Amarcord – 17 giugno 1970, 49 anni fa, la mitica semifinale Italia-Germania 4-3. Da allora all’ingresso dello stadio Azteca di Città del Messico è apposta la targa “El partido del siglo”

 

Italia-Germania

 

 

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Amarcord – 17 giugno 1970, 49 anni fa, la mitica semifinale Italia-Germania 4-3. Da allora all’ingresso dello stadio Azteca di Città del Messico è apposta la targa “El partido del siglo”

Italia-Germania 4-3: una brutta partita che fece la storia

Perfino chi non era ancora nato la porta nel cuore, sente un po’ di esserci stato. Perché Italia-Germania 4-3, semifinale del Mondiale 1970, è stata epica. In barba al gioco non strepitoso e agli errori. Ma grazie a un carattere che ci piacerebbe avere in tutti i momenti difficili

La partita fra azzurri e tedeschi occidentali è leggenda per il modo in cui i fatti si susseguono e per una serie di coincidenze che forse non sono tali, ma che in ogni caso arricchiscono una trama già ricca e complessa. Del resto, se ancor oggi all’interno dello stadio Azteca di Città del Messico una targa commemora “Italia y Alemania” come “el partido del siglo” (la partita del secolo), un motivo pure ci sarà.

È il 17 giugno di 45 anni fa, ci sono oltre 102mila spettatori sugli spalti, mentre altre centinaia di milioni di abitanti del pianeta sono collegati in Mondovisione. In palio c’è un posto in finale, dove il Brasile (che nel frattempo ha sconfitto per 3-1 l’Uruguay nell’altro confronto di semifinale) attende di sapere contro chi dovrà scendere in campo per giocarsi la Coppa Rimet domenica 21 giugno 1970. Sono le 16, ore locali, di un mercoledì in apparenza come altri. Il caldo – riportano le cronache – è piuttosto torrido, ma pochi sembrano farci caso. In Italia è tarda sera, nessuno capace di intendere e di volere vuole perdersi lo spettacolo.

Il gol di Boninsegna dopo otto minuti incanala l’incontro nella direzione che l’Italia preferisce: far fare gioco agli avversari e ripartire in contropiede. Ma, siamo due minuti oltre il 90°, All’ultimo assalto tedesco, la difesa italiana dà segni di cedimento ma in effetti manca pochissimo. Dal limite sinistro dell’area azzurra Grabowski lascia partire un cross al centro. Si avventa sul pallone il difensore Schnellinger, uno che avrà segnato tre volte in vita sua. La difesa azzurra lo lascia inspiegabilmente libero. Colpo quasi in spaccata e al 92’ e 30’’ la Germania pareggia.

E qui finisce la storia ed inizia la leggenda.

Muller porta in vantaggio i tedeschi.

Burgnich, che ancora oggi non sa cosa rispondere a chi gli chiede cosa facesse nell’area di rigore tedesca, pareggia al 98′.

Sinistro di Riva, al 104′: 3-2 sembra fatta. Sembra…

Sembra perché Rivera è troppo elegante per vestire la tuta di operaio: causa il 3-3 al 110′ “scansandosi” su un colpo di testa di Seeler.

Si farà perdonare trenta secondi dopo, calciando il pallone del 4-3 nell’immediato capovolgimento di fronte.

Ricorda Gianni Brera:

