“NaturalMente contadini” il progetto nato alle pendici dell’Etna che si sta facendo conoscere in tutta Italia – La coltivazione responsabile, senza pesticidi e nel pieno spirito del recupero delle tradizioni.

 

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“NaturalMente contadini” il progetto nato alle pendici dell’Etna che si sta facendo conoscere in tutta Italia – La coltivazione responsabile, senza pesticidi e nel pieno spirito del recupero delle tradizioni.

 

“NaturalMente Contadini”: gli agrumi “responsabili” alle pendici dell’Etna

La loro è una coltivazione responsabile, senza pesticidi e nel pieno spirito del recupero delle tradizioni di una terra ricca di frutti se la si ama e la si rispetta. “NaturalMente contadini” è un progetto che si è insediato alle pendici dell’Etna e che sta facendosi conoscere in tutta Italia.

«Abbiamo deciso di chiamarci NaturalMente Contadini non a caso, in questo nome è racchiusa la nostra mission» spiega Ottone Carmelo Viscardo, uno dei promotori del progetto. «Siamo ragazzi della provincia di Catania che da qualche anno sperimentano un percorso di coltivazione e produzione “responsabile” di agrumi, in particolare del frutto principe della valle del Simeto e del comprensorio Etneo, ovvero il Tarocco di Sicilia, una qualità unica di arance con proprietà introvabili in nessun’altra parte del mondo».

«Il nostro giardino è situato alle pendici dell’Etna, più precisamente in contrada Sferro, un territorio situato tra Paternò e Centuripe ed è una delle zone maggiormente dedite alla coltivazione agrumicola – prosegue Viscardo – Il nostro è uno degli agrumeti più antichi della zona: impiantato negli anni 60 ed ereditato dalle mani amorevoli di mio padre, io (Carmelo) ho deciso, insieme all’appoggio della mia famiglia e ad alcune persone che hanno creduto in me, come Francesco, di continuare da dove lui aveva lasciato, convertendolo però verso un modello di agricoltura sostenibile e priva quindi di sfruttamento del suolo e dell’uomo. Crediamo infatti nella coltivazione attraverso metodi naturali e privi di pesticidi, nell’adozione di tecniche alternative come l’utilizzo di insetti antagonisti e nell’impiego di nutrienti naturali per le nostre piante. La nostra mission principale è quella di rispettare la terra, e quindi di “collaborare” con essa anziché sfruttarla, nella coltivazione dei nostri tarocchi».

«Ma NaturalMente Contadini nasce prima di tutto per trasmettere questo principio di biosostenibilità e rispetto per la natura – spiega ancora Viscardo – per questo sin da quando siamo nati abbiamo cercato di metterci in rete e di essere noi stessi il fulcro di una rete collaborativa ,  sia con i consumatori ma localmente anche con i produttori che hanno sposato i nostri stessi valori. Così abbiamo avuto il piacere di incontrare lungo il nostro cammino alcuni agricoltori locali che in modo naturale riescono a coltivare limoni e avocado; ed è proprio questa esperienza positiva, di relazione e condivisione che ci spinge ancora oggi a ricercare altri coltivatori che come noi amano la terra e la rispettano, perché crediamo che sia necessario comprendere che chiedere alla natura più di quanto questa riesca ad offrirci possa inevitabilmente ritorcersi contro di noi».

«Oltre all’aspetto prettamente agricolo, il progetto si pone altri due principi altrettanto importanti, i quali segnano profondamente il modus operandi delle attività svolte all’interno del progetto stesso: il primo principio può essere sintetizzato dicendo che non esistono clienti di NaturalMente Contadini, ma “sostenitori”, a cui, prima di vendere un prodotto, lo si racconta. Essi vengono resi partecipi del nostro lavoro durante tutto l’anno, informandoli di tutto ciò che si fa per portare i nostri frutti sulle loro tavole, secondo quali principi vengono pianificati gli interventi e quanto di naturale ed ecocompatibile ci sia in ognuno di essi. L’arrivo del prodotto sulle tavole dei nostri sostenitori infatti è solo la concretizzazione di un rapporto di fiducia genuino, che spesso parte da una conoscenza nata dalla nostra pagina facebook, dai nostri blog “appunti della terra” e “diario di campagna” contenuti nel nostro sito».

