Ricordando l’indimenticabile Mimì – Biagio Antonacci ricorda Mia Martini: “Mi dissero di non lavorare con lei perché portava sfortuna”

 

Mia Martini

 

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Ricordando l’indimenticabile Mimì – Biagio Antonacci ricorda Mia Martini: “Mi dissero di non lavorare con lei perché portava sfortuna”

Il cantautore milanese parla del suo rapporto con l’artista prematuramente scomparsa nel 1995: “Mia Martini è stata una donna eccezionale per la mia vita”.

Biagio Antonacci ricorda con affetto Mia Martini, la cui vita è stata raccontata nel film ‘Io sono Mia’ interpretato da Serena Rossi e andato in onda ieri sera su Rai1.
“Mia Martini è stata una donna eccezionale per la mia vita. Venne a Rozzano nella casa di mia madre che ci fece da mangiare una ‘cofanata’ di pasta con il pesce. Poi io mi misi al piano e lì cantai ‘Il fiume dei profumi’ nello studiolo di casa dove dormivo anche. Lei si mise là, umilissima, e disse “Questa canzone la canto io”. Poi ascoltò ‘Liberatemi’ e mi disse che sarebbe stato un successo pazzesco. E infatti accadde. Ma non accadde solo questo.
Certe persone che mi dissero allora di non lavorare con lei perché portava sfortuna (e furono tanti in quel periodo) alla fine la presero sui denti perché il disco vendette moltissimo alla faccia di quelli che oggi non fanno più nemmeno i discografici”.

 

 

tratto da: https://www.globalist.it/musica/2019/02/13/biagio-antonacci-ricorda-mia-martini-mi-dissero-di-non-lavorare-con-lei-perche-portava-sfortuna-2037393.html

Ricordando Whitney Houston – L’indimenticabile voce che ci lasciò l’11 febbraio di 8 anni fa…

 

Whitney Houston

 

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Ricordando Whitney Houston – L’indimenticabile voce che ci lasciò l’11 febbraio di 8 anni fa…

Ricordando Whitney Houston… Classe 1963, oggi la compianta Whitney Houston compirebbe 56 anni. La bella e talentuosa Nippy, così familiari e amici amavano chiamare affettuosamente Whitney, è scomparsa prematuramente l’11 febbraio del 2012, la vigilia dei Grammy Awards, quando è stata trovata priva di vita nella vasca da bagno di una stanza del Beverly Hills Hotel, a Los Angeles, tre anni prima che la sua unica figlia Bobbi Kristina seguisse il suo triste destino.

“Il mio più grande demone sono io. Sono il mio miglior amico o il mio peggior nemico”, aveva detto la souldiva americana non molto tempo prima di morire, forse consapevole, almeno in parte, che la spirale distruttiva dalla quale tentava faticosamente di uscire da anni non l’avrebbe risparmiata. A ucciderla è stato infatti un micidiale cocktail di alcol e droghe, l’ennesimo dopo anni di abusi iniziati quando era la moglie di Bobby Brown, ex frontman dei leggendari New Edition diventato celeberrimo alla fine degli anni Ottanta grazie a due bestseller solistici.

Whitney Houston era la figlia della diva gospel Cissy Houston e la nipote della leggendaria cantante soul Dionne Warwick, un’icona della musica e del cinema internazionali lanciata nello star system di serie A nella prima metà degli anni Ottanta. Personaggio chiave tra la Vecchia Scuola soul e la nuova generazione r&b, Nippy ci lascia un’eredità musicale che non teme confronti, e che i suoi fan, così come le nuove leve del pop, non dimenticheranno mai.

Fu una cantante e attrice, da molti considerata la più grande voce del nostro tempo, infatti per Rolling Stone merita il 34° posto nella classifica dei 100 cantanti più grandi di tutti i tempi.

Il suo grandissimo successo arriva negli anni ’80 e le permetterà di accedere a mercati fino ad allora preclusi alle cantanti di colore. Da questo trampolino di lancio la cantante ha poi dominato le classifiche mondiali, in particolar modo la Billboard Hot 100, nella quale ha piazzato sette singoli consecutivi alla numero uno, tra le altre cose battendo il record di cinque appartenente a Diana Ross & The Supremes e ai Beatles.

Durante la sua carriera ha venduto 200 milioni di dischi e ha ricevuto oltre 400 premi, insomma è l’icona dello slow-pop che piace, trasversalmente, a tutte le culture e generazioni di mezzo mondo.

ECCO 5 CON CUI VOGLIAMO RICORDARE WHITNEY HOUSTON:
 I Will Always Love You

I wanna dance with somebody (who loves me)

Greatest love of all

I’m every woman 

How will I know 

La vera, grande, unica vincitrice di quest’ultimo Sanremo: Fiorella Mannoia. Come al solito senza peli sulla lingua, la sua canzone “Il Peso del Coraggio” è una appassionata, feroce, potente denuncia contro la disumanità del mondo di oggi. Un pezzo che ci dovrebbe far pensare… se ne siamo ancora capaci…!