«I tedeschi sono battuti. Beckenbauer con braccio al collo fa tenerezza ai sentimenti. Ben sette gol sono stati segnati. Tre soli su azione degna di questo nome: Schnellinger, Riva, Rivera. Tutti gli altri, rimediati. Due autogol italiani (pensa te!). Un autogol tedesco (Burgnich). Una saetta di Bonimba ispirata da un rimpallo fortunato […]
Come dico, la gente si è tanto commossa e divertita. Noi abbiamo rischiato l’infarto, non per scherzo, non per posa. Il calcio giocato è stato quasi tutto confuso e scadente, se dobbiamo giudicarlo sotto l’aspetto tecnico-tattico. Sotto l’aspetto agonistico, quindi anche sentimentale, una vera squisitezza, tanto è vero che i messicani non la finiscono di laudare (in quanto di calcio poco ne san masticare, pori nan).
I tedeschi meritano l’onore delle armi. Hanno sbagliato meno di noi ma il loro prolungato errore tattico è stato fondamentale. Noi ne abbiamo commesse più di Ravetta, famoso scavezzacollo lombardo. Ci è andata bene. Siamo stati anche bravi a tentare sempre, dopo il grazioso regalo fatto a Burgnich (2-2). L’idea di impiegare i dioscuri Mazzola e Rivera è stata un po’ meno allegra che nell’amichevole con il Messico. Effettivamente Rivera va tolto dalla difesa. Io non ce l’ho affatto con il biondo e gentile Rivera, maledetti: io non posso vedere il calcio a rovescio: sono pagato per fare questo mestiere. Vi siete accorti o no del disastro che Rivera ha propiziato nel secondo tempo?»

Così scriveva Gianni Brera all’indomani della mitica semifinale (QUI l’articolo completo)

Per la cronaca, l’Italia perse la finale col Brasile per 1 a 4. Ma il primo tempo terminò 1-1 e le squadre si equivalsero… Il Brasile avava avuto un giorno di riposo in più e l’Italia una semifinale massacrante… Col senno di poi, se Schnellinger non avesse pareggiato a tempo ormai scaduto, ci saremmo persi la “partita del secolo”, ma forse avremmo avuto una finale diversa…

By Eles

Un Cult – Alberto Sordi in Finché c’è guerra c’è speranza – La fantastica scena del resoconto con la famiglia – un calcio nelle palle all’ipocrisia italiana. Tutti dovremmo vedere questa scena almeno una volta ogni 15 giorni!!

 

Alberto Sordi

 

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Un Cult – Alberto Sordi in Finché c’è guerra c’è speranza – La fantastica scena del resoconto con la famiglia – un calcio nelle palle all’ipocrisia italiana. Tutti dovremmo vedere questa scena almeno una volta ogni 15 giorni!!

 

La trama del film

Pietro Chiocca, commerciante milanese di pompe idrauliche, riconvertitosi ad un più lucroso commercio internazionale di armi, gira per i paesi del Terzo Mondo, dilaniati dalle guerre civili. Per mezzo di alcune astuzie, riesce a vincere un suo rivale diventando dipendente di un’industria più importante ed assai più redditizia.

La sua famiglia, già benestante e residente nel centro di Milano, può finalmente trasferirsi in una lussuosa villa nel verde, esaudendo così il desiderio di una viziatissima moglie.

Tutto pare andare a gonfie vele, finché un giornalista del Corriere della Sera, che gli aveva procurato il contatto per la vendita di armi ad un movimento di liberazione nazionale nello stato africano della Guinea-Bissau, denuncia all’opinione pubblica l’operato di Chiocca con un articolo dal titolo «Ho incontrato un mercante di morte».

Davanti allo sdegno e al disprezzo dei propri familiari, Chiocca si offre di tornare al suo vecchio e onesto lavoro, ma costoro, posti di fronte all’alternativa di una rinuncia all’altissimo tenore di vita, preferiscono ignorare l’origine dei guadagni del loro capofamiglia.

Un vero e proprio calcio nelle palle all’ipocrisia italiana.

Tutti dovremmo vedere questa scena almeno una volta ogni 15 giorni!!

 

 

Viva le quattro more: la vittoria delle nostre Pantere è un trionfo per l’Italia anti-razzista

anti-razzista

 

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Viva le quattro more: la vittoria delle nostre Pantere è un trionfo per l’Italia anti-razzista

Viva le Quattro more: la loro vittoria un trionfo per l’Italia anti-razzista

Loro sono brave belle e veloci. Velocissime come questo mondo che corre, comunica, si muove come non aveva mai fatto prima.