«L’altro principio a cui siamo fortemente legati è quello della filiera corta – proseguono i ragazzi di NaturalMente Contadini – Parlare di km0 specialmente per la vendita degli agrumi in Sicilia significherebbe intraprendere una fantastica battaglia contro i mulini a vento in perfetto stile Don Chisciotte, e non per quei banalissimi luoghi comuni che vedono il siciliano tipo come individuo “mentalmente arretrato” rispetto al resto del mondo, vi assicuro che non è così. Bensì semplicemente per il fatto che la grande disponibilità di prodotto locale ne azzera totalmente la domanda. La distribuzione diretta dal nostro giardino o dalla rete che abbiamo creato insieme agli altri produttori, direttamente fino alle tavole dei nostri amici ci permette di saltare totalmente gli step intermediari di compravendita, il che fa sì che il prodotto abbia un prezzo equo, e che su quel prezzo i coltivatori abbiano un guadagno dignitosamente accettabile».

«Bypassare la GDO specialmente nella vendita di frutta e verdura in Sicilia si traduce nel voltare le spalle ad una serie di politiche commerciali ed accordi locali che da anni opprimono l’agricoltura siciliana, la concorrenza spietata e l’abbattimento dei prezzi per l’aggressione dei mercati ha fatto nascere in Sicilia e soprattutto nel settore agrumicolo un vero e proprio cartello. I coltivatori tradizionali ogni anno sono costretti a cedere il loro raccolto accettando silenziosamente o quasi, prezzi di mercato indecenti che spesso non coprono le spese per gli interventi di coltivazione annuali. Ogni centesimo scontato sugli scaffali dei grandi ipermercati viene viscidamente negato ai produttori siciliani, i quali hanno nei commercianti locali il loro unico canale di vendita e per cui senza nessun’altra alternativa cercano di recuperare quanto più possibile per il loro raccolto. Noi di NaturalMente Contadini abbiamo detto no a questo sistema, e attraverso la pianificazione di raccolte e spedizioni settimanali riusciamo ad evitare tutto, dando così dignità sia al nostro lavoro che ai nostri amici consumatori attraverso ciò che mettiamo sulle loro tavole, direttamente dalla piante appena raccolti e totalmente naturali, in fase di coltivazione e distribuzione».

«Siamo consapevoli di quanto dura sia la nostra battaglia di fronte ai grandi colossi della distribuzione, ma il nostro obiettivo è quello di diffondere i nostri valori e di vedere crescere la nostra rete di sostenitori e produttori sempre di più, così… NaturalMente».

 

tratto da: http://www.ilcambiamento.it/articoli/naturalmente-contadini-gli-agrumi-responsabili-alle-pendici-dell-etna

Il grano dono degli dei

 

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Il grano dono degli dei

Sacralità e poesia del pane

LIUCCIO GIUSEPPINOI Viaggi del Poeta

Il pane è da sempre re dell’alimentazione. Nei secoli è stato la benedizione delle case, simbolo di ricchezza e di abbondanza. La mancanza, sinonimo di privazione, stenti, miseria, E, forse per questo, la mitologia antica è popolata di dee e dei protettori dei campi e dei frumenti, i cui raccolti abbondanti assicuravano pane e sopravvivenza. Ritualità che si è, poi, trasferita nella liturgia cristiana, ricca, a sua volta, di madonne e santi a protezione di campagne. Quelli della mia generazione hanno fatto in tempo a vivere le atmosfere del forno a legna e la poesia del pane fatto in casa, come del successivo passaggio alla fase paraindustriale dei forni, diciamo così, pubblici. La panificazione in famiglia era una festa di mamme e nonne, dee sorridenti e prosperose, allo spolvero della farina, all’impasto a forza di muscoli robusti nella madia, che si gonfiava a crescita miracolosa di pasta, che, lacerata a pugni abbondanti, assumeva a colpi decisi di maestria di massaie, la forma di “panelle” e “panielli”, abilmente segnati, questi ultimi, per ricavarne, a prima croccante cottura, “vescuotti” biscotti da sgranocchiare e/o da conservare in cesti diligentemente coperti da bianchissime tovaglie, “mesali” di lino e generalmente appesi alle travate per la ventilazione. Come le “panelle”, d’altronde. E che spettacolo l’infornatura rapida a scivolo di pala nel forno incandescente di brace aromatizzata da fascine di collina e di montagna! Che ebbrezza spiare quelle forme che crescevano a sorriso rosato di pasta a cottura uniforme! Che aroma a pungere narici e solleticare desideri di deschi appetitosi quel pane fragrante e fumante appena sfornato ad esposizione di “tompagno” (si chiamava e si chiama ancora così quel quadrato di tavola approntato a momentaneo deposito delle forme appena cotte)! Memorie di altre stagioni!