 

Fiorella Mannoia

 

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La vera, grande, unica vincitrice di quest’ultimo Sanremo: Fiorella Mannoia. Come al solito senza peli sulla lingua, la sua canzone “Il Peso del Coraggio” è una appassionata, feroce, potente denuncia contro la disumanità del mondo di oggi. Un pezzo che ci dovrebbe far pensare… se ne siamo ancora capaci…!

Come al solito non ha peli sulla lingua Fiorella Mannoia, e mai li ha avuti: con la sua nuova canzone, Il Peso del coraggio, la cantante porta l’attualità e la politica in scena al’Ariston, e incredibilmente funziona: il pubblico in visibilio per la voce e per la carica emotiva di una delle cantanti più amate d’Italia. E ora aspettiamo le critiche, che sicuramente arriveranno, ma ci accontentiamo di aver finalmente visto un bel momento di televisione a Sanremo.

(a fine articolo l’Official Video)
Il peso del Coraggio

Sono questi vuoti d’aria
Questi vuoti di felicità
Queste assurde convinzioni
Tutte queste distrazioni
A farci perdere

Sono come buchi neri
Questi buchi nei pensieri
Si fa finta di niente
Lo facciamo da sempre
Ci si dimentica

Che ognuno ha la sua parte in questa grande scena
Ognuno i suoi diritti
Ognuno la sua schiena
Per sopportare il peso di ogni scelta
Il peso di ogni passo
Il peso del coraggio

E ho capito che non sempre il tempo cura le ferite
Che sono sempre meno le persone amiche
Che non esiste resa senza pentimento
Che quello che mi aspetto è solo quello che pretendo
Ed ho imparato ad accettare che gli affetti tradiscono
Che gli amori anche i più grandi poi finiscono
Che non c’è niente di sbagliato in un perdono
Che se non sbaglio non capisco io chi sono

Sono queste devozioni
Queste manie di superiorità
C’è chi fa ancora la guerra
Chi non conosce vergogna
Chi si dimentica
Che ognuno ha la sua parte in questa grande scena
Che ognuno ha i suoi diritti
Che ognuno ha la sua schiena
Per sopportare il peso di ogni scelta
Il peso di ogni passo
Il peso del coraggio

E ho capito che non serve il tempo alle ferite
Che sono sempre meno le persone unite
Che non esiste azione senza conseguenza
Chi ha torto e chi ha ragione
Quando un bambino muore
Allora stiamo ancora zitti
Che così ci preferiscono
Tutti zitti come cani che obbediscono
Ci vorrebbe più rispetto
Ci vorrebbe più attenzione
Se si parla della vita
Se parliamo di persone

Siamo il silenzio che resta dopo le parole
Siamo la voce che può arrivare dove vuole
Siamo il confine della nostra libertà
Siamo noi l’umanità
Siamo in diritto di cambiare tutto
E di ricominciare, ricominciare

E ognuno gioca la sua parte
In questa grande scena
Ognuno ha i suoi diritti
Ognuno ha la sua schiena
Per sopportare il peso di ogni scelta
Il peso di ogni passo
Il peso del coraggio
Il peso del coraggio.

Fiorella Mannoia

 

Lettera di una immigrata nigeriana al nostro Ministro degli Interni – “La pacchia la state facendo voi. Sulla nostra pelle. Sulla nostra vita…”

immigrata

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Lettera di una immigrata nigeriana al nostro Ministro degli Interni – “La pacchia la state facendo voi. Sulla nostra pelle. Sulla nostra vita…”

La pacchia la state facendo voi. Sulla nostra pelle. Sulla nostra vita…

…sui nostri poveri sogni di una vita appena migliore.

Lettera di una immigrata nigeriana al Ministro della Paura e dell’odio.

“Ho visto la sua faccia ieri al telegiornale. Dipinta dei colori della rabbia. La sua voce, poi, aveva il sapore amarissimo del fiele. Ha detto che per noi che siamo qui nella vostra terra è finita la pacchia. Ci ha accusati di vivere nel lusso, rubando il pane alla gente del suo paese. Ancora una volta ho provato i morsi atroci della paura…

Chi sono? Non le dirò il mio nome. I nomi, per lei, contano poco. Niente. Sono una di quelli che lei chiama con disprezzo “clandestini”.

Vengo da un paese, la Nigeria, dove ben pochi fanno la pacchia e sono tutti amici vostri. Lo dico subito. Non sono una vittima del terrorismo di Boko Haram. Nella mia regione, il Delta del Niger non sono arrivati. Sono una profuga economica, come dite voi, una di quelle persone che non hanno alcun diritto di venire in Italia e in Europa.

Lo conosce il Delta del Niger? Non credo. Eppure ogni volta che lei sale in macchina può farlo grazie a noi. Una parte della benzina che usa viene da lì.

Io vivevo alla periferia di Port Harkourt, la capitale dello Stato del Delta del Niger. Una delle capitali petrolifere del mondo. Vivevo con mia madre e i miei fratelli in una baracca e alla sera per avere un po’ di luce usavamo le candele. Noi come la grande maggioranza di chi vive lì.
E’ dura vivere dalle mie parti. Molto dura. Un inferno se sei una ragazza. Ed io ero una ragazza. Tutto è a pagamento. Tutto. Se non hai soldi non vai a scuola e non puoi curarti. Gli ospedali e le scuole pubbliche non funzionano. E persino lì, comunque, se vuoi far finta di studiare o di curarti, devi pagare. E come fai a pagare se di lavoro non ce ne è? La fame, la miseria, la disperazione e l’assenza di futuro, sono nostre compagne quotidiane.

