Africa – Aiutarli a casa loro? Intanto, potremmo col cominciare a smetterla di rapinarli a casa loro…

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Africa – Aiutarli a casa loro? Intanto, potremmo col cominciare a smetterla di rapinarli a casa loro…

 

Dossier. Secondo il rapporto «Honest Accounts», a conti fatti il continente africano risulta essere creditore climatico e finanziario. E gli stessi africani nemmeno lo sanno

Nel 1989 la Campagna Nord-Sud (Biosfera, sopravvivenza dei popoli, debito) organizzò a Verona il convegno «Il Sud del mondo, nostro creditore». Trent’anni dopo, i politici occidentali amano invece lo slogan «aiutiamoli a casa loro» (sottotitolo: così non ci invadono).
Ma prendiamo il continente africano. Come diceva Leopold Senghor: «L’Africa ha dato tanto, ma gli stessi africani non lo sanno». Li informa e ci informa il rapporto Honest Accounts. How the world profits from Africa’s Wealth, preparato da una serie di organizzazioni britanniche e africane, fra le quali Global Justice Now e People’s Health Movement KenyaHealth Poverty ActionUganda Debt Network: «I 48 paesi dell’Africa sub-sahariana sono ricchi di risorse minerarie, lavoratori specializzati, nuove attività economiche e biodiversità. Ma sono a tutti gli effetti derubati da un sistema globale che avvantaggia una piccola minoranza consentendo alla ricchezza di uscire dall’Africa; così, secondo la Banca africana di sviluppo, 800 milioni vivono con meno di 4 dollari al giorno».

Nel 2015 il continente ha ricevuto 161,6 miliardi di dollari fra rimesse, prestiti e donazioni. Però di miliardi ne ha dati – diciamo persi – ben 202,9, sia direttamente sia indirettamente. Il suo credito è dunque pari a 41,3 miliardi di dollari.

Ecco i dettagli forniti da Honest Accounts. I paesi africani ricevono intorno ai 19 miliardi come donazioni, ma oltre il triplo di questa somma (68 miliardi) si disperde in uscite finanziarie illegali grazie a elusioni e falsificazioni da parte delle multinazionali, macchine saccheggiatrici che per le materie prime africane delle quali si occupano pagano pochissime tasse ai paesi ospiti, rifugiandosi con escamotages nei paradisi fiscali. Inoltre: all’Africa arrivano in rimesse dall’estero circa 31 miliardi, ma le multinazionali straniere spostano 32 miliardi di profitti nei loro paesi di provenienza. I governi africani, poi, sempre nel 2015, hanno ricevuto 32,8 miliardi di dollari in prestiti ma hanno pagato 18 miliardi per gli interessi. Altri 29 miliardi sono stati «rubati» all’Africa con la sottrazione abusiva di legname, con la pesca e il commercio illegale di piante e animali esotici. E poi ci sono i 10,6 miliardi di dollari di costi relativi all’impatto dei cambiamenti climatici, rispetto ai quali sia storicamente che attualmente l’Africa ha una responsabilità minima. Vanno aggiunti i 26 miliardi di dollari che il continente deve investire per i programmi di contrasto ai cambiamenti stessi.

Si può parlare di «maledizione delle risorse naturali»: la maggioranza delle popolazioni locali non ne trae benefici e le attuali modalità di estrazione conducono all’impoverimento e a mortali guerre per procura. Soprattutto da quando gli Usa hanno deciso di non lasciare più l’Africa agli ex colonizzatori europei – si pensi al Congo, con le sue riserve ancora intatte stimate intorno ai 24 trilioni di dollari, e con i milioni di morti nel conflitto. Ci sono, ovviamente, responsabilità condivise. I leader africani che non si allineano vengono assassinati, come accadde al burkinabè Thomas Sankara nel 1987 pochi mesi dopo il suo epico discorso all’Organizzazione per l’unità africana (Oua) sull’ingiustizia del debito.

Ha sottolineato Nathalie Sharples di Health Poverty Action, intervenendo giorni fa a Roma al convegno «I migranti, l’Africa, le nostre responsabilità» – organizzato dalla Federazione italiana emigrazione immigrazione e da Casa Africa: «Per onestà, la narrazione va cambiata. Altro che parlare di aiuti. Si dica che occorre procedere a riparazioni, a compensazioni in base al danno provocato. L’Occidente non è un caritatevole benefattore, come fa credere ai suoi cittadini i quali, dal canto loro, credono di cavarsela con piccole donazioni. Questa percezione è fuorviante, crea ostilità e impedisce la mobilitazione sulle cause reali della povertà: cambiamenti climatici, accordi commerciali ingiusti che rapinano le risorse naturali, paradisi fiscali, debito coloniale».