Oggi il pane fatto in casa è una rarissima civetteria di donne e di famiglie che, periodicamente, riscoprono vecchie abitudini. Oggi ci sono panifici e panetterie e forni. E tutti i paesi, o quasi, ne dispongono di almeno uno. Ma per fortuna resistono ancora quelli a legna con la panificazione all’antica. Ed è frequente trovarli nel mio Cilento. Quando, camminando per strade, slarghi e vicoli, ti inonda una zaffata fragrante che ti punge le narici e solletica l’appetito, è la spia che il forno è quello giusto, soprattutto se dai comignoli dei tetti rossi, (che poesia i comignoli e gli embrici rossi che squillano al fioco sole dell’autunno/ inverno e mettono allegria !) fuoriesce ondeggiante a gomitoli la nuvola biancastra con il carico di aroma di erica e ginepro di montagna. Puoi, anzi devi, fermarti. Hai trovato il tuo “pane quotidiano”

Il richiamo al “Padre Nostro”, la preghiera che si recita sempre in forma corale e solenne durante la messa ci riporta alla sacralità del pane. E, d’altra parte, quelli della mia generazione hanno esperienze e ricordi nitidi di ritualità di grande fascino che si praticavano e si praticano ancora durante la Settimana Santa nei paesi del Cilento Ne ho scritto altre volte, ma lo faccio accora, convinto come sono della validità didattica e della tecnica di comunicazione del vecchio adagio “repetita iuvant”. E così mi rifaccio ancora ai ricordi di dolce malinconia che sanno di poesia dell’infanzia lontana: … dall’oscurità di vecchie casse o dalla penombra di cantine sotterranee emerge il miracolo del grano pallido sbocciato e cresciuto per incanto nei reticoli di stoppa inumidita e riempie di vita tenera piatti di ruvida creta e con la civetteria di grappoli screziati di violacciocche adora il “Sepolcro” di Cristo ed esalta il Sacramento dell’Eucarestia. Quel pane che, nel miracolo della transustanziazione, si fa corpo e quel vino, che pulsa sangue nelle vene del “Redentore”, riaccendono nostalgie per le tovaglie di candido lino e cesti stracolmi di pane croccante sul lungo tavolo al centro della chiesa madre. E il sacerdote in camice bianco e stola violacea rinnova il mistero del “Giovedì Santo”. E ancora una volta la mediterraneità trionfa nel fasto dei suoi alimenti. Che bontà quel pane bianco. “il pane benedetto”, al quale nella nostra ingenuità infantile attribuivamo efficacia miracolistica, sbocconcellandolo con grande avidità. E, così, le campagne biondeggiano dell’oro del frumento e s’ingravidano degli umori e dei profumi dei vigneti. E libri di scuola e reperti dei musei rovesciano nell’immaginario collettivo scene di conviti e quadri di vita agreste e dei e ninfe popolano templi e campagne, fiumi e boschi. E Demetra e Cibele, Hera ed Iside, Bacco e Pan, Priapo e Sileno occhieggiano dal pantheon del passato; e cristianesimo e paganesimo, fede e superstizione, storia e mito si mescolano e si fondono nel superiore concetto della cultura.” Ed il grano assunse valore e simbolo beneaugurante di fecondità in tutti i continenti. In India, dopo la prima notte di matrimonio la madre dello sposo si avvicina alla sposa e le pone sul capo una misura di grano e subito dopo lo sposo le si avvicina prende qualche pugno di frumento e lo spande intorno a sé. Stessa tradizione o quasi nell’area Mediterranea, come in Sardegna, ove i genitori della sposa, prima di recarsi in chiesa benedicono la figlia con chicchi di frumento. Stesso valore simbolico ha l’usanza molto diffusa nel Cilento e non solo, dove gli sposi all’uscita della chiesa sono assaliti da una festosa mitragliata di chicchi di grano e di riso, ed anche confetti con l’allusione maliziosa al dolce dell’atto d’amore finalizzato alla procreazione. E, naturalmente, grano e pane sono stati fonte di ispirazione dei poeti di tutti i tempi e di tutte le letterature, a cominciare da