Quanto sono comodi i porti chiusi, la gente muore lontana e non se ne sentono le urla – Un ricordo: quando chiusero tutti i porti a 900 profughi ebrei, il loro destino fu la shoah, ma per la Storia i colpevoli furono solo i nazisti…

 

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Quanto sono comodi i porti chiusi, la gente muore lontana e non se ne sentono le urla – Un ricordo: quando chiusero tutti i porti a 900 profughi ebrei, il loro destino fu la shoah, ma per la Storia i colpevoli furono solo i nazisti…

Del genocidio del popolo ebraico per mano della Germania nazista ormai si sa quasi tutto. Storicamente siamo venuti a conoscenza delle cause, delle modalità, delle responsabilità e degli effetti. Altra cosa sono le storie delle singole persone che hanno avuto la vita sconvolta dall’odio nazi-fascista. Non tutti sanno, per esempio, che molti ebrei perseguitati dalle politiche antisemite del Terzo Reich provarono a salvarsi la vita emigrando verso le Americhe, la Palestina e nell’Estremo Oriente. 

Durante i primi sei anni della dittatura di Adolf Hitler, dal 1933 fino allo scoppio della seconda guerra mondiale nel 1939, contro gli ebrei vengono emanati più di 400 tra decreti e regolamenti che limitano i loro diritti sotto tutti gli aspetti, sia in campo pubblico che privato. Nel 1937 e nel 1938 le autorità tedesche inaspriscono la persecuzione “legale” degli ebrei tedeschi. Subito dopo la cosiddetta “Notte dei Cristalli”, avvenuta tra il 9 e il 10 novembre 1938, le leggi naziste proibiscono agli ebrei l’accesso alle scuole pubbliche, alle università, ai cinema, ai teatri e agli impianti sportivi. In molte città gli ebrei non possono accedere a determinate zone definite “ariane” e il governo impone che si identifichino, per separarli a tutti gli effetti dal resto della popolazione: a partire dal 1939 tutti gli ebrei che hanno nomi non di tradizione ebraica devono aggiungere “Israel” o “Sara” al loro nome di battesimo e sui loro passaporti e carte di identità viene stampata la G di giudeo.

Per sottrarsi a misure sempre più oppressive, a partire dall’inizio del 1939, molti ebrei tedeschi tentano di fuggire dal Paese. Il 13 maggio del 1939 il transatlantico St. Louis, capitanato dal comandante Gustav Schröder, salpa da Amburgo con a bordo 937 profughi, in gran parte ebrei, ma anche con diversi oppositori politici. Il comandante scrive una nota nel suo diario: “Un certo nervosismo serpeggia tra i passeggeri. Nonostante ciò, tutti sembrano convinti che non rivedranno mai più la Germania”. Il bastimento è diretto verso le Americhe e il primo scalo è l’isola di Cuba. A quel tempo Cuba è governata dal Presidente Federico Laredo Bru, che permette, come i suoi predecessori, agli Stati Uniti di esercitare una forte influenza sulla politica del Paese.

A Cuba vige il Decreto 55, che stabilisce il pagamento di 500 dollari per ottenere il visto necessario ai rifugiati per sbarcare sull’isola. Sfruttando una lacuna normativa nel definire a livello giuridico la differenza tra rifugiato e turista, il direttore dell’Immigrazione, Manuel Benitez, approfitta meschinamente della lacuna legislativa per vendere a caro prezzo ai rifugiati i permessi turistici per sbarcare a Cuba. Già prima della partenza da Amburgo della St. Louis si crea un florido mercato di visti turistici, rivenduti a prezzi spropositati ai disperati in fuga dalle persecuzioni. La situazione, durante il viaggio del transatlantico, peggiora ulteriormente. Il 5 maggio il parlamento promulga il Decreto 937 che, in sostanza, impedisce ai profughi ebrei di essere riconosciuti sia come turisti che come rifugiati. I molti che avevano già pagato il loro visto lo vedono trasformarsi all’improvviso in carta straccia. All’arrivo in porto, il governo cubano non concede agli esausti passeggeri della nave il permesso di sbarco. Alla St. Louis viene intimato di gettare l’ancora al largo delle coste di Cuba. Dopo una serie di trattative infruttuose con le autorità dell’isola il comandante Schröder circumnaviga Cuba e si allontana fino alle coste della Florida, sperando in un aiuto da parte degli Stati Uniti, dove vige una rigida politica sulle quote di immigrazione a cui il governo non vuole derogare.