Le donne belle sono le donne libere e felici, quelle che vivono per un ideale, una passione. Loro sono il volto dell’Italia reale contro l’intolleranza xenofoba e la retorica dei ‘veri italiani’ bianchi che ricorda sinistramente le teorie della purezza della razza.
Loro sono la migliore risposta alla negazione dello Ius Soli che discrimina ragazzi nati in Italia e che da noi vivono regolarmente, hanno fatto le scuole e parlano perfettamente (come è ovvio che sia) la lingua della terra dove sono nati. Loro sono brave belle e veloci. Velocissime come questo mondo che corre, comunica, si muove come non aveva mai fatto prima. Idee e persone entrano in contatto senza più ostacoli. Internet, i social, i mezzi di trasporto veloci. Come possiamo credere di fermare le persone, il loro desiderio di contatto e di riscatto? Un secolo fa un pastore della Sardegna poteva anche non aver mai visto il mare o Nuoro. Il suo razzismo, la sua paura del diverso era giustificabile. Oggi no. Oggi sappiamo cosa succede praticamente ovunque. Il lager nazisti non erano conosciuti dalla maggior parte dei tedeschi, i lager libici sappiamo invece che esistono. Abbiamo foto, video, racconti. Tutto in tempo reale. Non abbiamo più alibi, ci è rimasta solo la cattiveria.

 

Maria Benedicta Chigbolu, Ayomide Folorunso, Raphaela Lukudo e la campionessa europea Libania Grenot hanno vinto la medaglia d’oro nella staffetta femminile 4×400 ai Giochi del Mediterraneo a Tarragona, in Spagna.
Una vittoria nello stesso giorno in cui a Pontida è andato in scena un meeting pieno di odio, razzismo e egoismo nazionalista (nel senso deteriore della parola). Oggi il razzismo ha già perso perché nessuno potrà fermare questo esodo di persone, idee e culture. Non lo permetterà la tecnologia ma anche i ragazzi dell’erasmus, le nuove gerazioni che si sono mescolate per scelta, studio, lavoro.

 

Migliaia i tweet e i post per celebrare la vittoria delle quattro ragazze. Mentre ovviamente non sono mancati post polemici come questo in cui si chiedeva che “visto che 4 ragazze italiane di colore vincono la staffetta 4×400 non sia adesso il caso di far entrare tutta l’Africa in Italia, così giusto per dominare le future olimpiadi?”.

 

Ma chi sono queste donne meravigliose? 

 

Libania Grenot, la più famosa del quartetto. Sempre dalle pagine Fidal si scopre che Libania “a Cuba era considerata un talento. Il papà Francisco è sindacalista, la mamma Olga giornalista. L’ultima apparizione con la maglia rossoblù e la stella è stata quella dei Mondiali di Helsinki 2005. Poi l’avventura italiana propiziata dal matrimonio, nel settembre 2006. Un anno di inattività praticamente completa, quindi la ripresa con il tecnico Riccardo Pisani a Tivoli. La cittadinanza è arrivata ad aprile 2008 aprendole la strada per il primo miglioramento del record italiano dei 400, da lei portato nel 2009 a 50.30. Dalla fine del 2011 si allena in Florida seguita dal tecnico statunitense Loren Seagrave. Nel 2014 la consacrazione internazionale con la vittoria agli Europei di Zurigo, mentre il 27 maggio 2016 è diventata primatista italiana dei 200 metri (22.56) a Tampa, negli Stati Uniti. Ha confermato il titolo continentale nel 2016 ad Amsterdam, dove ha conquistato anche il bronzo con la 4×400 azzurra, poi la sua prima finale olimpica individuale a Rio, seguita dal record italiano in staffetta”.

