Il 15 aprile 1967 ci lasciava il Principe della Risata TOTÒ – Vogliamo ricordarlo anche per il suo convinto antifascismo, che si rivelava chiaro nel suo umorismo geniale e pungente…

 

TOTÒ

 

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Il 15 aprile 1967 ci lasciava il Principe della Risata TOTÒ – Vogliamo ricordarlo anche per il suo convinto antifascismo, che si rivelava chiaro nel suo umorismo geniale e pungente…

Come non rendersi conto dell’antifascismo di Totò – Spesso ha interpretato in modo magistrale “fascisti” rendendo un ritratto tanto grottesco quanto realista delle realtà dell’epoca. Tante altre volte si è imbattuto nei nazi-fascisti e sempre divertentissimo, geniale e pungente, ne ha comunque sottoliniato l’orrore.

I due marescialli – La pernacchia anti nazifascista:

I due colonnelli – La carta bianca:

 

A Roma si susseguono senza sosta rastrellamenti da parte della Gestapo e dei fascisti delle Brigate Nere, della banda Muti e della Banda Koch,  alla ricerca di partigiani e antifascisti. Un giorno, durante un rastrellamento, per non farsi prendere, Totò è costretto a rifugiarsi nel cimitero del Verano e a nascondersi dentro una tomba, vuota naturalmente. La vita a Roma, tra bombardamenti e rastrellamenti, è sempre più difficile. Parallelamente il popolo cerca distrazioni anche attraverso il teatro.

Più si soffre e più il pubblico desidera distrarsi e divertirsi. Con un coraggio che rasenta l’incoscienza, Totò non perde occasione, ad ogni replica, di strizzare l’occhio al pubblico con allusioni e battute a doppio senso, che si riferiscono alla situazione politica, al fascismo che è caduto e ai tedeschi che occupano Roma.Rappresentando il pastore Aligi ne “Il figlio di Jorio”, una parodia del testo dannunziano, Totò si scatena ripetendo in tono implorante alla soubrette: <Vieni avanti! E vieni avaanti!,> riferendosi chiaramente all’avanzata degli americani. Il pubblico capisce ed applaude, ma i rischi non mancano perché molti ufficiali tedeschi conoscono bene l’italiano e afferrano senza farseli tradurre i doppi sensi di Totò.

E, a volte, sull’onda di queste battute allusive, incitava il pubblico a belare, per cui tutti gli spettatori, con somma provocazione, si mettevano insieme a Totò a fare il verso delle pecore e a ridere.Una sera in cui si era sparsa la voce dell’attentato ad Hitler, Totò, che adattava il copione all’attualità di quei giorni, si presentò improvvisamente in scena coi baffetti e col ciuffo tutto incerottato e fasciato e attraversò la scena nel bel mezzo di un numero che trattava tutt’altro, e zoppicando scomparve tra l’ilarità generale. Quella sera stessa un colonello tedesco, suo amico, gli confidò che il mattino seguente avrebbero arrestato sia lui che i fratelli De Filippo ( rei di aver preso in giro i nazisti). Dopo aver avvertito Peppino,Totò scappò a Valmontone.

Totò ricorda:

«Il ricordo più divertente è un ricordo tragicomico… Era proprio il periodo della guerra. Io lavoravo al Valle e i De Filippo stavano all’Eliseo. Un amico mi chiamò dalla questura dicendomi che i tedeschi volevano arrestare me e i De Filippo. Allora telefonai a un amico per andarmi a nascondere. Prima di recarmi da lui, passai all’Eliseo per avvisare i De Filippo. Eduardo non c’era, c’era Peppino. Gli dico: «Peppì, qui succede così e così, bisogna scappare». «Ah sì, scappiamo, dove scappiamo? Dove scappiamo?» «Tu la prendi alla leggera, scherzi?» gli faccio. «Vengono i tedeschi, chi sa cosa ci vogliono fare…» «Ah, vengono qua? E dove ci portano? In albergo?» «No» gli dico, «ci fucilano!». E me ne andai, cioè corro a nascondermi da quest’amico che mi avrebbe ospitato gentilmente. Naturalmente nessuno doveva sapere che ero lì. Dopo mezz’ora che sto là, quest’amico mio viene e mi dice: «Senti, c’è una cugina mia che ti vuol conoscere, che ti ha visto a teatro, è una tua ammiratrice…». Dico: «Don Lui’», si chiamava Luigi, «Don Lui’, nessuno deve sapere che sto qua…». «Sì, ma è una parente…». «Vabbe’, Don Lui’…» Questa viene, piacere… piacere… e compagnia bella. Dopo un’oretta torna lui e dice: «C’è un mio compare…». Questo per due giorni di seguito. Alla fine dico: «Don Lui’, qui dove sto io lo sa tutta Roma. Se i tedeschi chiedono dove sta Totò… tutti gli dicono che sta qua…».