La vedo già storcere il muso. E’ pronto a dire che non sono fatti suoi, vero?

Sono fatti suoi, invece.

Il mio paese, la regione in cui vivo, dovrebbe essere ricchissima visto che siamo tra i maggiori produttori di petrolio al mondo. E invece no.

Quel petrolio arricchisce poche famiglie di politici corrotti, riempie le vostre banche del frutto delle loro ruberie, mantiene in vita le vostre economie e le vostre aziende.

Il mio paese è stato preda di più colpi di stato. Al potere sono sempre andati, caso strano, personaggi obbedienti ai voleri delle grandi compagnie petrolifere del suo mondo, anche del suo paese. Avete potuto, così, pagare un prezzo bassissimo per il tanto che portavate via. E quello che portavate via era la nostra vita.

Lo avete fatto con protervia e ferocia. La vostra civiltà e i vostri diritti umani hanno inquinato e distrutto la vita nel Delta del Niger e impiccato i nostri uomini migliori. Si ricorda Ken Saro Wiwa? Era un giovane poeta che chiedeva giustizia pe noi. Lo avete fatto penzolare da una forca…

Le vostre aziende, in lotta tra loro, hanno alimentato la corruzione più estrema. Avete comprato ministri e funzionari pubblici pur di prendervi una fetta della nostra ricchezza.

L’Eni, l’Agip, quelle di certo le conosce. Sono accusate di aver versato cifre da paura in questo sporco gioco. Con quei soldi noi avremmo potuto avere scuole e ospedali. A casa, la sera, non avrei avuto bisogno di una candela…

Sarei rimasta lì, a casa mia, nella mia terra.

Avrei fatto a meno della pacchia di attraversare un deserto. Di essere derubata dai soldati di ogni frontiera e dai trafficanti. Di essere violentata tante volte durante il viaggio. Avrei volentieri fatto a meno delle prigioni libiche, delle notti passate in piedi perché non c’era posto per dormire, dell’acqua sporca e del pane secco che ti davano, degli stupri continui cui mi hanno costretta, delle urla strazianti di chi veniva torturato.

Avrei fatto a meno della vostra ospitalità. Nel suo paese tante ragazze come me hanno come solo destino la prostituzione. Lo sapete. E non fate niente contro la nostra schiavitù anzi la usate per placare la vostra bestialità. Io sono riuscita a sfuggire a questo orrore, ma sono stata schiava nei vostri campi. Ho raccolto i vostri pomodori, le vostre mele, i vostri aranci in cambio di pochi spiccioli e tante umiliazioni.

Ancora una volta, la pacchia l’avete fatta voi. Sulla nostra pelle. Sulle nostre vite. Sui nostri poveri sogni di una vita appena migliore.

Vedo che non ho mai pronunciato il suo nome. Me ne scuso, ma mi mette paura. Quella per l’ingiustizia di chi sa far la faccia dura contro i deboli, ma sa sorridere sempre ai potenti.

Vuole che torniamo a casa? Parli ai suoi potenti, a quelli degli altri paesi che occupano di fatto casa mia in una guerra velenosa e mai dichiarata. Se ha un po’ di dignità e di coraggio, la faccia brutta la faccia a loro.

fonte QUI

“La mia famiglia” – Il grandioso monologo di Paola Cortellesi sulle condizioni delle donne e dei giovani di oggi – Un vero cazzotto nello stomaco…

Paola Cortellesi

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“La mia famiglia” – Il grandioso monologo di Paola Cortellesi sulle condizioni delle donne e dei giovani di oggi – Un vero cazzotto nello stomaco…

 

La mia famiglia

La mia famiglia siamo uno, mi chiamo Colacci Luciana, sto per venire al mondo, e non vedo l’ora, perché nella pancia si sta veramente strettissimi. Mamma nonostante sia incinta di nove mesi, lavora a servizio da una signora, papà lavora per un traslochi, si chiama Mario e si lamenta sempre che non c’ha una lira dice sempre: se andassi a rubare, sì che sarei ricco! La differenza tra mamma e papà è che mamma lavora e si sta zitta, e papà invece lavora e si lamenta. Appena nascerò però m’ha promesso che mi fasci adentro la bandiara della Lazio, sai che risate!

La mia famiglia siamo cinque, io sto alle elementari e i miei hanno fatto altri due figli a raffica dopo di me, alla seconda femminuccia mio padre ha rosicato, e s’è calmato soltanto quando è arrivato il maschietto, papà ci tiene al cognome, e nel nostro paese lo puoi mantenere solo se sei maschio. A casa c’è tanto rumore, la televisione, il traffico della tangenziale, i mie fratelli che stanno sempre a piangere, papà che russa. Io vorrei un po’ di silenzio, secondo me quando si fa troppo rumore le persone non riescono apensare e, così, ci si confone.