 

Ayomide Folorunso, 22 anni. Sempre la biografia della Fidal informa che “la sua famiglia è originaria del Sud-Ovest della Nigeria, ma “Ayo” dal 2004 si è stabilita con i genitori – la mamma Mariam e il papà Emmanuel, geologo minerario – a Fidenza: qui è stata notata nelle competizioni scolastiche dal tecnico Chittolini e affidata a Maurizio Pratizzoli. Non è riuscita a vestire l’azzurro nei Mondiali under 18 del 2013 pur avendo ottenuto il minimo in ben cinque specialità, perché ha ricevuto il passaporto pochi giorni dopo la rassegna iridata. A giugno del 2015 è stata arruolata in Fiamme Oro, proveniente dal Cus Parma. Nel 2016, agli Assoluti di Rieti, ha stabilito il primato italiano under 23 dei 400 ostacoli in 55.54 migliorando il personale di oltre un secondo, ritoccato a 55.50 con il quarto posto in finale agli Europei di Amsterdam. Semifinalista ai Giochi di Rio, dove ha realizzato il primato italiano con la staffetta 4×400 azzurra, nel 2017 ha conquistato il titolo europeo under 23 e anche l’oro alle Universiadi. Studentessa di medicina e aspirante pediatra, dimostra una personalità matura anche negli interessi culturali: appassionata di letture fantasy, non manca di approfondire quotidianamente anche le Sacre Scritture nella comunità pentecostale alla quale appartiene”.

 

Raphaela Lukudo, 24 anni, si viene a sapere che “la famiglia è originaria del Sudan, ma si era stabilita da tempo in Italia: prima nel Casertano e successivamente, quando “Raffaella” aveva appena due anni, a Modena. Ha scoperto l’atletica nel 2006, con il Mollificio Modenese, per diventare quindi una promessa del giro di pista sotto la guida tecnica di Mario Romano. Nel 2011, dopo aver dimostrato il suo valore ancora allieva ai Mondiali di categoria (semifinalista sul piano nonostante un infortunio alla vigilia della gara), si è trasferita per un paio di anni con la famiglia nei pressi di Londra, rientrando poi in Italia. Dal giugno 2015 si allena con Marta Oliva alla Cecchignola, nel centro sportivo dell’Esercito. Nella stagione indoor 2018 ha conquistato il suo primo titolo assoluto sui 400 metri per scendere a 53.08, ottava italiana alltime. Studia scienze motorie ma ha frequentato l’istituto d’arte, conservando la passione per “disegno e foto”.

 

Maria Benedicta Chigbolu, 29 anni, come si legge nella biografia Fidal (la Federazione italiana di atletica) è “la seconda di sei figli (tre fratelli e tre sorelle) di una insegnante di religione, Paola, e di un consulente internazionale nigeriano, Augustine. Il nonno Julius è stato una celebrità in Nigeria: ha partecipato ai Giochi olimpici di Melbourne 1956 arrivando in finale nel salto in alto e poi è anche diventato presidente della Federatletica nigeriana. Il primo approccio con l’atletica a sedici anni quando un professore dell’Istituto magistrale socio psicopedagogico Vittorio Gassman di Roma, notate le sue notevoli qualità fisiche, l’ha indirizzata al campo romano della Farnesina. Qui ha cominciato a praticare l’atletica seguita da Fulvio Villa. Reclutata nell’Esercito, è allenata a Rieti da Maria Chiara Milardi e legata sentimentalmente al quattrocentista azzurro Matteo Galvan. Ha vinto il bronzo europeo della 4×400 nel 2016, poi ha realizzato il primato italiano con la staffetta azzurra ai Giochi di Rio. Laureata in scienze dell’educazione e della formazione, in passato ha anche fatto la fotomodella”.

 

Da Sarda ho pensato ai Quattro mori… accostamento facile. Ma quella bandiera che tanto amo oggi l’ho immaginata con i volti di queste donne stupende che hanno battuto l’orrore di Pontida
tratto da: https://www.globalist.it/news/2018/07/02/viva-le-quattro-more-la-loro-vittoria-un-trionfo-per-l-italia-anti-razzista-2027193.html

Credito ai poveri – la fantastica storia Amedeo Giannini, il più grande banchiere al mondo…

 

Amedeo Giannini

 

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Credito ai poveri – la fantastica storia Amedeo Giannini, il più grande banchiere al mondo…