Honest Accounts propone un «programma onestà» in 9 punti. Fra questi: politiche economiche che portino a uno sviluppo equo; riparazioni obbligatorie da parte del Nord, previo calcolo delle responsabilità; contrasto ai paradisi fiscali; promozione di forme di attività economiche diverse dalle estrattive, e una tassazione maggiore su queste ultime; risarcimento dei costi climatici e serio impegno per riduzioni vincolanti delle emissioni di gas serra nel Nord.

A proposito di clima, Antonello Pasini, fisico del Cnr e coautore di Effetto serra effetto guerra (2017), ha ricordato al convegno di Roma che nel 2050 ben 143 milioni di persone saranno profughi ambientali. Nei dieci paesi saheliani più ambientalmente fragili, la diminuzione delle precipitazioni e l’aumento della temperatura aggravano i fenomeni di siccità e possono provocare distruzione dei raccolti, carestie. Ma la buona notizia è che una saggia restituzione internazionale può dar luogo a progetti win-win: con meno di 100 euro si recupera un ettaro di terre degradate in Africa. Questi interventi sono in grado di alimentare le popolazioni e allo stesso tempo di assorbire CO2 dall’atmosfera.

Ma non è tutto. Ai debiti dell’Occidente nei confronti dell’Africa subsahariana dovremmo aggiungere i danni bellici. Non solo gli africani arruolati a partire dalla prima guerra mondiale dalle potenze coloniali ma, in tempi recentissimi, l’intervento Nato in Libia nel 2011, su netto impulso della Francia, preoccupata fra l’altro che il dinaro d’oro proposto dalla Libia all’Africa minacciasse l’impero del franco Cfa nelle ex colonie subsahariane. Una guerra costata parecchio all’Africa. Sia per le centinaia di migliaia di sub-sahariani (oltre ai nordafricani) che lavoravano nel paese bombardato e ora smembrato, ma anche per un altro enorme danno sociale: la diffusione del terrorismo che ora infetta il Sahel grazie alle armi saccheggiate o ricevute dai gruppi di «ribelli». Per questo, in testa alla lista del da farsi dovrebbe campeggiare un: «Non bombardiamoli».

Tratto da: il manifesto, EDIZIONE DEL 20.12.2018

Ci stiamo mangiando l’Africa e la chiamiamo democrazia

 

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Ci stiamo mangiando l’Africa e la chiamiamo democrazia

Secondo gli economisti, i paesi africani sono tutti in crescita, l’Africa è in continuo sviluppo ma ha due giganteschi problemi: noi occidentali e la non redistribuzione del valore all’interno delle nazioni africane.

Il problema è anche che la maggior parte della crescita di questi paesi è alimentata dal debitoe dalle vendite di risorse naturali, quindi è una crescita su carta, non una crescita della società: la maggioranza della popolazione vive in povertà con poche e rare parentesi di prosperità.

Nei paesi africani, la storia negli ultimi cento anni è particolarmente ripetitiva, in modo quasi inquietante. Ogni tanto c’è una rivolta, arriva un nuovo leader con idee socialiste-nazionaliste del tutto legittime che vengono bollate dall’occidente come filo-comuniste. Il leader stesso viene additato come dittatore, anche se strappa una nazione da una monarchia oscurantista e oppressiva, portandola a una repubblica moderna. Il leader in questione di solito resiste vivo qualche anno, poi viene destituito o ucciso da una rivolta finanziata dai paesi che hanno interessi economici nelle risorse locali. Se il leader riesce a restare in carica più a lungo, in genere finisce per impazzire e diventa un dittatore sanguinario. Molto lo fa la scarsa formazione culturale, l’assenza di intellighenzia del paese, ma parecchio lo fa la pressione quotidiana. Se vivi in una situazione in cui non ti puoi fidare di nessuno, ogni giorno potrebbe essere l’ultimo e l’unico modo per sopravvivere è essere molto paranoici… Da lì alla follia, il passo è breve.

Uno degli ultimi di questi leader di lunga carriera è stato Gheddafi. I media europei si fingono disgustati da Gheddafi, un vecchio dittatore pazzo e vizioso, maniaco di chirurgia plastica, sfarzo, harem e lolitismo (come se in Italia non avessimo avuto il maggiore rappresentante della categoria!). Ma l’informazione mediatica di massa dimentica sempre di raccontare che Gheddafi è stato prima di tutto un idealista, un teorico del neo-socialismo, che ha guidato la rivoluzione contro un re oppressore del popolo che svendeva le risorse a Francia e Stati Uniti, schiacciando la popolazione nella miseria e nell’analfabetismo.