La mia famiglia siamo trenta, con i miei compagni di classe stiamo sempre insieme per strada, noi ragazze sognamo l’amore romantico sotto la luna piena, i ragazzi invece disegnano enormi peni, come si dice? Enormi peni, sul muro, di tutte le forme, certe volte pure con le variazioni sofisticate, io veramente non la capisco st’ossessione che c’hanno i maschi. L’anno prossimo vorrei tanto fare la scuola alberghiera, però non ce l’ho vicino casa, dietro casa c’è ragioneria, allora mio padre mi ha detto che devo fare ragioneria così vado a scuola a piedi e risparmiamo 36.000 lire al mese della tessera dell’autobus.

La mia famiglia siamo quattro, mi sono presa il diploma e ho cominciato a lavorare, prima a nero, e poi sono entrata nel delirio di sti contratti a termine e ho cominciato a capire come funzionano le cose, e ho capito che io un posto fisso non lo avrei avuto mai, vivo ancora a casa con i miei, ma a venticinque anni mi sento stanca come se ne avessi cinquanta, però sto lì e sto zitta. Quando è morto mio padre non è che c’aveva la pensione o l’assicurazione perché lavorava a nero come tutti quelli del quartiere nostro, c’ha lasciato quattro soldi e una 127 verde che quando arrivavo sotto casa tutti quanti strillavano : “Eccola là è arrivata Luciana col testaverde! Mia madre c’ha settantanni e sta ancora a sevizio, che ora la chiamano collaboratrice domestica, ma per tutti rimane sempre una sguattera. E, siccome che nella vita uno parla sempre del lavoro che fa, gli avvocati parlano dei processi, i medici delle malattie, mia madre parla solo di stracci e di sapone, forse è per questo che sono venuta su una ragazzetta pulita!

La mia famiglia siamo due, mi hanno fatto un contratto a termine in un’azienda, ogni sei mesi me lo rinnovano, oramai è un bel po’ che lavoro, ho conosciuto Stefano, ci siamo innamorati, ci siamo pure sposati, lui fa il muratore, mi rispetta e ci vogliamo proprio bene, viviamo in un monolocale in affitto fuori Roma a Guidonia, a 350 euro al mese, che poi è la metà di quello che guadagno. Le vacanze le facciamo a fine settembre perché costa di meno, l’altranno in calabria nella pensione ci stavamo solo noi due e una vecchia su una sedia a rotelle trascinata da una moldava scoglionata, pure il cinema all’aperto aveva chiuso. Quando non pioveva andavamo al mare alla spiaggia libera, un giorno siamo andati persiono a visitare Potenza, gli unici turisti nella storia di quella città! La gente ci guardava strano, dicevano: boh gli si sarà fermata la macchina proprio qua. E invece dei monumenti ci indicavano direttamente i meccanici, però io e Stefano ci ridevamo sopra, capito, stavamo noi due e stavamo bene. Settimana dopo tornavamo al lavoro, guardavamo le foto con gli amci, raccontavamo la vacanza, a noi ci stava bene pure così, perché un lavoro ce l’avevamo ancora, ripetitivo faticoso, mal retribuito, però almeno ci faceva sopravvivere, era una vita di merda sia ben chiaro, però era quello che ci era capitato, e a noi ci stava bene pure così.

La mia famiglia siamo due e mezzo, un bel giorno ho compiuto trentatrè anni e mi sono detta: ma mica devo morire sulla croce come Cristo, io ho ancora tutta la vita davanti, in azienda mi hanno pure promesso che se lavoro tanto, non baccaglio sullo stipendio da fame, non pretendo i buoni pasto e mi fermo quel paio d’ore in più al giorno senza che mi paghino lo straordinario, dice che sicuramente mi rinnovano il contratto e pare che l’anno dopo mi assumano in pianta stabile. E io faccio tutto, faccio tutto, faccio tutto mi sacrifico, mi spacco la schiena per settecento euro al mese, e in più sorrido sempre che manco mi era stato rischiesto, però faccio un errore solo, uno solo, in un momento di grande gioia e di allegria, decido di mettere al mondo una creatura, con Stefano c’avevamo tanta voglia, e invece di riceve una pacca sulla spalla, mi vengono a dire che non mi rinnovano il contratto, che l’azienda deve risparmiare, che mi ringrazia per il lavoro svolto ma non hanno più bisogno di me, e me lo dicono che sto al settimo mese di gravidanza, con mio marito che sta a lavorare in Germania, e mia madre che non gliela fa più manco a tenersi dritta con la schiena. E che dite? Ma come vado avanti io secondo voi? Che faccio mi vendo la 127?