quella classica latina e greca, Omero in primis, (straordinarie le scene dell’agricoltura dipinte sullo scudo di Achille), ma anche quelle cantate da Sofocle in “Edipo a Colono”, e ancora quelle descritte da Esiodo nelle “Opere e i giorni”. E che dire di Virgilio che dedica un intero poemetto alla prima forma di pane nel “Moretum” e di Catone nel suo trattato sull’agricoltura e della poesia immaginifica ricca di metafore coinvolgenti delle Metamorfosi di Ovidio. Nella letteratura italiana, poi, il tema è ampiamente presente. Mi vengono in mente alcuni versi dell’Alcione di d’Annunzio come alcune scene dell’assalto ai forni di Manzoni. Per non parlare della poesia e narrativa del secondo novecento che conobbe le battaglie sociali contro i latifondi cantate e narrate da Rocco Scotellaro, Ignazio Silone, Giuseppe Jovine ecc. ecc. Analoghi esempi troveremmo nella pittura, nella musica e nella cinematografia. Ma penso anche all’archeologia, soprattutto per noi che abbiamo campi di ricerca ricchi di sorprese come Poseidonia/Paestum e Velia, i cui territori hanno conosciuto anche l’epopea contadina dell’“assalto ai latifondi” narrate in belle pagine di letteratura contemporanea. Ecco un tema da teatralizzare, che mi permetto di suggerire sommessamente alle scuole del territorio, Vallo, Paestum ed Agropoli innanzitutto. Dispongono di docenti ed alunni motivati. Troverebbero comprensione ed apertura mentale, credo, nel giovane Direttore del Museo Archeologico di Paestum, Gabriel Zuchtriegel e, mi auguro fortemente, anche nel Presidente del Parco e in alcuni sindaci ed assessori lungimiranti. Il primo ha già sperimentato positivamente la teatralizzazione di testi di Alfonso Gatto, Ungaretti e miei nell’area Archeologica con la professoressa Carmen Lucia ed i suoi bravi alunni. Gli altri, a cominciare dalla Maria Rosaria Trama, apprezzata docente di Lettere del Liceo Parmenide di Vallo, hanno promesso pubblicamente impegno e fondi per la cultura. Nel Cilento, poi, si moltiplicano le “feste del pane”, che acquistano, purtroppo, sempre più connotazioni di “sagre” chiassose e non di eventi culturali. E se fossero preceduti da un serio convegno sul pane nel mito, nelle religioni e nella letteratura, come suggerii, inascoltato, alcuni anni fa ai miei conterranei? E se mettessimo in piedi una mostra con testimonianze della semina, della mietitura, della trebbiatura e della panificazione e rispettivi attrezzi di lavoro? Faremmo opera di cultura e di recupero della tradizione a proiezione di futuro. Io tornerò sul tema convegno e mostra: lo sento come un dovere per la mia terra e come testimonianza d’amore, qualunque ne sia l’esito.

Concludo, intanto, con uno dei miei tanti testi sul tema che si prestano alla teatralizzazione.

LO PPANEFacia lo ppane ogni settimana/mamma pe lo tenè ra frisco a frisco./Lo furno era inta la cucina:/paria n’altare mbacci no cantone:/E me mannava addò zia Magarita/pe ghì a mprestà, com’era l’uso tanno,/lo lovato stipato inta lo ffrisco./Ammassava inta la matra la farina/chera ianca re grano carusedda/e chera gialla re lo granorinio./Com’era bella mamma, uocchi re sole,/nu macaturo ncapo e mantusino/nettito come neve re iennaro!/M’arricordo lo furno c’avvampava/co frascedde re fringi e de mortedde/re scantamani ca scuppettianno/spanniano l’addore pe la casa./Ricordo lo munnolo, lo vuccolo/pe spiane lo ppane ca cucia:/panelle, li panielli e li vescuotti/ca rusecava co cerasa e pruma,/presseca,pera cosce, uva e fico./E che sapore ca tenia lo vicci/mbuttunato co vruoccoli re rapa/scoppettiati co no filo r’uoglio./Che festa era la pizza re peddecchie/re pemmarore co caso grattato!/Io ne mangiava fedde belle grosse/e me untava musso, facci e mano./E mamma me uardava e se priava./Io me sentia patrone re lo munno/si me stringia e me vasava nfronte!!!”