“Con un palmo di naso”, la nuova rivista di Galdieri, debutta al Valle il 26 giugno 1944. Roma è stata liberata solo da una ventina di giorni e nel nuovo clima lo spettacolo non esita ad affrontare temi di attualità. La rivista ritorna alla vocazione satirica soprattutto nei confronti della politica e dei suoi uomini più rappresentativi.

Anile racconta la visita negli studi di un eroe di guerra, esaltata con retorica fascista, e, ‘se sul palcoscenico della rivista Totò non esita a lanciarsi in qualche temerario sfottò all’ indirizzo di fascisti e tedeschi, il contesto di Cinecittà annulla decisamente ogni velleità di ribellione. Totò è costretto a farsi fotografare con la ‘cimice’ fascista all’ occhiello, per essere così eternato, nel mezzo di un’ impacciata smorfia comica, sul retrocopertina della rivista Film’ . Il fotografo si chiamava Eugenio Haas, che in seguito sarà definito ‘ufficiale delle SS’ e ‘spia della Gestapo’ .

In esso la forza satirica esercitata in vario modo prima contro il regime fascista e quindi contro gli occupanti tedeschi, è sempre ben presente: più volte la censura di regime intervenne per modificare battute considerate irriverenti, ma Totò, rischiando di suo, spesso pronunciava ugualmente le frasi tagliate suscitando autentiche ovazioni; dopo le prime rappresentazioni romane di “Che ti sei messo in testa”, l’attore, avvertito che sarebbe stato di lì a poco arrestato (insieme ai fratelli De Filippo), dovette tuttavia scappare a Valmontone per ripresentarsi solo dopo la liberazione di Roma con una nuova rivista (Con un palmo di naso) in cui finalmente dava libero sfogo alla sua satira impersonando Mussolini e Hitler. »‎”

Totò era un vero principe ma non praticante, molto attivo in rivista negli anni 40 nella satira anti Mussolini, con la Magnani. “C’è tutto. Totò sul set, quando prendeva il caffè di rito con la troupe, domandava alla sua spalla e aiuto-regista Mario Castellani quale scena c’era da fare, la leggeva, chiedeva “il lapis”, ne dettava una totalmente diversa, e poi ne girava una terza che non aveva a che fare né con la prima né con la seconda. Si presentava alle due del pomeriggio perché ‘al mattino non si può far ridere’ ma quel 13 aprile 1967 arrivò presto per interpretare un vecchio anarchico in “Il padre di famiglia.

Totò Diabolicus – Camerati saluti al duce:

Totò e Mussolini:

 

tratto da: https://www.magazineitalia.net/toto-il-principe-della-risata-era-antifascista-tributo/

16 febbraio 1947 – Il treno della vergogna – Gli esuli Istriani accolti dai loro connazionali non solo senza un briciolo di solidarietà, ma con avversione, rancore e inaudita violenza.

 

treno della vergogna

 

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16 febbraio 1947 – Il treno della vergogna – Gli esuli Istriani accolti dai loro connazionali non solo senza un briciolo di solidarietà, ma con avversione, rancore e inaudita violenza.