 

C’era una volta un uomo. Era un uomo vero, di quelli d’un tempo, e sarebbe divenuto il banchiere più grande del mondo. Uno di quegli uomini che dicevano “non voglio diventare troppo ricco, perché nessun ricco possiede la ricchezza, ma ne è posseduto”. All’epoca – si era in California, nell’America dei primi del Novecento – le banche davano soldi solo alle imprese già affermate. Nessuno dava credito alle piccole imprese. Quell’uomo decise di aprire la sua banca, ma non aveva una sede. Rilevò allora da una signora che voleva ritirarsi in pensione il contratto di affitto di un bar, in un incrocio, per 1.250 dollari. Non aveva clienti, e così iniziò un modo di fare banca diversa da tutte le altre dell’epoca. Si mise a girare per le strade, offrendo piccoli prestiti a chi voleva aprire un capannone, un piccolo ristorante, un esercizio commerciale. Nei primi del Novecento, era impossibile in America avere credito dalle banche, se eri una micro-impresa: vi era una regola per la quale non si davano prestiti inferiori ai 200 dollari. In pratica, per le somme minori ci si doveva rivolgere agli usurai. Quell’uomo iniziò a finanziare piccole cose, dando prestiti a partire da 25 dollari. Divenne famoso per la sua nuova cultura di banca.

Io per finanziare un uomo – era solito dire – voglio guardarlo negli occhi e vedere i calli sulle mani. A proposito del fatto che oggi tanto si parla di riforma delle banche popolari, ricordo che quell’uomo volle per la sua banca un azionariato diffuso, un azionariato popolare. Si occupò personalmente di andare a proporre le azioni a gente che non era mai stata in una banca: fornai, lattai, droghieri, ristoratori, idraulici, barbieri. Oggi si parla di austerity, di termini inglesi come “leverage” (il rapporto tra capitale e prestito), di rigore. Ricordo che anche allora si dicevano le stesse cose: in due mesi aveva raccolto 70.000 dollari, ma ne aveva impiegati 90.000 e i suoi soci erano preoccupati. Come faremo? – strillavano. Bisogna avere fiducia nella gente – rispondeva lui agli altri. La gente la ripagò, la sua fiducia. Cominciò ad andare nella banca che permetteva loro di finanziare una bottega, di avere un reddito dignitoso, di comprare una casa, di metter su famiglia, di mandare i figli a scuola. In un anno, quei 70.000 dollari divennero 700.000, e la banca continuava a crescere e a dare fiducia.

Nel 1906 a San Francisco avvenne un fatto terribile. Il terremoto distrusse la città e la gente si aggirava disperata per le strade, avendo perso tutto, casa e lavoro. Quell’uomo, mentre gli strozzini si aggiravano per le strade, andò sul molo della città, mise un tavolaccio di legno appoggiato su due barili, in mezzo alla folla dei disperati, ci salì sopra ed espose un cartello, con il titolo “Banca di (X), aperto ai clienti” (il nome della “X” ve lo dirò alla fine di questa storia). Resta il fatto che quell’uomo mise un sottotitolo che aveva lui stesso dipinto sul cartello quella notte: “Prestiti come prima, più di prima”. Quell’uomo si chiamava Peter, e stava realizzando il suo sogno di aprire una banca per i piccoli imprenditori, i diseredati, gli emigranti. La “banca” venne assalita da persone che avevano idee per ricostruire la città e lui prestava soldi con il suo metodo, guardando le persone negli occhi e osservando i calli sulle mani. Segnava i crediti su un quadernetto, annotando nomi e cifre. Girava con un carretto ed elargiva prestiti sulla fiducia, senza garanzia, a persone che non avevano potuto andare a scuola e che per lo più firmavano con una croce. Li valutava fidandosi della loro parola e del loro onore. Lui dava fiducia a quelli che avevano delle idee, dei progetti, non a quelli che avevano dei soldi o proprietà da dare in garanzia.