fonte: http://www.unicosettimanale.it/rubriche/14998/il-grano-dono-degli-dei

l pomodoro nero italiano rallenta l’invecchiamento: il segreto del Sunblack è nella buccia

 

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l pomodoro nero italiano rallenta l’invecchiamento: il segreto del Sunblack è nella buccia

Ricercatori del laboratorio PlantLab presso l’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa hanno svelato il segreto genetico della buccia nera del ‘SunBlack’, il pomodoro nero ricchissimo di antiossidanti creato nel 2008 incrociando due distinte varietà. Il colore è legato a un gene mutato che nei pomodori tradizionali sopprime la produzione di antociani.

A dieci anni esatti dalla sua creazione in laboratorio, è stato finalmente svelato il segreto della “buccia nera” – in realtà un intenso viola scuro – del prelibato e salutare pomodoro SunBlack, ricchissimo di antiossidanti. Il suo colore deriva da un gene della varietà di pomodoro chiamata atroviolacea (atv), la cui origine potrebbe risalire a un incrocio con un pomodoro selvatico avvenuto decenni addietro.

Il peculiare frutto scuro fu sviluppato nel 2008 grazie alla collaborazione di quattro atenei italiani, l’Università della Tuscia, l’Università di Pisa, l’Università di Modena e Reggio Emilia e la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. I ricercatori lo ottennero combinando due varietà distinte di pomodoro: la già citata atroviolacea (atv), caratterizzata da foglie ricche di antiossidanti, e la Anthocyanin Fruit (Aft), dove è la buccia dei frutti – di colore leggermente violaceo – ad avere un contenuto superiore di queste sostanze.

L’intento degli studiosi era proprio quello di ottenere un innovativo prodotto salutare, contenente un numero sensibilmente superiore di antociani rispetto ai pomodori tradizionali. Questi pigmenti noti per le elevate capacità antiossidanti, infatti, sono abbondanti in frutti come mirtilli, arance rosse e uva nera, che tuttavia non vengono consumati con la medesima frequenza dei pomodori. Da qui nacque il SunBlack, che non è un organismo geneticamente modificato (OGM), dato che è stato ottenuto attraverso incroci tradizionali.

Benché sviluppato in laboratorio, il pomodoro “nero” celava ancora il segreto della sua buccia, ma grazie al lavoro dei genetisti del laboratorio PlantLab, coordinato dal rettore della Scuola Superiore Sant’Anna Pierdomenico Perata, è stato finalmente individuato il frammento di DNA alla base delle sue proprietà nutraceutiche. Il gene in questione, che codifica per una proteina R3-MYB ed è responsabile della repressione molecolare degli antociani nei pomodori tradizionali, nella variante atv risulta inattivo, ed è proprio per questo che le sue foglie possono esprimere questi pigmenti antiossidanti, così come la buccia del derivato SunBlack.

Conoscere questa sequenza di DNA, spiega Perata, permetterà di realizzare più facilmente nuove varietà di SunBlack, inoltre sarà possibile “verificare l’avvenuto incrocio con un semplice test del Dna, invece di dover attendere la produzione dei frutti per verificare l’effettiva presenza degli antociani”. Studiando il profilo genetico della varietà Anthocyanin Fruit i ricercatori guidati dal professor Perata sperano di ottenere ulteriori informazioni per spingere a produrre ancor più antociani nei pomodori SunBlack, magari all’interno della polpa, tenendo presente che al momento sono limitati alla sola buccia. I dettagli della nuova ricerca, messa a punto da Perata assieme alle dottoresse Sara Colanero e Silvia Gonzali, sono stati pubblicati sulla rivista scientifica specializzata Frontiers in Plant Science.

[Credit: Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa]

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