Schröder inizia a temere per la salute psico-fisica dei suoi passeggeri, in particolare che possano verificarsi dei suicidi a causa dalla disperazione. Decide addirittura di istituire delle pattuglie per controllare che nessuno, durante la notte, possa compiere gesti estremi. La St. Louis invia allora una richiesta di aiuto al governo canadese, ma anche il primo ministro William Lyon Mackenzie King decide di non accettare i passeggeri come rifugiati. Il governo cubano, dopo giorni di indecisione, decide di concedere lo sbarco esclusivamente a chi pagherà un’ulteriore tassa di cinquecento dollari: solo 22 di loro riescono a scendere a L’Avana.

Seppur antirazzista e oppositore delle politiche del governo tedesco, il capitano Schröder è costretto a invertire la rotta, ma si rifiuta di restituire la nave alla Germania e cerca una collaborazione con i governi europei. La St. Louis fa ritorno in Europa e raggiunge Anversa, il 17 giugno 1939, più di un mese dopo la sua partenza. Gli esuli vengono ripartiti tra il Regno Unito, che accetta di accogliere 288 passeggeri, la Francia, il Belgio e i Paesi Bassi che accolgono i restanti 619. Molti di loro non vedranno la fine della guerra che scoppierà pochi mesi dopo.

Il mondo della prima metà del Novecento è diverso da quello dove viviamo oggi, ma in alcuni casi la storia sembra ripetersi con coincidenze inquietanti. L’Italia da anni sta affrontando l’immigrazione di profughi provenienti soprattutto da Africa, Asia e Medio-Oriente. Le persone che tentano di raggiungere le coste del nostro Paese – e conseguentemente dell’Europa – viaggiano su imbarcazioni fatiscenti e scappano spinte da diverse motivazioni.  Violenze contro chi non segue le leggi della Sharia, discriminazioni e persecuzioni a causa dell’orientamento sessuale, feroci regimi dittatoriali costringono migliaia di persone ogni anno a fuggire da Paesi come Eritrea, Gambia e Pakistan. Altrove, come in Nigeria e in Somalia, lo scontro tra gruppi armati, costituiti su base etnica o religiosa, porta i civili a fuggire in massa.

L’Europa sta reagendo politicamente e umanamente in modo inadeguato a questa emergenza umanitaria, i dibattiti interni a ogni paese membro dell’Unione sono incentrati sul tema dell’immigrazione e le soluzioni preferite dagli elettori sono quasi tutte orientate verso le politiche delle destre, che per ottenere consensi si mostrano sempre più xenofobe e intolleranti. Anche l’Italia, dopo le elezioni politiche del 4 marzo 2018 ha dimostrato di preferire chi, tra i contendenti alla guida del Paese, prometteva il pugno di ferro nella risoluzione della questione dei migranti.

Le conseguenze di questo tipo di scelte politiche sono state un susseguirsi di episodi controversi dal punto di vista umano e giuridico. L’ultimo caso eclatante è stato quello della nave battente bandiera olandese Sea Watch 3. Il 18 gennaio scorso l’imbarcazione ha tratto in salvo 47 persone al largo delle coste libiche, aprendo una querelle internazionale sulle responsabilità dei singoli paesi europei nell’accoglienza dei naufraghi. Il capitano dell’imbarcazione ha dichiarato di aver informato le autorità libiche, italiane, maltesi e olandesi per avere informazioni su come coordinare i soccorsi, non ricevendo alcuna risposta. L’Olanda ha deciso di non prendere in carico le persone salvate come forma di protesta alla mancanza di accordi europei su soluzioni strutturali per l’accoglienza dei migranti. Per quanto riguarda l’Italia, lo sbarco è stato impedito dalle disposizioni del ministro dell’Interno Matteo Salvini, una decisione che ha costretto 47 persone, tra cui 15 minori, a vivere per 13 giorni in mare. A bordo la situazione ha rischiato di precipitare per le precarie condizioni psico-fisiche dei profughi: il sindaco di Siracusa, Francesco Italia, in un’intervista ha riportato le parole del medico di bordo, preoccupato dal rischio di atti di autolesionismo che alcuni migranti avrebbero potuto infliggersi per l’esaurimento dovuto all’incertezza della situazione e alle precarie condizioni di vita a bordo.

