11 gennaio 1999 – Ci lasciava Fabrizio De André, il poeta degli ultimi – Il menestrello che ha saputo cantare e dare dignità a tutti coloro che vivono ai margini della società

 

Fabrizio De André

 

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11 gennaio 1999 – Ci lasciava Fabrizio De André, il poeta degli ultimi – Il menestrello che ha saputo cantare e dare dignità a tutti coloro che vivono ai margini della società

Fabrizio De André, il poeta degli ultimi

Fabrizio De André, il menestrello che ha saputo cantare e dare dignità a tutti coloro che vivono ai margini della società, se ne andava 20 anni fa.

Oggi, 11 gennaio del 1999, se ne andava Fabrizio De André,  poeta/menestrello che ha cantanto sempre gli ultimi, che da 20 anni ha lasciato il mondo orfano della sua arte.

Di lui è già stato scritto tanto ed è ormai univesalmente riconosciuto come uno dei più grandi cantautori del Novecento non solo italiano, ma europeo per la ricchezza e la profondità delle sue composizioni che hanno influenzato e influenzeranno, come solo i grandi della poesia hanno saputo fare, le generazioni a venire.

Faber, come soprannominato dagli amici, è il menestrello degli ultimi: il poeta che ha saputo raccontare la dignità degli ambienti più degradati, che ha fatto nascere la beltà dal letame, che ha descritto figure, apparentemente senza tempo, relegate ai margini della società. La vita per De André è nella camera di una puttana, in una bettola dove scorre alcol a fiumi, nei quartieri malfamati dove “il sole del buon dio non dà i suoi raggi”. De Andrè msotra pietà per questi umili, le “vittime di questo mondo”, perché è qui che è conservata la purezza originaria dell’essere umano.

Il suo sguardo benevolo verso le mostruosità del mondo serve per mettere in luce la vera bruttezza: quella del mondo borghese. Con forza si scaglia nelle sue opere per urlare tutto il suo disprezzo per tutte le opinioni dominanti, anche per quelle degli ambienti della sinistra da salotto.

E chissà – e purtroppo non lo si potrà mai – come avrebbe cantanto oggi i nostri drammi: dall’immigrazione alla guerra, da Mafia Capitale a i furbetti del cartellino (tutti temi che comunque si ritrovano già nei suoi testi, sia in quelli originali che in quelli pensati per i brani da tradurre in italiano).

L’attualità di oggi nei testi scritti ieri: ancora una volta a testimonianza della sua immortalità.

Poi ancora la sua innata la capacità di dipingere con un verso una scena, una situazione, un sentimento universale. Di De André rimarrà per sempre quell’uso attento delle parole, che riporta tutto ad una morale mai banale che spesso viene fuori dal sarcasmo e l’ironia, in un continuo rovesciamento dell’ordine costituito per una “bonaria” presa per il sedere.

Ma De Andrè è anche il poeta che ha cantato la tristezza: pessimismo e atmosfere sempre cupe pervadono la sua opera. Questo vale anche per l’amore, perché nei suoi scritti (e scusate se non li si considerano solo canzoni) è sempre destinto a una tragica fine, dopo aver confuso, massificato e reso incosciente l’individuo.

Che De André non si possa riassumere in poche battute di un articolo è cosa ben nota. A De André e alla sua musica ci si approccia in modi diversi: emotivamente, filologicamente, carnalmente, istintivamente, ecc…

Anche coloro che (stupidamente) lo denigrano con quel “non mi piace” non possono ignorarlo: lo ascoltano. Perché quella musica magnetica, quella voce calda è ammaliatiatrice: sempre un vortice di forti emozioni positive e/o negative.

Il miglior modo per ricordare questo Gigante è quello di riascoltare la sua musica: perdersi nelle sue note in quei versi e ritrovare la bellezza, un concetto, anch’esso, che ai giorni nostri (ahinoi!) è sempre più relegato ai margini.