 

“Il Treno della Vergogna” o “Treno dei fascisti” 
La targa è alla stazione di Bologna.
Il testo è: “Nel corso del 1947 da questa stazione passarono i convogli che portavano in Italia esuli istriani, fiumani e dalmati: italiani costretti ad abbandonare i loro luoghi dalla violenza del regime nazional-comunista jugoslavo e a pagare, vittime innocenti, il peso e la conseguenza della guerra d’aggressione intrapresa dal fascismo. Bologna seppe passare rapidamente da un atteggiamento di iniziale incomprensione a un’accoglienza che è nelle sue tradizioni, molti di quegli esuli facendo suoi cittadini. Oggi vuole ricordare quei momenti drammatici della storia nazionale. Bologna 1947-2007.”

E’ una targa ipocrita, tardiva e non veritiera; scrivere “un atteggiamento di iniziale incomprensione” è non assumersi appieno le proprie colpe.

Quello che è passato alla storia come “Treno della vergogna” è un convoglio che nel 1947 trasportò da Ancona i profughi provenienti da Pola: si trattava di esuli italiani che con la fine della Seconda Guerra Mondiale, si ritrovarono costretti ad abbandonare le loro case in Istria, Quarnaro e Dalmazia.

L’evento è passato alla storia come “esodo istriano“. All’epoca i ferrovieri lo definirono offensivamente “treno dei fascisti”, definizione emblematica di tutta la disinformazione e la strumentalizzazione politica che circondò la vicenda.

Domenica 16 febbraio 1947 i profughi partirono da Pola a bordo di diversi convogli, portandosi dietro il minimo indispensabile, ovvero quel poco che erano riusciti a salvare. Giunti ad Ancona per gli esuli si rese necessario l’intervento dell’esercito: i militari dovettero proteggerli da connazionali, militanti di sinistra, che non solo non mostrarono solidarietà, ma li accolsero con avversione e violenza.

Il giorno seguente, di sera, partirono di nuovo stipati in un treno merci già carico di paglia. Il convoglio arrivò alla stazione di Bologna solo alle 12:00 del giorno seguente, quindi proprio martedì 18 febbraio.

La Pontificia Opera di Assistenza e la Croce Rossa Italiana avevano preparato dei pasti caldi, soprattutto per bambini e anziani. Ma quando gli esuli erano quasi giunti nella città emiliana, alcuni ferrovieri sindacalisti diramarono un avviso ai microfoni, incitando i compagni a bloccare la stazione se il treno si fosse fermato.

Allo stop del convoglio ci furono persino alcuni giovani che, sventolando la bandiera con falce e martello, iniziarono a prendere a sassate i profughi, senza distinzione tra uomini, donne e bambini. Altri lanciarono pomodori e addirittura il latte che era destinato ai bambini, ormai quasi in stato di disidratazione.

A causa di questi atti vili fu dunque necessario far ripartire il treno per Parma, dove finalmente si riuscì ad andare in aiuto dei profughi ormai allo stremo delle forze. Da lì, ripartirono poi per La Spezia, dove furono temporaneamente sistemati in una caserma.

Il “treno della vergogna” non fu affatto un caso isolato. Gli “Italiani”, ancora furenti per l’infamia della guerra, avevano ormai identificato i profughi Istriani come “fascisti” e come tali responsabili della tragedia appeta vissuta.

 

10 febbraio – Giornata del ricordo delle vittime delle foibe – Che cosa furono i massacri delle foibe?

 

foibe

 

 

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10 febbraio – Giornata del ricordo delle vittime delle foibe – Che cosa furono i massacri delle foibe?

 

Che cosa furono i massacri delle foibe

I massacri delle foibe e l’esodo dalmata-giuliano sono una pagina di Storia che per molti anni l’Italia ha voluto dimenticare. Solo di recente la storia è stata riportata a galla e dal 2005 si celebra il «Giorno del Ricordo», in memoria dei quasi ventimila nostri fratelli torturati, assassinati e gettati nelle foibe (le fenditure carsiche usate come discariche) dalle milizie della Jugoslavia di Tito alla fine della seconda guerra mondiale.

La memoria delle vittime delle foibe e degli italiani costretti all’esodo dalle ex province italiane della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia è un tema che ancora divide. Eppure quelle persone meritano, esigono di essere ricordate.