Dopo intensi negoziati incorsi tra il nostro governo e quelli di altri paesi europei, la situazione sembrava essersi sbloccata il 30 gennaio, i migranti dovevano essere redistribuiti sui territori di 9 paesi tra cui l’Italia, eppure l’8 febbraio fonti del Viminale hanno reso noto che la Francia si è defilata dall’accordo e ha dichiarato che accoglierà solo le persone bisognose di aiuto e non i migranti economici. L’episodio della Sea Watch 3 non si è concluso neanche per l’equipaggio: nei giorni successivi allo sbarco dei migranti l’imbarcazione è stata oggetto di indagini, e anche se ad oggi non è stato trovato nulla di penalmente rilevante, come riferito da Giorgia Linardi, portavoce di Sea Watch in Italia, in una conferenza alla Camera dei deputati, è ancora ferma nel porto di Catania e non le è stato permesso di ripartire, come accusa il capo missione Kim Heaton-Heather in un videomessaggio diffuso su Twitter. È molto probabile che la vicenda della nave Ong olandese non sarà l’ultima di questo genere. Il ministro Salvini è ancora interessato dalle conseguenze di un episodio simile da lui gestito con la stessa intolleranza: quello della nave della Guardia Costiera U.DiciottiIl Tribunale dei ministri di Catania, pochi giorni fa, ha chiesto l’autorizzazione al Senato per procedere contro Matteo Salvini, al quale contesta la gestione dell’emergenza dei 117 migranti avvenuta lo scorso agosto. Il ministro è sotto accusa per il reato di sequestro di persona aggravato “per avere, nella sua qualità di ministro dell’Interno, abusando dei suoi poteri, privato della libertà personale 177 migranti di varie nazionalità giunti al porto di Catania.

La senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta all’Olocausto, negli ultimi tempi ha accusato più volte l’Italia e l’Unione europea di  porsi nei confronti della questione dei migranti con un atteggiamento pericolosamente simile a quello vissuto sulla sua pelle ai tempi della Shoah. La testimonianza dei sopravvissuti è un argine alla minaccia che quello che è già accaduto 70 anni fa si possa ripetere. Conoscere la storia e le sue analogie con il presente – come la storia della St. Louis – deve metterci in guardia da una deriva che sta sdoganando la mancanza di umanità come la nuova normalità nel governo di Paesi che si credono delle democrazie.

fonte: https://thevision.com/cultura/ebrei-st-louis-shoah/

32 anni fa ci lasciava Primo Levi – Vogliamo ricordarlo con la grande intervista rilasciata ad Enzo Biagi: “Come nascono i lager? Facendo finta di nulla”

 

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32 anni fa ci lasciava Primo Levi – Vogliamo ricordarlo con la grande intervista rilasciata ad Enzo Biagi: “Come nascono i lager? Facendo finta di nulla”

11 aprile 1987, 32 anni fa ci lasciava Primo Levi. Un Ricordo.

Enzo Biagi intervista Primo Levi: “Come nascono i lager? Facendo finta di nulla”

L’incontro tra il partigiano antifascista torinese e il giornalista andò in onda su Raiuno l’8 giugno 1982 nel programma “Questo secolo”. Lo scrittore raccontò la sua vita dal capoluogo piemontese al campo di concentramento polacco di Auschwitz e ritorno: “Non credemmo a quanto dicevano gli inglesi sullo sterminio degli ebrei. Eravamo stupidi e anestetizzati: abbiamo chiuso gli occhi e in tanti hanno pagato”

Levi come ricorda la promulgazione delle leggi razziali?
Non è stata una sorpresa quello che è avvenuto nell’estate del ’38. Era luglio quando uscì Il manifesto della razza, dove era scritto che gli ebrei non appartenevano alla razza italiana. Tutto questo era già nell’aria da tempo, erano già accaduti fatti antisemiti, ma nessuno si immaginava a quali conseguenze avrebbero portato le leggi razziali. Io allora ero molto giovane, ricordo che si sperò che fosse un’eresia del fascismo, fatta per accontentare Hitler. Poi si è visto che non era così. Non ci fu sorpresa, delusione sì, con grande paura sin dall’inizio mitigata dal falso istinto di conservazione: “Qui certe cose sono impossibili”. Cioè negare il pericolo.

