anche a letto se fossi un uomo avrei meno preoccupazioni. Intanto penserei che clitoride è un filosofo greco e poi crederei a lei quando mi dice che le dimensioni non contano, l’importante è come lo usi. Senza capire che le donne si riferiscono al cervello ovviamente. Poi mi piacerebbe essere un uomo perché potrei mangiare un Calippo come mi pare senza sentirmi osservata da tutti, e perché parcheggerei meglio di come parcheggio e soprattutto potrei incazzarmi con mia moglie perché non trovo il borsone del calcetto mentre lei prepara l’arrosto, consola un’amica, allatta il figlio, compila il 740 e intanto cerca di capire quando è libero l’amante. Vorrei essere un uomo quando devo andare al bagno dell’autogrill… Guadagnerei mesi di vita! Ma soprattutto vorrei essere un uomo per comprarmi interi pacchi di calze e mutande, tre paia a un euro… e sentirmi lo stesso felice. Però sono contenta di essere una donna, anche se non mi vanno giù un sacco di cose.

Per esempio non mi va giù che il mio stipendio debba essere più basso di quello di un uomo del 45%… che se un maschio italiano più o meno ogni mese guadagna 1000 €, una donna ne guadagna più o meno 550. Perché? Perché io che sono una donna devo guadagnare di meno? I conti li faccio meno bene? Gli affettati li taglio meno bene di un uomo?
E poi ti dicono “Eh… ma va così”. Allora se va così io riduco tutto del 45%. Se faccio la casalinga il bagno lo pulisco solo a metà, se faccio la barista ogni tre clienti uno lo salto… e la sera a letto invece di fare 9 settimane e mezzo ne faccio 5 scarse e poi basta.

Sono contenta di essere una donna, ma non mi va giù che le donne che hanno avuto finalmente il coraggio di denunciare il loro compagno violento, poi non sono state protette. Non ce l’hanno fatta. Nonostante avessero già tante volte denunciato il proprio aggressore. Perché?

Perché bisogna sempre aspettare una pugnalata perché quelle merde vengano sbattuti in galera. Le donne ferite devono sentirsi protette e sicure da subito. Se loro fanno il primo passo, il secondo passo dobbiamo farlo noi. Io sono contenta di essere una donna, ma non ce la faccio a pensare che devo firmare una lettera di dimissioni in bianco se resto in cinta… e mi fa rabbia pensare che quando io vado in maternità, poi non sono più sicura di ritrovare la mia scrivania al ritorno.

Non mi va giù pensare quanto sia difficile, difficile… trovare un posto per mio figlio in un asilo nido. E non sopporto l’idea che se il mio capo allunga le mani io debba tacere per non perdere il posto. E faccio anche fatica a pensare che quando io donna dico no, il mio no debba essere diverso da quello di un uomo. Perché se una donna dice no ad un uomo che la molesta, c’è sempre, sempre la convinzione che se la sia cercata. Che in fondo sia stata colpa sua. Perché quando il dito indica il maiale c’è sempre qualcuno che indica la donna e le da della zoccola. Perché magari era vestita provocante, perché era sola in giro alle tre di notte, perché… se ti fai tre mojito poi non puoi pretendere.

Allora… vediamo se arriva il messaggio! Quando una donna dice no è no! Può aver detto si a 99 uomini e voi siete il centesimo, è no lo stesso! A qualunque età, in qualunque luogo e con qualunque tasso etilico. Anzi, se lei è ubriaca e tu la molesti sei ancora più stronzo. Nessuno ti dà il diritto di toccarla, di abusarla e di violentarla. Solo perché sei più grosso, più forte o hai più potere. Quando una donna dice no è no, esattamente come quando lo dice un uomo. E poi senti cosa ti dico… non sta scritto da nessuna parte che una donna per non subire violenze, debba essere un modello di virtù, purezza e buon senso.

Mettiamo che io voglia essere puttana. Ok? Devo decidere io con chi e non sei tu che mi costringi.

 

8 Marzo – Un fantastico monologo di Luciana Littizzetto: “Cari uomini vi scrivo”…

Luciana Littizzetto

 

 

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8 Marzo – Un fantastico monologo di Luciana Littizzetto:  “Cari uomini vi scrivo”…

Amici. Amici del sesso avverso. Allegri compari di Sherwood. Cara altra metà della mela, quella dove c’è il vermino. Cari amici nati da un unico ceppo, ma differenti da noi per un’unica cippa.  Noi vi amiamo tanto anche in molti momenti della nostra vita che mai avremmo pensato. Vi amiamo quando adoperate l’asciugamano per la faccia per parti meno nobili e più vaste, vi amiamo anche quando, uscendo dalla doccia per divertirvi, vi pinzate il walter sotto le gambe e ci fate vedere come sareste se foste femmine… Ma abbiamo delle richieste da farvi. Cari e mansueti gorilla.

A noi donne più che la mimosa secca che ci regalate l’otto marzo dopo che è stata tutto il giorno sul cruscotto, ci serve che impariate tutti i giorni piccole e grandi cose.

Ci sarebbe già di conforto che non vi faceste lo shampoo con il balsamo, per dire. E capiste che tanto non fa schiuma anche se nell’insaponarvi ci mettete l’energia che ci vuole per stancare un vitello prima della marchiatura.