LA FINE DELLA GUERRA. Nel 1943, dopo tre anni di guerra, le cose si erano messe male per l’Italia. Il regime fascista di Mussolini aveva decretato il proprio fallimento con la storica riunione del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943. Ne erano seguiti lo scioglimento del Partito fascista, la resa dell’8 settembre, lo sfaldamento delle nostre Forze Armate.

Nei Balcani, e particolarmente in Croazia e Slovenia, le due regioni balcaniche confinanti con l’Italia, il crollo dell’esercito italiano aveva fatalmente coinvolto le due capitali, Zagabria (Croazia) e Lubiana (Slovenia).

LA VENDETTA DI TITO. Qui avevano avuto il sopravvento le forze politiche comuniste guidate da Josip Broz, nome di battaglia «Tito», che avevano finalmente sconfitto i famigerati “ustascia” (i fascisti croati agli ordini del dittatore Ante Pavelic che si erano macchiati di atroci crimini), e i non meno odiati “domobranzi”, che non erano fascisti, ma semplicemente ragazzi di leva sloveni, chiamati alle armi da Lubiana a partire dal 1940, allorché la Slovenia era stata incorporata nell’Italia divenendone una provincia autonoma.

La prima ondata di violenza esplose proprio dopo la firma dell’armistizio, l’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani jugoslavi di Tito si vendicarono contro i fascisti che, nell’intervallo tra le due guerre, avevano amministrato questi territori con durezza, imponendo un’italianizzazione forzata e reprimendo e osteggiando le popolazioni slave locali macchiandosi di crimini di inaudita violenza.

Con il crollo del regime – siamo ancora alla fine del 1943 – i fascisti e di conseguenza tutti gli italiani non comunisti vennero considerati nemici del popolo, prima torturati e poi gettati nelle foibe. Morirono, si stima, circa un migliaio di persone. Le prime vittime di una lunga scia di sangue.

Dal 1918 al 1943 la Venezia Giulia e la Dalmazia furono amministrativamente italiane, ma oltre la metà della loro popolazione era composta da sloveni e croati. Durante il fascismo l’italianizzazione venne perseguita seguendo, nelle intenzioni, il modello francese (attraverso una serie di provvedimenti come l’italianizzazione della toponomastica, dei nomi propri e la chiusura di scuole bilingue); nei fatti, il modello fascista. La repressione divenne più crudele durante la guerra, quando ai pestaggi si sostituirono le deportazioni nei campi di concentramento nazisti e le fucilazioni dei partigiani jugoslavi.

Tito e i suoi uomini, fedelissimi di Mosca, infatti, iniziarono la loro battaglia di (ri)conquista di Slovenia e Croazia – di fatto annesse al Terzo Reich – senza fare mistero di volersi impadronire non solo della Dalmazia e della penisola d’Istria (dove c’erano borghi e città con comunità italiane sin dai tempi della Repubblica di Venezia), ma di tutto il Veneto, fino all’Isonzo.

IL FRENO DEI NAZISTI. Fino alla fine di aprile del 1945 i partigiani jugoslavi erano stati tenuti a freno dai tedeschi che avevano dominato Serbia, Croazia e Slovenia con il pugno di ferro dei loro ben noti sistemi (stragi, rappresaglie dieci a uno, paesi incendiati e distrutti).

Ma con il crollo del Terzo Reich nulla ormai poteva più fermare gli uomini di Tito, irreggimentati nel IX Korpus, e la loro polizia segreta, l’OZNA (Odeljenje za Zaštitu NAroda, Dipartimento per la Sicurezza del Popolo). L’obiettivo era l’occupazione dei territori italiani.

Nella primavera del 1945 l’esercito jugoslavo occupò l’Istria (fino ad allora territorio italiano, e dal ’43 della Repubblica Sociale Italiana) e puntò verso Trieste, per riconquistare i territori che, alla fine della prima guerra mondiale, erano stati negati alla Jugoslavia.