Che cosa cambiò per lei da quel momento?
Abbastanza poco, perché una disposizione delle leggi razziali permetteva che gli studenti ebrei, già iscritti all’università, finissero il corso. Con noi c’erano studenti polacchi, cecoslovacchi, ungheresi, perfino tedeschi che, essendo già iscritti al primo anno, hanno potuto laurearsi. È esattamente quello che è accaduto al sottoscritto.

Lei si sentiva ebreo?
Mi sentivo ebreo al venti per cento perché appartenevo a una famiglia ebrea. I miei genitori non erano praticanti, andavano in sinagoga una o due volte all’anno più per ragioni sociali che religiose, per accontentare i nonni, io mai. Quanto al resto dell’ebraismo, cioè all’appartenenza a una certa cultura, da noi non era molto sentita, in famiglia si parlava sempre l’italiano, vestivamo come gli altri italiani, avevamo lo stesso aspetto fisico, eravamo perfettamente integrati, eravamo indistinguibili.

C’era una vita delle comunità ebraiche?
Sì anche perché le comunità erano numerose, molto più di ora. Una vita religiosa, naturalmente, una vita sociale e assistenziale, per quello che era possibile, fatta da un orfanotrofio, una scuola, una casa di riposo per gli anziani e per i malati. Tutto questo aggregava gli ebrei e costituiva la comunità. Per me non era molto importante.

Quando Mussolini entrò in guerra, lei come la prese?
Con un po’ di paura, ma senza rendermi conto, come del resto molti miei coetanei. Non avevamo un’educazione politica. Il fascismo aveva funzionato soprattutto come anestetico, cioè privandoci della sensibilità. C’era la convinzione che la guerra l’Italia l’avrebbe vinta velocemente e in modo indolore. Ma quando abbiamo cominciato a vedere come erano messe le truppe che andavano al fronte occidentale, abbiamo capito che finiva male.

Sapevate quello che stava accadendo in Germania?
Abbastanza poco, anche per la stupidità, che è intrinseca nell’uomo che è in pericolo. La maggior parte delle persone quando sono in pericolo invece di provvedere, ignorano, chiudono gli occhi, come hanno fatto tanti ebrei italiani, nonostante certe notizie che arrivavano da studenti profughi, che venivano dall’Ungheria, dalla Polonia: raccontavano cose spaventose. Era uscito allora un libro bianco, fatto dagli inglesi, girava clandestinamente, su cosa stava accadendo in Germania, sulle atrocità tedesche, lo tradussi io. Avevo vent’anni e pensavo che, quando si è in guerra, si è portati a ingigantire le atrocità dell’avversario. Ci siamo costruiti intorno una falsa difesa, abbiamo chiuso gli occhi e in tanti hanno pagato per questo.

Come ha vissuto quel tempo fino alla caduta del fascismo?
Abbastanza tranquillo, studiando, andando in montagna. Avevo un vago presentimento che l’andare in montagna mi sarebbe servito. È stato un allenamento alla fatica, alla fame e al freddo.

E quando è arrivato l’8 settembre?
Io stavo a Milano, lavoravo regolarmente per una ditta svizzera, ritornai a Torino e raggiunsi i miei che erano sfollati in collina per decidere il da farsi.

La situazione con l’avvento della Repubblica sociale peggiorò?
Sì, certo, peggiorò quando il Duce, nel dicembre ’43, disse esplicitamente, attraverso un manifesto, che tutti gli ebrei dovevano presentarsi per essere internati nei campi di concentramento.

Cosa fece?
Nel dicembre ’43 ero già in montagna: da sfollato diventai partigiano in Val d’Aosta. Fui arrestato nel marzo del ’44 e poi deportato.

Lei è stato deportato perché era partigiano o perché era ebreo?
Mi hanno catturato perché ero partigiano, che fossi ebreo, stupidamente, l’ho detto io. Ma i fascisti che mi hanno catturato lo sospettavano già, perché qualcuno glielo aveva detto, nella valle ero abbastanza conosciuto. Mi hanno detto: “Se sei ebreo ti mandiamo a Carpi, nel campo di concentramento di Fossoli, se sei partigiano ti mettiamo al muro”. Decisi di dire che ero ebreo, sarebbe venuto fuori lo stesso, avevo dei documenti falsi che erano mal fatti.