In seguito al colpo di stato, presentato dai media come “oppressiva dittatura militare”, Gheddafi ha messo in pratica le sue idee di rifiuto per il capitalismo, scegliendo una forma di socialismo nazionalista ispirato al socialismo arabo di Gamāl ʿAbd al-Nāṣer, quest’ultimo però presentato come grande politico perché levava a USA e Francia la fatica di mettere d’accordo Husayn e Arafat. Gheddafi ha messo in pratica la ridistribuzione della ricchezza petrolifera per sostenere programmi di benessere sociale: i soldi provenienti dal petrolio venivano depositati direttamente nei conti bancari dei cittadini libici. I loro figli avevano accesso a scuole statali gratuite che prima nemmeno esistevano. C’era lavoro e ospedali pubblici all’avanguardia.
Ha dimostrato che un paese africano che gestisce le sue risorse senza occidentali è un paese ricco. Pensate se lo facesse domattina il nostro governo, se invece di farci pagare le tasse e spendere otto milioni di euro in chat erotiche e scommesse (spesa scoperta ad agosto 2017 dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Digitalizzazione), ci versasse i soldi delle forniture all’estero direttamente sui nostri conti correnti, perché è giusto che partecipiamo anche agli utili. Non diventeremmo grandi sostenitori del governo che attua questa misura?

Sotto la guida di Gheddafi, i libici hanno goduto non solo di assistenza sanitaria e istruzione gratuita, cose rarissime in Africa, ma anche di elettricità gratuita e prestiti senza interessi, oltre ai versamenti dei dividendi dello stato sul proprio conto. Infatti la Libia di Gheddafi negli anni 70-80 è diventata improvvisamente un paese prospero: perché redistribuiva ai cittadini e li istruiva. Creando così (ed è stato questo il principio della fine) un pericoloso precedente per gli altri stati africani che cominciarono a interessarsi della Libia e valutarono che magari potevano fare lo stesso.

Ovviamente è bastato poco perché i leader dell’Occidente vedessero la Libia come una minaccia, la presentassero come uno stato totalitarista in cui non venivano rispettati i diritti umani, fino a finanziarne la rivoluzione del 2011. Certo, Gheddafi a quel punto era già perso nella sua follia dentro la sua casa sotterranea a ordinare di giustiziare chi pensava che lo tradisse. Ma se invece i libici delle nuove generazioni, i quali avevano i mezzi culturali e politici, fossero stati aiutati dall’occidente a far funzionare la repubblica invece che a devastare il paese con una guerra civile? Oggi non ci sarebbe un paese comodamente in crisi, ma un paese prospero, scomodo per chi deve comprare le risorse minerarie, perché non vuole altri al tavolo della contrattazione, un competitor ulteriore al tavolo degli equilibri internazionali, ovvero uno che prima o poi vorrà una fetta di quel 90% di ricchezza mondiale detenuta da pochissimi.

I media raccontano che Gheddafi è stato un dittatore brutale e probabilmente è in parte vero, negli ultimi due decenni lo è stato, ormai incontrollabile, perseguitato dai fantasmi della paura e del non potersi fidare di nessuno, deluso da tutti, con diversi tentativi di colpi di stato alle spalle. Sarebbe bastata però una destituzione incruenta, politica. Invece un paese nel caos è quello che ha bisogno l’Occidente.

La verità è che Gheddafi è stato una delle principali minacce del sistema petro-dollaro dell’economia globale e del continuo sfruttamento dell’Africa. E’ stato l’artefice principale di un paese che prosperava ribellandosi al controllo americano e europeo, un esempio pericoloso per gli altri stati africani che potevano prendere la stessa via.

La Libia di Gheddafi finanziò Sankara in Burkina Faso, Gheddafi stesso lo introdusse ad altri politici e filosofi africani anticolonialisti. Un uomo dalle idee pericolose, che è meglio farci ricordare sfatto e in abiti ridicoli nei suoi ultimi anni che non come pensatore anti-capitalista e artefice del welfare del suo paese che aveva reso ricco.

Purtroppo, la Libia è stata completamente distrutta dall’Occidente quando gli Stati Uniti l’hanno invasa nel 2011 facendola regredire di un centinaio di anni, togliendo tutti i benefici statali, distruggendo gli ospedali all’avanguardia, le scuole, tutto. La Libia oggi è uno stato fallito e caotico, dipendente dall’importazione della “libertà e democrazia” americane.

Secondo Garikai Chengu, ricercatore di Harvard specializzato nei movimenti politici africani e lui stesso attivista, la liberazione africana dovrà prevedere tre fasi: la ridistribuzione di terreni e risorse naturali alle popolazioni locali; il rifiuto completo delle politiche neoliberali del Fondo Monetario e della Banca mondiale; lo sviluppo della capacità di raffinazione minerale in proprio, senza le grandi compagnie multinazionali.

Purtroppo per l’Africa, queste misure non hanno ancora radicato e quando si affacciano in veste di qualche rivoluzionario, come nel caso della Libia, del Burkina Faso, dell’Egitto, vengono prontamente bollate come l’opera di militari-dittatori folli e subito boicottate da USA ed Europa in nome di una pace e di una democrazia che non sono altro che le parole vuote lanciate ai media, come i frisbee ai cani.

 

fonte: http://www.dolcevitaonline.it/ci-stiamo-mangiando-lafrica-e-la-chiamiamo-democrazia/