La mia famiglia siamo tre milioni settecento cinquantasettemila, io faccio parte di quel 12% del paese che sta sotto la soglia di povertà, io non chiedo niente di speciale, io voglio solo essere ascoltata, io rivoglio la vita mia, rivoglio lo stipendio basso mio, voglio essere premiata perché metto al mondo una creatura. Una donna se rimane incinta e non ha il contratto protetto rimane sull’astrico, io non lo voglio il macchinone, i capelli me li tingo da sola, ma ridatemi lo stipendio mio! Io non sono pazza, io sono soltanto stanca!
Il piccolo mario è nato, pesava nemmanco due kili, però non ha versato nemmeno una lacrima, ci ha guardato dritto negli occhi, sembrava un piccolo guerriero silenzioso. Nostro signore ha detto che gli ultimi saranno i primi, non ha detto di preciso quando.

La mia famiglia siamo tre.

QUI il video:

20 drammatiche differenze tra le ragazze di vent’anni e quelle di trenta

 

ragazze

 

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20 drammatiche differenze tra le ragazze di vent’anni e quelle di trenta

C’è l’errata tendenza a considerare la ragazza alla stregua di un concetto astratto, come fosse un individuo eterno e immutabile, e invece anche le fighe sono soggetto all’erosione del tempo, esattamente come le catene montuose o il girovita di Giuliano Ferrara. Perciò oggi analizzeremo le principali differenze tra una bella sgnacchera nel fiore dei suoi anni e una che orbita attorno al pianeta dei trenta. Che bella la superficialità.

#1. A vent’anni il sabato vai in discoteca, a trenta vai all’Ikea.

#2. Quando hai vent’anni sui siti ti compaiono banner di minigonne, a trenta di cosmetici antirughe.

#3. A vent’anni vorresti avere le certezze dei trenta, a trenta le certezze dei vent’anni.

#4. A vent’anni non pensi a sposarti ma credi lo farai, a trenta pensi a sposarti ma credi non lo farai.

#5. A vent’anni non hai ancora imparato bene a truccarti, a trenta nemmeno.

#6. A vent’anni vuoi andare in vacanza ad Ibiza, a trenta in una SPA vicino casa.

#7. A vent’anni ti alleni per la prova costume, a trenta ti compri un pareo.

#8. A vent’anni non disdegni la camporella, a trenta pretendi almeno 80 mq di appartamento per fare sesso.

#9. A vent’anni quando qualcuno ti parla alle spalle ne fai una tragedia, a trenta te ne sbatti le palle.

#10. A vent’anni ti senti più giovane di quel che sei, a trenta più vecchia di quel che sei.

#11. A vent’anni cerchi il principe azzurro, a trenta ti basta uno che usi il deodorante.

#12. A vent’anni il reggiseno è un mero accessorio, a trenta deve svolgere il ruolo del suo nome.

#13. A vent’anni la tua miglior amica è la tua confidente, a trenta la tua migliore amica è il piumino.

#14. A vent’anni hai il fisico per comprarti vestiti audaci ma non hai i soldi, a trenta non hai più il fisico per comprarti vestiti audaci ma hai ancora meno soldi.

#15. Se sei single a vent’anni è normale, se sei single a trenta sei pazza.

#16. A vent’anni il culo è più forte della gravità, a trenta bisogna convertirsi al Dio dello squat.

#17. A vent’anni hai paura di rimanere incinta, a trenta hai paura di chi ti mette incinta.

#18. A vent’anni ti innamori, a trenta stringi contratti.

#19. A vent’anni liste come queste ti lasciano indifferente, a trenta cominci a lanciare la bibliografia di Hannah Arendt contro lo schermo del PC.

#20. A vent’anni è facile essere fighe, ma se lo sei a trenta hai vinto la guerra.

 

fonte: OLTREUOMO

Il Premio Nobel per la Pace 2018 NADIA MURAD: “Il mondo ha un solo confine, quello dell’umanità”…!

Premio Nobel

 

 

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Il Premio Nobel per la Pace 2018 NADIA MURAD: “Il mondo ha un solo confine, quello dell’umanità”…!

Nadia Murad “è un essere umano di grande carisma, senti quanto sia speciale ogni volta che sei nella stanza con lei. Trasmette una straordinaria forza e capacità di resilienza”. Così Alexandria Bombach descrive all’ANSA la 25enne yazida, che riceverà lunedì 10 dicembre il premio Nobel per la Pace 2018, della quale ha firmato un coinvolgente e potente ritratto in ‘Sulle sue spalle’, vincitore del premio per la migliore regia di un documentario al Sundance Film Festival di quest’anno. Il film non fiction è in sala come evento speciale dal 6 al 12 dicembre con I Wonder Stories, in collaborazione con Sky Arte, che manderà in onda anche 10 minuti in esclusiva del film proprio nei giorni della consegna del premio a Nadia. Nadia Murad viene premiata insieme al medico e attivista congolese Denis Mukwege per l’impegno volto a denunciare e porre fine all’uso della violenza sessuale come arma di guerra. Un obiettivo al quale la giovane yazida, sostenuta anche da Amal Clooney, ha dedicato la sua vita, dopo essere fuggita dall’Isis, che l’aveva catturata ventenne nell’estate 2014 durante un raid nel nord dell’Iraq che aveva come obiettivo sterminare la minoranza religiosa yazida, da secoli vittima di genocidi. I terroristi islamici hanno ucciso in quelle poche settimane oltre 5000 persone e catturato fatto e fatto prigionieri circa 7.000 donne e bambini per farli diventare schiave sessuali e bambini soldato. Nadia (che ha perso 18 membri della sua famiglia, tra cui la madre e sei fratelli), ripetutamente torturata e violentata è riuscita a scappare dopo tre mesi, trovando rifugio prima in un campo profughi poi in Germania. Da allora, pur sapendo di rischiare la vita (riceve costantemente minacce), ha deciso di raccontare la sua storia, per mobilitare la politica e l’opinione pubblica internazionale contro le violenze perpetrate dall’Isis e per la difesa del suo popolo e delle donne che hanno subito il suo stesso calvario. Prima che tutto succedesse “tra i miei sogni c’era aprire un salone di bellezza, perché volevo che le donne e le ragazze si vedessero speciali – spiega Nadia, occhi grandi, volto scolpito nel dolore, che a volte si apre a disarmanti sorrisi -. Questo mi è stato tolto in un modo per il quale non credo sia possibile tornare indietro”.