Che cos’è un lager?
Lager in tedesco vuol dire almeno otto cose diverse, compreso i cuscinetti a sfera. Lager vuol dire giaciglio,vuoldireaccampamento,vuoldireluogo in cui si riposa, vuol dire magazzino, ma nella terminologia attuale lager significa solo campo di concentramento, è il campo di distruzione.

Lei ricorda il viaggio verso Auschwitz?
Lo ricordo come il momento peggiore. Ero in un vagone con cinquanta persone, c’erano anche bambini e un neonato che avrebbe dovuto prendere il latte, ma la madre non ne aveva più, perché non si poteva bere, non c’era acqua. Eravamo tutti pigiati. Fu atroce. Abbiamo percepito la volontà precisa, malvagia, maligna, che volevano farci del male. Avrebbero potuto darci un po’ d’acqua, non gli costava niente. Questo non è accaduto per tutti i cinque giorni di viaggio. Era un atto persecutorio. Volevano farci soffrire il più possibile.

Come ricorda la vita ad Auschwitz?
L’ho descritta in Se questo è un uomo. La notte, sotto i fari, era qualcosa di irreale. Era uno sbarco in un mondo imprevisto in cui tutti urlavano. I tedeschi creavano il fracasso a scopo intimidatorio. Questo l’ho capito dopo, serviva a far soffrire, a spaventare per troncare l’eventuale resistenza, anche quella passiva. Siamo stati privati di tutto, dei bagagli prima, degli abiti poi, delle famiglie subito.

Esistono lager tedeschi e russi. C’è qualche differenza?
Per mia fortuna non ho visto i lager russi, se non in condizioni molto diverse, cioè in transito durante il viaggio di ritorno, che ho raccontato nel libro La tregua. Non posso fare un confronto. Ma per quello che ho letto non si possono lodare quelli russi: hanno avuto un numero di vittime paragonabile a quelle dei lager tedeschi, ma per conto mio una differenza c’era, ed è fondamentale: in quelli tedeschi si cercava la morte, era lo scopo principale, erano stati costruiti per sterminare un popolo, quelli russi sterminavano ugualmente ma lo scopo era diverso, era quello di stroncare una resistenza politica, un avversario politico.

Che cosa l’ha aiutata a resistere nel campo di concentramento?
Principalmente la fortuna. Non c’era una regola precisa, visibile, che faceva sopravvivere il più colto o il più ignorante, il più religioso o il più incredulo. Prima di tutto la fortuna, poi a molta distanza la salute e proseguendo ancora, la mia curiosità verso il mondo intero, che mi ha permesso di non cadere nell’atrofia, nell’indifferenza. Perdere l’interesse per il mondo era mortale, voleva dire cadere, voleva dire rassegnarsi alla morte.

Come ha vissuto ad Auschwitz?
Ero nel campo centrale, quello più grande, eravamo in dieci-dodici mila prigionieri. Il campo era incorporato nell’industria chimica, per me è stato provvidenziale perché io sono laureato in Chimica. Ero non Primo Levi ma il chimico n. 4517, questo mi ha permesso di lavorare negli ultimi due mesi, quelli più freddi, dentro a un laboratorio. Questo mi ha aiutato a sopravvivere. C’erano due allarmi al giorno: quando suonava la prima sirena, dovevo portare tutta l’apparecchiatura in cantina, poi, quando suonava quella di cessato allarme, dovevo riportare di nuovo tutto su.

Lei ha scritto che sopravvivevano più facilmente quelli che avevano fede.
Sì, questa è una constatazione che ho fatto e che in molti mi hanno confermato. Qualunque fede religiosa, cattolica, ebraica o protestante, o fede politica. È il percepire se stessi non più come individui ma come membri di un gruppo: “Anche se muoio io qualcosa sopravvive e la mia sofferenza non è vana”. Io, questo fattore di sopravvivenza non lo avevo.