 

Fabrizio de andrè città vecchia (versione non censurata)

L’11 gennaio del 1999, ci lasciava Fabrizio De André. Vogliamo ricordarlo con “Caro Faber”, la lettera che Don Gallo gli dedicò a pochi giorni dalla morte

 

De André

 

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L’11 gennaio del 1999, ci lasciava Fabrizio De André. Vogliamo ricordarlo con “Caro Faber”, la lettera che Don Gallo gli dedicò a pochi giorni dalla morte

 

La loro Genova ha unito i loro destini, le loro storie si sono incrociate per sempre nell’attenzione verso gli ultimi e gli emarginati. Don Gallo, il prete di strada che si è fatto conoscere durante tutta la sua vita per l’impegno verso le condizioni umane dei disagiati e degli ultimi, dei dimenticati e Fabrizio De André, hanno condiviso tra le vie di Genova il racconto del mondo.

Lo hanno raccontato e testimoniato allo stesso modo. L’uno attraverso il Vangelo, l’altro attraverso la musica.

Ecco come il Prete da marciappiede salutò l’amico Faber:

Caro Faber. Per Fabrizio De André

di don Andrea GalloGenova, 14 gennaio 1999

Caro Faber,

da tanti anni canto con te, per dare voce agli ultimi, ai vinti, ai fragili, ai perdenti. Canto con te e con tanti ragazzi in Comunità.

Quanti «Geordie» o «Michè», «Marinella» o «Bocca di Rosa» vivono accanto a me, nella mia città di mare che è anche la tua. Anch’io ogni giorno, come prete, «verso il vino e spezzo il pane per chi ha sete e fame». Tu, Faber, mi hai insegnato a distribuirlo, non solo tra le mura del Tempio, ma per le strade, nei vicoli più oscuri, nell’esclusione.

E ho scoperto con te, camminando in via del Campo, che «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior».

La tua morte ci ha migliorati, Faber, come sa fare l’intelligenza.

Abbiamo riscoperto tutta la tua «antologia dell’amore», una profonda inquietudine dello spirito che coincide con l’aspirazione alla libertà.

E soprattutto, il tuo ricordo, le tue canzoni, ci stimolano ad andare avanti.

Caro Faber, tu non ci sei più ma restano gli emarginati, i pregiudizi, i diversi, restano l’ignoranza, l’arroganza, il potere, l’indifferenza.

La Comunità di san Benedetto ha aperto una porta in città. Nel 1971, mentre ascoltavamo il tuo album, Tutti morimmo a stento, in Comunità bussavano tanti personaggi derelitti e abbandonati: impiccati, migranti, tossicomani, suicidi, adolescenti traviate, bimbi impazziti per l’esplosione atomica.

Il tuo album ci lasciò una traccia indelebile. In quel tuo racconto crudo e dolente (che era ed è la nostra vita quotidiana) abbiamo intravisto una tenue parola di speranza, perché, come dicevi nella canzone, alla solitudine può seguire l’amore, come a ogni inverno segue la primavera [«Ma tu che vai, ma tu rimani / anche la neve morirà domani / l’amore ancora ci passerà vicino / nella stagione del biancospino», da L’amore, ndr].

È vero, Faber, di loro, degli esclusi, dei loro «occhi troppo belli», la mia Comunità si sente parte. Loro sanno essere i nostri occhi belli.

Caro Faber, grazie!

Ti abbiamo lasciato cantando Storia di un impiegato, Canzone di Maggio. Ci sembrano troppo attuali. Ti sentiamo oggi così vicino, così stretto a noi. Grazie.

E se credete ora

che tutto sia come prima

perché avete votato ancora

la sicurezza, la disciplina,

convinti di allontanare

la paura di cambiare

verremo ancora alle vostre porte

e grideremo ancora più forte

per quanto voi vi crediate assolti

siete per sempre coinvolti,

per quanto voi vi crediate assolti

siete per sempre coinvolti.

Caro Faber, parli all’uomo, amando l’uomo. Stringi la mano al cuore e svegli il dubbio che Dio esista.

Grazie.

Le ragazze e i ragazzi con don Andrea Gallo,

prete da marciapiede.