tratto da: https://raiawadunia.com/premio-nobel-a-nadia-murad-il-mondo-ha-un-solo-confine-quello-dellumanita/

 

Rosa Parks, dopo quel Primo Dicembre di 63 anni fa il mondo non è stato più lo stesso…

 

Primo Dicembre

 

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Rosa Parks, dopo quel Primo Dicembre di 63 anni fa il mondo non è stato più lo stesso…

Il mondo di Rosa Parks, prima e dopo il giorno del bus
Chi era la sarta arrestata nel 1955 a Montgomery per essersi seduta dove non doveva? Non fu l’unica donna attivista per i diritti dei neri. Molta influenza la ebbero le parrucchiere! La professoressa Nadia Venturini ci racconta i retroscena delle storiche svolte negli Usa

Quando si domanda chi era Rosa Parks, la risposta più comune, la più sbrigativa ed essenziale è: “Quella sarta di colore che si era rifiutata di alzarsi nell’autobus riservato ai bianchi ed era stata messa in prigione”.

Tutto vero, ma intorno alla figura della donna che nel 1955, con un gesto semplicissimo, diede il via alla reazione di massa dei neri a Montgomery con il conseguente boicottaggio (per un anno) dei mezzi di trasporto, sono nate e si sono sviluppate molte altre realtà sociali e politiche.

Rosa Parks fu la scintilla e poi la bandiera della protesta afroamericana negli stati del Sud, un personaggio chiave che da oltre mezzo secolo ispira la letteratura mondiale.

In Italia, uno dei massimi esperti in materia è NADIA VENTURINI, professore associato di Storia del Nord America presso l’Università di Torino. Autrice di testi quali «Neri e Italiani ad Harlem» e «Con gli occhi fissi alla meta», la docente ha appena pubblicato «La strada per Selma – La mobilitazione afroamericana e il Voting Rights Act del 1965».

Le abbiamo chiesto un contributo autografo. Ecco il suo ricco approfondimento.

IL SUD 50 ANNI FA  

E’ difficile crederlo, guardando Obama e Michelle, ammirando gente dello spettacolo come Oprah Winfrey e Denzel Washington. Eppure la segregazione esisteva davvero negli undici stati che avevano fatto parte della Confederazione durante la Guerra Civile. 

 

 

Era un sistema rigido che teneva i neri separati dai bianchi nei luoghi pubblici e sui mezzi di trasporto. Relegava i neri in scuole di livello inferiore, li escludeva da molte occupazioni e prevedeva salari più bassi. Ma soprattutto ogni stato elaborava stratagemmi legali per impedire ai neri di registrarsi per votare, come ha descritto molto bene la regista Ava DuVernay nel film Selma. 

I NERI SAPEVANO DOVE NASCONDERSI PER ORGANIZZARE LE LORO AZIONI 

La segregazione conteneva un paradosso: la legislazione del sud obbligava a mantenere ad uso esclusivo dei neri una serie di spazi pubblici molto eterogenei (chiese, bar, associazioni ricreative, barbieri e beauty shop) e quindi permetteva agli afroamericani di avere luoghi in cui potersi nascondere e organizzare all’insaputa dei bianchi, senza dover ricorrere a stratagemmi. Un fenomeno che riguardava in modo particolare le donne, spesso escluse dai livelli dirigenti delle organizzazioni per i diritti civili. Perfino nel memorabile giorno della Marcia su Washington, nessuna donna parlò sul palco. Per questo motivo, la vicenda di Rosa Parks ci consente di scoprire un risvolto ancora poco conosciuto di quella che fu la lotta per i diritti civili degli afroamericani. 

CHI ERA ROSA PARKS PRIMA DI DIVENTARE FAMOSA  

Non era né anziana, né stanca: però si era stancata di subire. Aveva 42 anni, faceva la sarta, era attiva nel volontariato della sua chiesa e da vent’anni attivista della NAACP di cui, a Montgomery, era segretaria del responsabile locale E.D. Nixon.