È vero che cadevano più facilmente i più robusti?
È vero. È anche spiegabile fisiologicamente: un uomo di quaranta-cinquanta chili mangia la metà di un uomo di novanta, ha bisogno di metà calorie, e siccome le calorie erano sempre quelle, ed erano molto poche, un uomo robusto rischiava di più la vita. Quando sono entrato nel lager pesavo 49 chili, ero molto magro, non ero malato. Molti contadini ebrei ungheresi, pur essendo dei colossi, morivano di fame in sei o sette giorni.

Che cosa mancava di più: la facoltà di decidere?
In primo luogo il cibo. Questa era l’ossessione di tutti. Quando uno aveva mangiato un pezzo di pane allora venivano a galla le altre mancanze, il freddo, la mancanza di contatti umani, la lontananza da casa…

La nostalgia, pesava di più?
Pesava soltanto quando i bisogni elementari erano soddisfatti. La nostalgia è un dolore umano, un dolore al di sopra della cintola, diciamo, che riguarda l’essere pensante, che gli animali non conoscono. La vita del lager era animalesca e le sofferenze che prevalevano erano quelle delle bestie. Poi venivamo picchiati, quasi tutti i giorni, a qualsiasi ora. Anche un asino soffre per le botte, per la fame, per il gelo e quando, nei rari momenti, in cui capitava che le sofferenze primarie, accadeva molto di rado, erano per un momento soddisfatte, allora affiorava la nostalgia della famiglia perduta. La paura della morte era relegata in secondo ordine. Ho raccontato nei miei libri la storia di un compagno di prigionia condannato alla camera gas. Sapeva che per usanza, a chi stava per morire, davano una seconda razione di zuppa, siccome avevano dimenticato di dargliela, ha protestato: “Ma signor capo baracca io vado nella camera a gas quindi devo avere un’altra porzione di minestra”.

Lei ha raccontato che nei lager si verificavano pochi suicidi: la disperazione non arrivava che raramente alla autodistruzione.
Sì, è vero, ed è stato poi studiato da sociologi, psicologi e filosofi. Il suicidio era raro nei campi, le ragioni erano molte, una per me è la più credibile: gli animali non si suicidano e noi eravamo animali intenti per la maggior parte del tempo a far passare la fame. Il calcolo che quel vivere era peggiore della morte era al di là della nostra portata.

Quando ha saputo dell’esistenza dei forni?
Per gradi, ma la parola crematorio è una delle prime che ho imparato appena arrivato nel campo, ma non gli ho dato molta importanza perché non ero lucido, eravamo tutti molto depressi. Crematorio, gas, sono parole che sono entrate subito nelle nostra testa, raccontate da chi aveva più esperienza. Sapevamo dell’esistenza degli impianti con i forni a tre o quattro chilometri da noi. Io mi sono esattamente comportato come allora quando ho saputo delle leggi razziali: credendoci e poi dimenticando. Questo per necessità, le reazioni d’ira erano impossibili, era meglio calare il sipario e non occuparsene.

Poi arrivarono i russi e fu la libertà. Come ricorda quel giorno?
Il giorno della liberazione non è stato un giorno lieto perché per noi è avvenuto in mezzo ai cadaveri. Per nostra fortuna i tedeschi erano scappati senza mitragliarci, come hanno fatto in altri lager. I sani sono stati ri-deportati. Da noi sono rimasti solo gli ammalati e io ero ammalato. Siamo stati abbandonati, per dieci giorni, a noi stessi, al gelo, abbiamo mangiato solo quelle poche patate che trovavamo in giro. Eravamo in ottocento, in quei dieci giorni seicento sono morti di fame e freddo, quindi, i russi mi hanno trovato vivo in mezzo a tanti morti.

Questa esperienza ha cambiato la sua visione del mondo?
Penso di sì, anche se non ho ben chiara quale sarebbe stata la mia visione del mondo se non fossi stato deportato, se non fossi ebreo, se non fossi italiano e così via. Questa esperienza mi ha insegnato molte cose, è stata la mia seconda università, quella vera. Il lager mi ha maturato, non durante ma dopo, pensando a tutto quello che ho vissuto. Ho capito che non esiste né la felicità, né l’infelicità perfetta. Ho imparato che non bisogna mai nascondersi per non guardare in faccia la realtà e sempre bisogna trovare la forza per pensare.

Grazie, Levi.
Biagi, grazie a lei.