LA LIBERAZIONE DEGLI ALLEATI. Non aveva fatto i conti, però, con le truppe alleate che avanzavano dal Sud della nostra penisola, dopo avere superato la Linea Gotica. La prima formazione alleata a liberare Venezia e poi Trieste fu la Divisione Neozelandese del generale Freyberg, l’eroe della battaglia di Cassino, appartenente all’Ottava Armata britannica. Fu una vera e propria gara di velocità.

Gli jugoslavi si impadronirono di Fiume e di tutta l’Istria interna, dando subito inizio a feroci esecuzioni contro gli italiani. Ma non riuscirono ad assicurarsi la preda più ambita: la città, il porto e le fabbriche di Trieste.

Infatti, la Divisione Neozelandese del generale Freyberg entrò nei sobborghi occidentali di Trieste nel tardo pomeriggio del 1° maggio 1945, mentre la città era ancora formalmente in mano ai tedeschi che, asserragliati nella fortezza di San Giusto, si arresero il 2, impedendo in tal modo a Tito di sostenere di aver «preso» Trieste.

La rabbia degli uomini di Tito si scatenò allora contro persone inermi in una saga di sangue degna degli orrori rivoluzionari della Russia del periodo 1917-1919, persone ree solo di essere Italiani e come tali Fasciste..

I NUMERI DELLE VITTIME. Tra il maggio e il giugno del 1945 migliaia di italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia furono obbligati a lasciare la loro terra. Altri furono uccisi dai partigiani di Tito, gettati nelle foibe o deportati nei campi sloveni e croati. Secondo alcune fonti le vittime di quei pochi mesi furono tra le quattromila e le seimila, per altre diecimila.

Fin dal dicembre 1945 il premier italiano Alcide De Gasperi presentò agli Alleati «una lista di nomi di 2.500 deportati dalle truppe jugoslave nella Venezia Giulia» ed indicò «in almeno 7.500 il numero degli scomparsi».

In realtà, il numero degli infoibati e dei massacrati nei lager di Tito fu ben superiore a quello temuto da De Gasperi. Le uccisioni di italiani – nel periodo tra il 1943 e il 1947 – furono almeno 20mila; gli esuli italiani costretti a lasciare le loro case almeno 250mila.

COME SI MORIVA NELLE FOIBE. I primi a finire in foiba nel 1945 furono carabinieri, poliziotti e guardie di finanza, nonché i pochi militari fascisti della RSI e i collaborazionisti che non erano riusciti a scappare per tempo (in mancanza di questi, si prendevano le mogli, i figli o i genitori).

Le uccisioni avvenivano in maniera spaventosamente crudele. I condannati venivano legati l’un l’altro con un lungo fil di ferro stretto ai polsi, e schierati sugli argini delle foibe. Quindi si apriva il fuoco trapassando, a raffiche di mitra, non tutto il gruppo, ma soltanto i primi tre o quattro della catena, i quali, precipitando nell’abisso, morti o gravemente feriti, trascinavano con sé gli altri sventurati, condannati così a sopravvivere per giorni sui fondali delle voragini, sui cadaveri dei loro compagni, tra sofferenze inimmaginabili.

Soltanto nella zona triestina, tremila sventurati furono gettati nella foiba di Basovizza e nelle altre foibe del Carso.

Uno dei principali monumenti alle vittime si trova a Basovizza, alle porte di Trieste. Qui è stata trovata una foiba che in realtà era il pozzo di una miniera di carbone che, scavata nella roccia agli inizi del novecento, fu poi abbandonata. Vi sono state gettate almeno 2.500 persone nei 45 giorni dal 1 maggio al 15 giugno 1945.

IL DRAMMA DI FIUME E IL DESTINO DELL’ISTRIA. A Fiume, l’orrore fu tale che la città si spopolò. Interi nuclei familiari raggiunsero l’Italia ben prima che si concludessero le vicende della Conferenza della pace di Parigi (1947), alla quale – come dichiarò Churchill – erano legate le sorti dell’Istria e della Venezia Giulia. Fu una fuga di massa. Entro la fine del 1946, 20.000 persone avevano lasciato la città, abbandonando case, averi, terreni.