Rosa McCauley Parks aveva accumulato esperienze come attivista per i diritti civili, fin da quando negli Anni 30 aveva partecipato col marito Raymond Parks alla campagna per la liberazione dei 9 ragazzi di Scottsboro, ingiustamente accusati di stupro. Dopo la fine del boicottaggio di Montgomery era diventata un’icona nazionale, ma sia lei che il marito avevano perso il lavoro. Dovettero trasferirsi a Detroit e ripartire da zero. Rosa veniva invitata a convegni e manifestazioni, ma non le offrirono mai un impiego adeguato alla sua esperienza di attivista. Continuò come volontaria ad impegnarsi sul tema della giustizia criminale e del trattamento dei neri nel sistema giudiziario.

L’ARRESTO: NON ERA SEDUTA NEL SETTORE DEI BIANCHI  

Quando venne arrestata a Montgomery nel 1955, non si era seduta nella parte bianca del bus, ma in quella intermedia di separazione delle razze, che veniva occupata solo quando il bus era molto affollato. L’autista le ordinò comunque di alzarsi per cedere il posto a un uomo bianco, Rosa rifiutò, venne imprigionata e liberata la sera stessa grazie alla cauzione pagata dall’avvocato bianco antirazzista Clifford Durr. E.D. Nixon progettò la causa giudiziaria che avrebbe portato la Corte Suprema, un anno dopo, a decretare l’incostituzionalità della segregazione sui mezzi di trasporto. Intorno alla vicenda di Rosa si creò una mobilitazione della comunità nera: 40mila persone fra chiese, associazioni, donne di ogni estrazione sociale.

L’INTERVENTO DI MARTIN LUTHER KING IN DIFESA DELLA PARKS  

Il 5 dicembre, giorno del processo, in un’affollata assemblea tenuta in chiesa, alla Parks non venne data la parola ma fu Martin Luther King a sottolineare la sua reputazione di buona cittadina. Una rispettabilità inattaccabile, quella più compatibile con la definizione della femminilità nel dopoguerra, in cui la maggior parte degli afroamericani tentavano di aderire ai valori della società dominante per ritagliarsi uno spazio personale e professionale anche nel mondo segregato del sud. Parks divenne così una sorta di bandiera della causa per la desegregazione dei mezzi pubblici di Montgomery e poi un’icona del movimento.

NON SOLTANTO ROSA: LE ALTRE DONNE DELLA RIBELLIONE  

Nel 1955 Rosa Parks era un’attivista molto consapevole, cosciente che la scandalosa situazione dei bus di Montgomery non era dovuta solo alla segregazione , ma ai deliberati maltrattamenti degli autisti bianchi verso la prevalente utenza nera . Rosa e Nixon avevano partecipato ad una Leadership Training Conference della NAACP, organizzata da Ella Baker , che aveva contribuito a rafforzare i progetti di azioni legali contro la segregazione. Inoltre durante l’estate la Parks aveva partecipato ad un seminario presso Highlander Folk School (link) dove aveva conosciuto Septima Clark e Bernice Robinson: un incontro fra donne formidabili.

 

JO ANN ROBINSON: FU LEI A IDEARE IL BOICOTTAGGIO DEI BUS 

Il boicottaggio degli autobus di Montgomery iniziò il 5 dicembre 1955 e si concluse il 21 dicembre 1956: fu una delle più straordinarie dimostrazioni di resistenza non violenta che si ricordino. Migliaia di afroamericani rinunciarono al trasporto pubblico per un anno intero.

I NERI PAGAVANO IL BIGLIETTO E POI VENIVANO LASCIATI A TERRA  

Ma quel boicottaggio non fu progettato da Rosa Parks o da Martin Luther King o dai leader afroamericani. Fu ideato da Jo Ann Robinson, presidente del Women’s Political Council, un’associazione femminile afroamericana. Occorre spiegare che tre quarti dei passeggeri degli autobus erano neri e subivano vari abusi. Il regolamento prevedeva che dopo aver pagato la propria tariffa, gli utenti neri scendessero per risalire dalla porta posteriore, ma talvolta venivano lasciati a terra, e le donne spesso subivano maltrattamenti. Molte lamentele arrivavano al WPC della Robinson la quale già nel 1954 aveva avvisato il sindaco che 25 organizzazioni locali erano pronte ad avviare un boicottaggio degli autobus.

QUELLA NOTTE PASSATA A STAMPARE VOLANTINI DI PROPAGANDA 

Quando seppe dell’arresto di Rosa Parks, Robinson agì con prontezza e segretezza. Nella notte fra il 1° e il 2 dicembre 1955, stilò un breve comunicato anonimo, nel quale riferiva che «un’altra donna negra è stata arrestata e gettata in carcere perché ha rifiutato di alzarsi e cedere il posto ad una persona bianca sull’autobus». Invitava quindi i cittadini neri a non prendere gli autobus il 5 dicembre, giorno del processo. Il volantino era anonimo, conciso e privo di retorica. Fu stampato nella notte in diecimila copie. La Robinson, con l’aiuto di studenti e colleghi, utilizzò di nascosto il centro stampa del college e all’alba venne organizzata la distribuzione presso scuole, negozi, birrerie, saloni di bellezza e barbieri. Alle due del pomeriggio ogni volantino era stato passato più volte di mano: «Praticamente ogni uomo, donna o ragazzo nero a Montgomery conosceva il progetto e faceva passaparola. Nessuno sapeva da dove fossero venuti i volantini o chi li avesse fatti circolare, e a nessuno importava. Nel profondo del cuore di ogni persona nera vi era una gioia che non osava rivelare», raccontava tempo dopo la Robinson.