Da Il Fatto Quotidiano del 26 gennaio 2014

 

Giorno della memoria – Per non dimenticare – Liliana Segre e Auschwitz: “Mio padre si scusò per avermi messa al mondo”

 

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Giorno della memoria – Per non dimenticare – Liliana Segre e Auschwitz: “Mio padre si scusò per avermi messa al mondo”

La senatrice a vita: “Il sapore della libertà è quello di un’albicocca secca, lanciata dagli americani”

Mio padre mi disse “Ti chiedo scusa di averti messa al mondo”. Ma io ho avuto la fortuna, nella disgrazia, di vivere questa tragedia da figlia”. Lo ha detto la senatrice Liliana Segre, stasera ospite a Che tempo che fa da Fabio Fazio. “Io rispondevo ‘sono contenta di essere qui con te”.

Segre ricorda il viaggio verso Auschwitz. “Il viaggio durava una settimana con altri disgraziati. Ricordo che il treno arrivato ad Auschwitz prima si fermò: noi vedemmo un orologio grande che era sulla facciata della stazione ferroviaria vera. Poi il treno proseguì, la prima era una stazione artificiale, preparata per i treni che arrivano da tutta l’Europa occupata dai nazisti. Era un enorme spiazzo pieno di neve con i binari morti e dei treni in cui nessun ferroviere si è chiesto come mai arrivassero pieni e tornassero vuoti. Lì venivamo sbattuti con una violenza inaudita giù dai vagoni. Avevano deportato dalla casa di riposo di Venezia tutti gli ospiti, tra cui una signora di 98 anni. La deportazione dei vecchi, con le sue limitazioni, le ho capite solo ora: trovarsi 8 giorni dentro quel vagoni, era difficile, era faticosa anche la discesa e venivano buttati giù dalla carrozza bestiame per poi essere uccisi. C’era una grandissima confusione, era uno di quei momenti in cui esci da te stesso e dici: ‘ma sono proprio io che sono qui?’ Un incubo: invece era tutto vero”.

Liliana Segre ha raccontato in un altro passaggio che allora aveva 13 anni, “ero abbastanza consapevole di quel che accadeva, ma ero molto semplice, avevo vissuto” il tentativo di espatrio “quasi come un’avventura, ma già quella sera eravamo nella camera di sicurezza per la colpa di essere nato”.

Ed ancora: “Avevo lottato per resistere e non cadere, a 13 anni avevo provato a farcela ma il ritorno fu una delusione terribile. Tornata a Milano ho trovato parenti, buone persone che mi volevano bene ma c’era un mondo così diverso da quello che avevo sognato, non avevo più la mia casa, nè tanti visi intorno a me, nè papà, nè i nonni. Mi sentivo vecchia pur avendo solo 16 anni, ero molto più vecchia allora di quanto non mi senta ora, che ho trovato l’amore e sono diventata nonna”. Per Liliana Segre, il sapore della libertà “è quello di una albicocca secca: sono stata testimone della storia che cambiava: l’ultimo giorno della mia prigionia, il 1 maggio 1945, avevamo visto gli ufficiali tedeschi mettersi in borghese, fuggivano, c’era un cambio di ruolo. Improvvisamente arrivò la prima camionetta americana, non sapevamo chi fossero questi fantastici soldati. Buttavano dai camion cioccolata, sigarette e ricordo una albicocca secca. Allora pesavo 32 chili: con fatica la raccolsi, era fantastica, era il sapore della libertà”.

18 anni dalla scomparsa di Gino Bartali, il 5 maggio del 2000 – Ecco chi era il “giusto fra i giusti” che salvò gli ebrei e non si arrese ai fascisti

Gino Bartali

 

 

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18 anni dalla scomparsa di Gino Bartali, il 5 maggio del 2000 – Ecco chi era il “giusto fra i giusti” che salvò gli ebrei e non si arrese ai fascisti

Vi racconto Gino Bartali, il ‘giusto fra i giusti’ che salvò gli ebrei e non si arrese ai fascisti

Il Ginettaccio ha avuto la cittadinanza israeliana ad honorem. Per la sua opera rischiò di essere fucilato dalle camicie nere