I suoi consiglieri gli dicevano che era un pazzo, che sarebbe finito in rovina. Invece, successe una cosa che nessuno si sarebbe aspettato. Quei piccoli imprenditori tornarono da lui, portando tanti altri amici, gente che toglieva i propri pochi depositi dalle altre banche e li andava a investire da Peter, l’uomo col carrettino. Pochi depositi, ma erano milioni di persone. Tutti gli immigrati della California, i nuovi piccoli imprenditori, vennero presto a conoscere la storia dell’uomo col carrettino e il nome di Peter divenne in breve mito, e da mito leggenda. Successe che l’uomo che dava fiducia al prossimo ricevette fiducia dal prossimo e i suoi conti crebbero, perché tutti volevano portare i propri risparmi alla banca di Peter. La sua politica era diversa da quella di tutte le banche dell’epoca ed era volta a dare soldi ai piccoli, agli artigiani, ai commercianti, agli agricoltori, ai piccoli imprenditori. La banca di Peter negli anni crebbe in tutta la California, aprendo filiali a San Francisco, a Los Angeles, fino ad attraversare l’immensa giovane nazione ed arrivare, nel 1919, a New York. Otto anni dopo, quella banca cambiò nome, e divenne la Bank of America.

All’epoca, i consiglieri della banca proposero un premio al suo fondatore, di addirittura 50.000 dollari. L’uomo, che aveva già guadagnato nella sua carriera quasi mezzo milione di dollari, restando fedele al suo detto di quando, da giovane, aveva deciso di creare una banca, per evitare di “essere posseduto dalla ricchezza” rifiutò il premio, dicendo che chiunque desiderasse avere più di 500.000 dollari doveva farsi vedere da un dottore. La smania di denaro è una brutta cosa – disse una volta – io non ho mai avuto quel problema. Detto da uno che a sette anni aveva visto il padre ucciso dopo un litigio per un dollaro, c’era da credergli. Infatti, fece devolvere più volte vari premi alla ricerca scientifica. Oggi le banche aborrono progetti innovativi e la finanza moderna pretenderebbe che non si investa in progetti originali e non consolidati, senza patrimoni dell’imprenditore e adeguate garanzie. Pensate allora a cosa doveva voler dire, all’epoca, finanziare una cosa sconosciuta e incredibile che si chiamava cinematografo: follia, per i suoi colleghi. Peter, a differenza di tutti gli altri banchieri, prestò i suoi soldi a un geniale innovatore, consentendo nel 1921 a tutto il mondo di conoscere “Il Monello”, il meraviglioso film di Charlie Chaplin.

Anni più tardi, finanziò Walt Disney, che gli parlava di finanziare un’altra incredibile rivoluzione tecnologica e cioè i cartoni animati. Il mondo conobbe così la favola di “Biancaneve e i sette nani.” Ancora, finanziò un visionario siciliano, Francesco Rosario Capra, rimasto senza lavoroper la crisi del ’29, rivelando così al mondo il genio del celeberrimo regista Frank Russel Capra. Così, mentre gli esperti di finanza insegnavano l’importanza di adottare regole restrittive, Peter finanziava i piccoli imprenditori guardandoli negli occhi e alla fine, tirando i conti, si scoprì che il 96% dei prestiti della banca erano stati rimborsati, senza alcuna garanzia. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la banchetta nata in un bar, proseguita su un carrettino, che ora si chiamava Bank of America, superò per depositi la First National Bank e la Chase Manhattan Bank, le due più grandi banche di New York, diventando così la più importante banca del mondo. Dopo la fine della guerra, Peter volle che la Bank of America si impegnasse in prima persona nel piano Marshall, cioè nel gigantesco piano di ricostruzione che ha consentito anche al nostro paese di ripartire, finanziando così, indirettamente, milioni di nostri piccoli imprenditori.