Avremmo desiderio che i calzini, così come sono nati, continuino a vivere appaiati anche quando saranno distanti dai vostri piedi. Ci piacerebbe che capiste, almeno una volta ogni quinquennio, cosa vi vogliamo dire a volte col nostro silenzio. Se ci vedete tacite e silenziose, provate a girarvi. Se per terra dietro di voi vedete venti merde a forma di piede, forse ci sarebbe piaciuto che vi levaste le scarpe dopo essere passati avanti e indietro nella fanga.

Vorremmo inoltre che oltre a sapere a memoria il numero di piede di Marchisio vi ricordaste anche i giorni di ricevimento dei professori dei figli. Adoreremmo che poteste comprendere, tra le varie e tante possibilità che vi si affacciano alla mente, che un bicchiere nel lavandino non deve per forza rimanere lì, ma è possibile lavarlo con due soli colpi di spugnetta… E che le pentole antiaderenti non sono fatte per disegnarci sopra dei geroglifici con la punta del coltello. Vorremmo che non consideraste come dogma assoluto che l’arrosto della mamma è più buono di quello che facciamo noi.

Il creatore non ha detto: “E la suocera fece l’arrosto, fatelo sempre così in memoria di me”.

E saremmo felici, se poteste non rimirare le tette delle altre come se fossero un’opera d’arte, e le nostre come due vecchie cugine.
Ci piacerebbe che prendeste il raffreddore per quello che è, e cioè un insieme di starnuti che dura quattro giorni, e non come una malattia invalidante senza speranza… E saremmo liete se almeno una volta nella vostra vita provaste ad appendere i pantaloni sull’attaccapanni in modo logico, pensandoci un attimo.

Il gancio ad esempio, va appeso e non infilato dentro l’orlo.

E infine vorremmo tranquillizzarvi cari homi sapiens sapiens. State sereni e non temete. Dire una volta tanto “ti amo” non crea né impotenza né assuefazione.

8 marzo – Ricordiamo Ipazia d’Egitto, la grande scienziata assassinata dai fondamentalisti Cristiani.

 

Ipazia d'Egitto

 

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8 marzo – Ricordiamo Ipazia d’Egitto, la grande scienziata assassinata dai fondamentalisti Cristiani.

Il ricordo di una grande donna e grande scienziata che anticipò i secoli con il suo pensiero, ma fu barbaramente uccisa dai fondamentalisti cristiani.

Una festa della donna l’8 marzo del 415 d.C. non era nemmeno immaginabile. Eppure c’è un filo che lega quel giorno così lontano al nostro presente, perché in quella data fu barbaramente uccisa una delle più grandi menti della storia: Ipazia d’Egitto, scienziata che fu vittima del fondamentalismo religioso che vedeva in lei una nemica del cristianesimo, forse per la sua amicizia con il prefetto romano Oreste che era nemico politico di Cirillo, vescovo di Alessandria (nonché venerato come santo della Santa Romana Chiesa, ma questa, forse, è un’altra storia).

Malgrado Ipazia fosse intima amica con Sinesio, vescovo di Tolemaide, che spesso seguiva le sue lezioni, i fondamentalisti temevano che la sua filosofia neoplatonica, il suo pensiero, la sua libertà, la sua mente così proiettata verso il futuro, il suo modo di discutere da pari a pari con scienziati e intellettuali (tutti rigorosamente uomini) della sua epoca, avessero un’influenza pagana, e dunque negativa, sulla comunità cristiana di Alessandria.

Il suo assassinio è stato uno dei più terribili e atroci crimini commessi dall’umanità contro la cultura e la scienza: la sua morte però segnò l’inizio del declino per Alessandria d’Egitto. Molti suoi studenti abbandonarono la città, divenuta nei secoli un famoso centro culturale di tutto il mondo antico, soprattutto per la sua biblioteca, bruciata dai soldati romani nel III secolo d. C. e che, si racconta, contenesse oltre 500.000 volumi, ovvero tutto lo scibile dell’epoca.

Secoli dopo, un’altra grande donna e scienziata, Margherita Hack, scrisse nella prefazione al libro “Ipazia. Vita e sogni di una scienziata del IV secolo d.c.” di Antonio Colavito e Adriano Petta (La Lepre Edizioni): “Ipazia rappresenta il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza che aveva fatto grande la civiltà ellenica. Con il suo sacrificio comincia quel lungo periodo oscuro in cui il fondamentalismo religioso tenta di soffocare la ragione. Tanti altri martiri sono stati orrendamente torturati e uccisi. Il 17 febbraio 1600 Giordano Bruno fu mandato al rogo per eresia, lui che scriveva: «Esistono innumerevoli soli; innumerevoli terre ruotano attorno a questi, similmente a come i sette pianeti ruotano attorno al nostro Sole. Questi mondi sono abitati da esseri viventi». Galileo, convinto sostenitore della teoria copernicana, indirettamente provata dalla sua scoperta dei quattro maggiori satelliti di Giove, fu costretto ad abiurare”.

Perché purtroppo ancora oggi il fondamentalismo non è morto, anzi…

 

tratto da Globalist – https://www.globalist.it/culture/2017/03/08/ipazia-la-scienziata-che-fu-assassinata-per-mano-dei-fondamentalisti-212847.html