LA CONFERENZA DI PACE DI PARIGI. Alla fine del 1946 la questione italo-jugoslava era divenuta per molti un peso che intralciava la soluzione di altre e ancora più importanti questioni: gli Alleati volevano trovare una soluzione per Vienna e Berlino; l’Unione Sovietica doveva sistemare la divisione della Germania. L’Italia era alle prese con la gestione della transizione tra monarchia e repubblica.

In sostanza bisognava determinare dove sarebbe passato il confine tra Italia e Jugoslavia. Gli Stati Uniti, favorevoli all’Italia, proposero una linea che lasciava al nostro Paese gran parte dell’Istria. I sovietici, favorevoli ai comunisti di Tito, proposero un confine che lasciava Trieste e parte di Gorizia alla Jugoslavia. La Francia propose una via di mezzo, molto vicina all’attuale confine, che sembrava anche l’opzione più realistica, non perché rispettava le divisioni linguistiche, ma perché seguiva il confine effettivamente occupato dagli eserciti nei mesi precedenti.

Il dramma delle terre italiane dell’Est si concluse con la firma del trattato di pace di Parigi il 10 febbraio 1947. Alla fine, alla conferenza di Parigi venne deciso che per il confine si sarebbe seguita la linea francese: l’Italia consegnò alla Jugoslavia numerose città e borghi a maggioranza italiana rinunciando per sempre a Zara, alla Dalmazia, alle isole del Quarnaro, a Fiume, all’Istria e a parte della provincia di Gorizia.

L’ESODO. Il trattato di pace di Parigi di fatto regalò alla Jugoslavia il diritto di confiscare tutti i beni dei cittadini italiani, con l’accordo che sarebbero poi stati indennizzati dal governo di Roma.

Questo causò due ingiustizie. Prima di tutto l’esodo forzato delle popolazioni italiane istriane e giuliane che fuggivano a decine di migliaia, abbandonando le loro case e ammassando sui carri trainati dai cavalli le poche masserizie che potevano portare con sé. E, in seguito, il mancato risarcimento.

La stragrande maggioranza degli esuli emigrò in varie parti del mondo cercando una nuova patria: chi in Sud America, chi in Australia, chi in Canada, chi negli Stati Uniti.

INTERESSE POLITICO IN ATTI D’UFFICIO. Tanti riuscirono a sistemarsi faticosamente in Italia, nonostante gli ostacoli dei ministri del partito comunista che – favorevoli alla Jugoslavia – minimizzarono la portata della diaspora.

Emilio Sereni, che ricopriva la determinante carica di ministro per l’Assistenza post-bellica, e sul cui tavolo finivano tutti i rapporti con le domande di esodo e di assistenza provenienti da Pola, da Fiume, dall’Istria e dalla ex Dalmazia italiana, anziché farsene carico e rappresentare all’opinione pubblica la drammaticità della situazione minimizzò la portata del problema.

Rifiutò di ammettere nuovi esuli nei campi profughi di Trieste con la scusa che non c’era più posto e, in una serie di relazioni a De Gasperi, parlò di «fratellanza italo-slovena e italo-croata», sostenne la necessità di scoraggiare le partenze e di costringere gli istriani a rimanere nelle loro terre, affermò che le notizie sulle foibe erano «propaganda reazionaria».

IL GIORNO DEL RICORDO. Come è stato possibile che una simile tragedia sia stata confinata nel regno dell’oblio per quasi sessant’anni? Tanti, infatti, ne erano passati tra quel quadriennio 1943-47 che vide realizzarsi l’orrore delle foibe, e l’auspicato 2004, quando il Parlamento approvò la «legge Menia» (dal nome del deputato triestino Roberto Menia, che l’aveva proposta) sulla istituzione del «Giorno del Ricordo».

La risposta va ricercata in una sorta di tacita complicità, durata decenni, tra le forze politiche centriste e cattoliche da una parte, e quelle di estrema sinistra dall’altra. Fu soltanto dopo il 1989 (con il crollo del muro di Berlino e l’autoestinzione del comunismo sovietico) che nell’impenetrabile diga del silenzio incominciò ad aprirsi qualche crepa.