Quando, nell’ottobre del 1945, lasciò la presidenza della banca, lasciò i cassetti aperti, affermando che “né lui, né la sua banca, avevano nulla da nascondere”. Quando morì, quattro anni più tardi, dall’inventario dei suoi beni si scoprì che aveva mantenuto la sua parola, e pur essendo stato il banchiere della banca più grande del mondo, il suo patrimonio ammontava esattamente a soli 489.278 dollari, meno del mezzo milione per cui, secondo lui, uno sarebbe dovuto farsi vedere da uno psichiatra. Può sembrare una favola, ma è storia vera. L’ho raccontata perché oggi, se mi guardo intorno, io non vedo una situazione abissalmente diversa dal disastro di San Francisco del 1906 o dalla crisidel ’29. Mentre i politici parlano di riforma della legge elettorale, le imprese chiudono ogni giorno, la gente è a spasso, molti restano senza lavoro e senza speranza. Allora, esistevano uomini di banca come Peter. Oggi i piccoli imprenditori sono disperati. Le banche ripetono il mantra appreso da docenti, banchieri e politici che parlano in lingua inglese, chiedono garanzie, e si sente a ogni angolo la parola “austerity”. Gli anglosassoni ci vengono a insegnare come si fa il mestiere di banchiere e i tedeschi ci insegnano il rigore.

Ora, io avrei un sogno. Vorrei che in una nostra città, una qualunque, tra le macerie della nostra economia, un banchiere italiano, un politico italiano, uno statista, prendesse un tavolaccio, lo mettesse in mezzo a una strada e poi ci salisse sopra. Vorrei che ci posasse sopra un cartello con una scritta a mano in cui si leggesse: “Da oggi, prestiti all’economia, come prima, più di prima”. Sottotitolo: “Colleghi, l’austerity ve la potete mettere in quel posto”. E poi, vorrei che quest’uomo cominciasse a ridisegnare le regole del gioco della finanza mondiale, per insegnare a tutti che noi italiani non abbiamo bisogno di lezioni da nessuno, sul come si fa a fare il mestiere del banchiere. Il vero banchiere non chiede le garanzie, ma guarda i calli sulle mani. Questo, sarebbe il mio sogno. Perché sul cartello che quell’uomo aveva scritto di suo pugno, su quel tavolo in mezzo alla strada, c’era il nome della sua banca: Bank of Italy. Questo era il nome originario di quella che sarebbe divenuta, molti anni dopo, la più grande banca del mondo: la Bank of America. Il suo fondatore, l’uomo che guardava gli altri negli occhi e finanziava guardando i calli delle mani, l’uomo che si alzò in piedi insegnando al mondo a rialzarsi in piedi, l’uomo che insegnò a tutti che fare banca non significa chiedere regole, ma dare fiducia, non era un anglosassone. Peter era il secondo nome di Amadeo Giannini, in cerca di fortuna nell’America di fine ottocento, figlio di poveri migranti dell’entroterra ligure. C’era una volta un banchiere. Era un uomo vero. Era un italiano.

(Valerio Malvezzi, “L’incredibile storia del banchiere più grande del mondo”, dal sito “Win The Bank”, 2018).

tratto da: http://www.libreidee.org/2018/03/credito-ai-poveri-e-nacque-il-banchiere-piu-grande-al-mondo/

ATTENZIONE – È ufficiale: l’Inghilterra questa notte ha formalizzato la clamorosa rinuncia, per motivi politici, alla partecipazione ai prossimi Mondiali in Russia – L’Italia è RIPESCATA!

 

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ATTENZIONE – È ufficiale: l’Inghilterra questa notte ha formalizzato la clamorosa rinuncia, per motivi politici, alla partecipazione ai prossimi Mondiali in Russia – L’Italia è RIPESCATA!

 

E’ ufficiale, questa notte, poco dopo la mezzanotte di questo primo aprile 2018, l’Inghilterra ha reso noto la sua formale rinuncia alla partecipazione ai prossimi Mondiali di calcio in Russia.

E’ altrettanto ufficiale che – se siete arrivati a leggerci fino a questo punto senza mandarci a cagare – siete cascati pienamente nel nostro pesce d’aprile.

Buon primo aprile e buona Pasqua a tutti