LE DOMESTICHE DI COLORE OSTENTAVANO CALMA A CASA DEI BIANCHI  

Insomma, era stato un gruppo di donne che, con furtiva abilità, aveva innescato la protesta. Il che testimonia ancora una volta come negli Anni 50 per i neri dissenzienti del sud la dissimulazione della protesta fosse considerata vitale.Le domestiche, ad esempio, che lavoravano fino a tardi presso le famiglie dei bianchi, quel giorno lessero di corsa e di nascosto il volantino per poi distruggerlo subito dopo e continuare a lavorare di buon umore, per non fare trapelare nulla. 

BERNICE ROBINSON E L’ATTIVISMO DELLE PARRUCCHIERE  

I volantini del boicottaggio di Montgomery venivano lasciati soprattutto nei saloni di bellezza. Già, perché molte parrucchiere ed estetiste erano attiviste dei diritti civili, ormai da decenni. Parecchie di loro erano aderenti alla NAACP e diffondevano fra le loro clienti i materiali per potersi registrare e votare.

Le beauticians nere erano professioniste indipendenti, mediamente più colte di altre donne che svolgevano lavori umili. Talvolta disponevano di un negozio attrezzato, talvolta esercitavano nelle proprie case, ma erano tutte piccole imprenditrici libere dal controllo bianco, che potevano affermare una leadership riconosciuta nelle loro comunità. L’importanza di questa professione traeva origine da uno dei tratti distintivi delle donne nere, disprezzato dal razzismo bianco e invece esaltato dalla cultura del Black Power: i capelli ricci, difficili da trattare, che richiedevano l’uso di prodotti specifici e l’abilità di professioniste specializzate. Fino agli Anni 60 prevaleva lo stile conformista che imitava le acconciature delle donne bianche: poi emerse la scelta ribelle di portare i capelli afro, come Angela Davis.

Le «beauticians» nere controllavano uno spazio fisico, il beauty shop, che era nel contempo pubblico e privato: forniva uno spazio intimo riservato alle donne, in cui le estetiste potevano parlare liberamente con altre donne per incoraggiarle all’attivismo o alla registrazione elettorale . La specificità professionale e l’indipendenza economica le portavano a sostenere diverse forme di attivismo politico. Highlander aveva organizzato alcuni seminari di formazione dedicati proprio a queste professioniste all’inizio degli Anni 50: essendo in contatto con tutti i settori della popolazione afroamericana, con donne di classi e formazione diverse, le beauticians erano in grado di raccogliere inf ormazioni di ogni tipo e diffonderle fra le loro clienti.

SEPTIMA POINSETTE CLARK, INSEGNANTE E RIVOLUZIONARIA  

Bernice Robinson venne coinvolta in questi contesti nel 1955 dalla cugina Septima Poinsette Clark (link). Insegnante elementare a Charleston, nel 1956 venne licenziata perchè non aveva voluto dimettersi dalla NAACP. Bernice aveva vissuto a lungo a New York, dove aveva appreso il mestiere di estetista e di sarta: quando dovette tornare a vivere a Charleston, trovò difficile abituarsi nuovamente alle restrizioni della segregazione. Divenne attiva nella NAACP locale, e costruì a lato della sua casa un laboratorio da estetista. Mentre faceva una messa in piega, incitava le clienti a registrarsi per votare.

Septima Clark condusse la Robinson al centro culturale Highlander, dove incontrarono Rosa Parks. Ognuna di loro nell’estate del 1955 prese decisioni che avrebbero sconvolto le loro vite. Bernice si fece convincere da Septima ad organizzare una scuola di cittadinanza nelle zone rurali più povere della South Carolina. Gli afroamericani erano in gran parte analfabeti, per cui non potevano registrarsi. La scuola di cittadinanza doveva dare un’alfabetizzazione primaria e un’educazione civica per conseguire questo obiettivo. 

Il modello di scuola popolare che aveva creato ebbe successo, molti afroamericani riuscirono a registrarsi, e vennero aperte scuole analoghe in tutto il sud. Dopo tre anni, Bernice lasciò il suo beauty shop, perché ottenne il ruolo di coordinatrice della formazione in tutto il sud. Viaggiava continuamente ed era in contatto con tutti i leader afroamericani. Nel 1965 andò con Septima a Selma per alcuni mesi, per insegnare ai neri locali a scrivere la propria firma.

Il Voting Rights Act del 1965 coronò gli sforzi di migliaia di donne afroamericane che avevano lottato per superare gli ostacoli posti dagli stati del sud al diritto di voto. Avevano creato oltre 900 scuole popolari, permettendo la registrazione di centinaia di migliaia di afroamericani. Erano donne determinate e coraggiose, venivano spesso dalle classi popolari, e alcune di loro avevano cominciato pettinando e truccando altre donne.

Fonte: La Stampa