Il 3 novembre 1991, l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga si recò in pellegrinaggio alla foiba di Basovizza e, in ginocchio, chiese perdono per un silenzio durato cinquant’anni. Poi arrivò la TV pubblica con la fiction Il cuore nel pozzo interpretata fra gli altri da Beppe Fiorello. Un altro presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, si era recato, in reverente omaggio ai Caduti, davanti al sacrario di Basovizza l’11 febbraio 1993.

Così, a poco a poco, la coltre di silenzio che, per troppo tempo, era calata sulla tragedia delle terre orientali italiane, divenne sempre più sottile e finalmente tutti abbiamo potuto conoscere quante sofferenze dovettero subìre gli italiani della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia.

Luciano Garibaldi

Alla tragedia delle foibe, l’autore, Luciano Garibaldi, giornalista e storico, ha dedicato, assieme a Rossana Mondoni, quattro libri editi dalle edizioni Solfanelli: «Venti di bufera sul confine orientale», «Nel nome di Norma», dedicato al ricordo di Norma Cossetto, studentessa triestina tra le prime vittime della violenza rossa, «Il testamento di Licia», approfondito dialogo con la sorella di Norma Cossetto, e «Foibe, un conto aperto».

Tratto da: https://www.focus.it/cultura/storia/che-cosa-furono-i-massacri-delle-foibe

Alberto Angela commuove l’Italia: la puntata sull’Olocausto italiano al primo posto degli ascolti del sabato – C’è ancora speranza…

 

Alberto Angela

 

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Alberto Angela commuove l’Italia: la puntata sull’Olocausto italiano al primo posto degli ascolti del sabato

In occasione dell’anniversario del rastrellamento del ghetto ebraico di Roma, il divulgatore più amato d’Italia dedica la puntata di Ulisse all’Olocausto

La puntata di Ulisse-Il piacere della scoperta di sabato sera, dedicata agli orrori dell’Olocausto italiano, ha conquistato l’Italia: altissimi punti di share per seguire Alberto Angela nel ghetto ebraico di Roma, dove il 16 ottobre del 1943 avvenne l’odioso e infame rastrellamento nazi-fascista in cui 689 donne, 363 uomini e 207 bambini furono portati prima a Milano, su camion coperti da teli, e poi ad Auschwitz con i treni che partirono dal famigerato binario 21 della Stazione Centrale.

Ospite della puntata Liliana Segre, senatrice a vita e sopravvisuta ad Auschwitz, che era presente quella mattina del 16 ottobre. La sua testimonianza ha commosso il pubblico e sul web è esploso un tripudio di plausi alla trasmissione, molto pesante e strana per un sabato sera, ma che è stata in grado di conquistare lo share. Alberto Angela si conferma, come suo padre, il divulgatore più amato della televisione italiana e lui e la Rai sono, una volta tanto, da encomiare per aver portato, nella serata di solito dedicata ai divertimenti, un racconto così commovente su una delle pagine più atroci della storia italiana. Pagina che molti, anche qualcuno al governo, sembra aver dimenticato.

18 anni dalla scomparsa di Gino Bartali, il 5 maggio del 2000 – Ecco chi era il “giusto fra i giusti” che salvò gli ebrei e non si arrese ai fascisti

Gino Bartali

 

 

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18 anni dalla scomparsa di Gino Bartali, il 5 maggio del 2000 – Ecco chi era il “giusto fra i giusti” che salvò gli ebrei e non si arrese ai fascisti

Vi racconto Gino Bartali, il ‘giusto fra i giusti’ che salvò gli ebrei e non si arrese ai fascisti

Il Ginettaccio ha avuto la cittadinanza israeliana ad honorem. Per la sua opera rischiò di essere fucilato dalle camicie nere