Oggi il Giro d’Italia parte eccezionalmente da Israele dove Gino Bartali è stato dichiarato “giusto fra i giusti” e qualcuno, nel mondo cattolico, vorrebbe aprire una causa di beatificazione. Onori questi che spettano non soltanto a un grande sportivo ma anche a un grande uomo passato alla storia d’Italia anche per le sue imprese civili.
Un atleta che gli sportivi di tutta Europa hanno chiamato l’uomo di acciaio, per la forza fisica e per l’eccezionale resistenza alla fatica. I francesi che lo hanno temuto e ammirato, lo chiamavano “Le lion de Toscan”. Negli ultimi anni della sua carriera, quando continuava a correre e anche a vincere nonostante fosse vicino ai 40 anni, Bartali diventò l’Intramontabile. Ma fu di volta in volta Ginettaccio e l’uomo del “tutto sbagliato, tutto da rifare” per la sua lingua lunga, per la battuta salace, per la sua verve toscana, che lo mise contro tutti, a cominciare dal regime fascista che non lo ha mai amato, ma anzi lo ostacolò per la sua ostentata appartenenza al mondo cattolico, che a quell’epoca voleva essere l’unico modo per manifestare il proprio dissenso nei confronti del regime.
Se si sa di quello che Gino fu capace di fare durante l’occupazione nazista. Delle sue corse in bicicletta fino ad Assisi, con la scusa dell’allenamento, per procurare documenti agli ebrei e agli antifascisti, che venivano falsificati dai frati e che poi lui portava al Cardinale Dalla Costa, che ebbe un ruolo molto importante nella Resistenza fiorentina. Venni poi a sapere che per questa sua attività fu arrestato dal famigerato maggiore Carità, noto torturatore al servizio dei nazisti, il quale voleva sentire da Gino il nome del Cardinale. Ma Gino resistette anche alla tortura e alle minacce di morte. Fu sua moglie Adriana, una ragazzina poco più che ventenne, a far vacillare il boia fascista. “Tu sei già passato alla storia per le tue efferatezze, ora vuoi passare alla storia anche per aver ucciso il più grande ciclista italiano!” Il boia vacillò di fronte alle parole di quella ragazzina: “vattene via” disse a Gino “tu sei il ciclista che questa Italia di merda si merita”.
Gino non parlava mai di queste sue imprese: oggi sappiamo che insieme al Cardinale Dalla Costa che dirigeva la Resistenza fiorentina, riuscì a mettere in salvo ottocento ebrei, molti nascondendoli a casa sua. In una intervista glie ne chiesi il perché. “Perché queste cose quando si è chiamati si fanno e basta. Io non l’ho fatto per avere dei meriti, l’ho fatto soltanto per fare il mio dovere di uomo, di italiano e di cristiano”.
La fede religiosa fu il faro della vita di Gino Bartali, un uomo che dava del tu a De Gasperi e al quale Papa Giovanni chiese di insegnargli ad andare in bicicletta. Un uomo che fece della fede la forza della sua vita ed anche delle sue grandi imprese sportive.
Quel giorno che andai a trovarlo, dopo una chiacchierata di diverse ore in cui non riuscimmo più a registrare perché avevamo finito le cassette, Gino mi congedò con una delle sue ‘perle’. Nella sua casa c’era una gigantografia della famosa foto in cui i due grandi rivali-amici si scambiano la borraccia. “Come andò”, gli chiesi. “Lei che ne pensa?” “Io vedo che Fausto ha il portaborraccia vuoto e quindi deduco che è lui a dare la borraccia e lei a prenderla. Gino mi guardò con aria ironica e con la sua vociaccia roca ammise: “Quella volta me l’avrà data lui ma chissà quante volte glie l’avrò data io”.
Qualche anno dopo Gino morì. Il giorno dopo il funerale incontrai il presidente del Coni Gianni Petrucci, di ritorno da Firenze. Mi raccontò che all’ospedale di Careggi dove era morto Gino, lui fu indirizzato verso una camera mortuaria. Nella bara c’era un fraticello scalzo. Petrucci pensò di avere sbagliato stanza, ma non era così. Gino Bartali, il grande Bartali, l’uomo di acciaio, si era fatto mettere nella bara come l’ultimo dei carmelitani scalzi.

tratto da: http://www.globalist.it/sport/articolo/2018/05/02/vi-racconto-gino-bartali-il-giusto-fra-i-giusti-che-salvo-gli-ebrei-e-non-si-arrese-ai-fascisti-2023633.html