Oggi il Giro d’Italia parte eccezionalmente da Israele dove Gino Bartali è stato dichiarato “giusto fra i giusti” e qualcuno, nel mondo cattolico, vorrebbe aprire una causa di beatificazione. Onori questi che spettano non soltanto a un grande sportivo ma anche a un grande uomo passato alla storia d’Italia anche per le sue imprese civili.
Un atleta che gli sportivi di tutta Europa hanno chiamato l’uomo di acciaio, per la forza fisica e per l’eccezionale resistenza alla fatica. I francesi che lo hanno temuto e ammirato, lo chiamavano “Le lion de Toscan”. Negli ultimi anni della sua carriera, quando continuava a correre e anche a vincere nonostante fosse vicino ai 40 anni, Bartali diventò l’Intramontabile. Ma fu di volta in volta Ginettaccio e l’uomo del “tutto sbagliato, tutto da rifare” per la sua lingua lunga, per la battuta salace, per la sua verve toscana, che lo mise contro tutti, a cominciare dal regime fascista che non lo ha mai amato, ma anzi lo ostacolò per la sua ostentata appartenenza al mondo cattolico, che a quell’epoca voleva essere l’unico modo per manifestare il proprio dissenso nei confronti del regime.
Se si sa di quello che Gino fu capace di fare durante l’occupazione nazista. Delle sue corse in bicicletta fino ad Assisi, con la scusa dell’allenamento, per procurare documenti agli ebrei e agli antifascisti, che venivano falsificati dai frati e che poi lui portava al Cardinale Dalla Costa, che ebbe un ruolo molto importante nella Resistenza fiorentina. Venni poi a sapere che per questa sua attività fu arrestato dal famigerato maggiore Carità, noto torturatore al servizio dei nazisti, il quale voleva sentire da Gino il nome del Cardinale. Ma Gino resistette anche alla tortura e alle minacce di morte. Fu sua moglie Adriana, una ragazzina poco più che ventenne, a far vacillare il boia fascista. “Tu sei già passato alla storia per le tue efferatezze, ora vuoi passare alla storia anche per aver ucciso il più grande ciclista italiano!” Il boia vacillò di fronte alle parole di quella ragazzina: “vattene via” disse a Gino “tu sei il ciclista che questa Italia di merda si merita”.
Gino non parlava mai di queste sue imprese: oggi sappiamo che insieme al Cardinale Dalla Costa che dirigeva la Resistenza fiorentina, riuscì a mettere in salvo ottocento ebrei, molti nascondendoli a casa sua. In una intervista glie ne chiesi il perché. “Perché queste cose quando si è chiamati si fanno e basta. Io non l’ho fatto per avere dei meriti, l’ho fatto soltanto per fare il mio dovere di uomo, di italiano e di cristiano”.
La fede religiosa fu il faro della vita di Gino Bartali, un uomo che dava del tu a De Gasperi e al quale Papa Giovanni chiese di insegnargli ad andare in bicicletta. Un uomo che fece della fede la forza della sua vita ed anche delle sue grandi imprese sportive.
Quel giorno che andai a trovarlo, dopo una chiacchierata di diverse ore in cui non riuscimmo più a registrare perché avevamo finito le cassette, Gino mi congedò con una delle sue ‘perle’. Nella sua casa c’era una gigantografia della famosa foto in cui i due grandi rivali-amici si scambiano la borraccia. “Come andò”, gli chiesi. “Lei che ne pensa?” “Io vedo che Fausto ha il portaborraccia vuoto e quindi deduco che è lui a dare la borraccia e lei a prenderla. Gino mi guardò con aria ironica e con la sua vociaccia roca ammise: “Quella volta me l’avrà data lui ma chissà quante volte glie l’avrò data io”.
Qualche anno dopo Gino morì. Il giorno dopo il funerale incontrai il presidente del Coni Gianni Petrucci, di ritorno da Firenze. Mi raccontò che all’ospedale di Careggi dove era morto Gino, lui fu indirizzato verso una camera mortuaria. Nella bara c’era un fraticello scalzo. Petrucci pensò di avere sbagliato stanza, ma non era così. Gino Bartali, il grande Bartali, l’uomo di acciaio, si era fatto mettere nella bara come l’ultimo dei carmelitani scalzi.

tratto da: http://www.globalist.it/sport/articolo/2018/05/02/vi-racconto-gino-bartali-il-giusto-fra-i-giusti-che-salvo-gli-ebrei-e-non-si-arrese-ai-fascisti-2023633.html