L’umanità che finisce nei cassonetti

 

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L’umanità che finisce nei cassonetti

A scuola ci sono bambini che rimangono indietro, potremmo buttarli in un cassonetto, così, gli altri possono andare avanti. Oppure quelli con il buco nelle magliette e i pantaloni rotti. O quegli alunni a cui a mensa diamo doppia razione perché sappiamo che la sera non mangeranno.Potremmo buttare i vecchi, quelli che rendono la nostra società improduttiva. O i malati. Un peso per la società. O gli stranieri, tutti quanti, intanto sono rifiuti. E nessuno li vuole vedere in giro, mentre cercano cibo o vestiti. Disturbano le Signore e i Signori mentre portano a spasso il loro cane.

Potremmo buttare nel cassonetto, anche il corpo di Beauty, la madre nigeriana, che ha salvato suo figlio (leggi anche Beauty, il suo destino è il nostro di Andrea Segre). Anzi, buttiamo anche lui, intanto qui non c’è posto. Che poi, magari da grande, prova ad attraversare il confine, o si spiaggia a Ventimiglia e sono grane. Già che ci siamo potremmo buttare nei cassonetti tutti i disabili. Se non vincono medaglie, a cosa servono?

Un cassonetto per ogni disturbo. Ogni mancanza. Ogni cosa che ci turba, turba la nostra ricca normalità. Al Nord si potrebbero buttare nei cassonetti tutti quelli del Sud, i terroni. E quelli del Sud potrebbero buttare nei cassonetti quelli ancora più a Sud. Quelli sui barconi, ad esempio. Ah, no! Quelli li buttiamo già in mare. Comunque c’è sempre qualcuno che sta più a sud di qualche d’un altro. Il che mi tranquillizza.

I cassonetti sono una buona soluzione per la nostra società. Non so perché non ci abbiano pensato prima! Un’intuizione, gli altri comuni potrebbero prenderci a esempio, che a veder rovistare i poveri non se ne poteva davvero più.

Ora i cassonetti sono pieni, nessuno rovista, che se non la vediamo la povertà, possiamo pensare che non ci sia. Possiamo pensare che sia un problema che non ci tocchi. Lontano. Molto lontano.

Così come la disabilità e magari chiudere i consultori, intanto ci sono i cassonetti!

Il problema è che dentro ai cassonetti, insieme alla spazzatura e ai rifiuti, c’è finita l’unica cosa che ci rende persone, l’unica cosa che dovremmo difendere. La nostra umanità.

C’è un punto oltre il quale non possiamo andare. Oltre il quale non siamo più persone ma qualcos’altro.

A Genova c’è stata un ordinanza del sindaco che sanziona con una multa da duecento euro chi rovista nei cassonetti. La povertà non è un crimine. Io so da che parte voglio stare, spero lo sappiate anche voi.

 

di Penny*

* Insegnante e madre di due ragazze adolescenti. Sul sul suo blog sosdonne.com (dove questo articolo è apparso con il titolo completo Quando la povertà è dei bambini. Voi che parlate di meritocrazia, sciacquatevi la bocca) dice di scrivere “per necessità” e che la sua ragazza quindicenne fa i disegni (davvero belli, come quello di questo articolo). Ha autorizzato con piacere Comune a pubblicare i suoi articoli e ha aderito alla campagna Un mondo nuovo comincia da qui scrivendo:

Se c’è una libertà che abbiamo ancora, è quella di poter utilizzare le parole. Le parole sono potenti. Hanno la presunzione di cambiare le cose. Distruggere muri e creare ponti. Comunedona una possibilità alle parole, come quella di avvicinarsi alla verità, anche se scomoda. E lo fa nell’unico modo possibile, mettendo insieme e interrogandosi. Noi possiamo esserci. E farlo insieme in un progetto che unisce. Dicendo no a una società che divide. Penny

fonte: https://comune-info.net/2018/03/lumanita-finisce-nei-cassonetti/

Pierre Rabhi: occorre un ritorno alla terra per cambiare la nostra società fondata esclusivamente sul denaro.

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Pierre Rabhi: occorre un ritorno alla terra per cambiare la nostra società fondata esclusivamente sul denaro.

Pierre Rabhi: l’avvento del capitalismo-schiavistico e LA FINE DI UN MONDO SECOLARE!

Pierre Rabhi, contadino e filosofo Algerino, trapiantato in Francia dai tempi del colonialismo francese, che sostiene, giustamente, che occorre un ritorno alla terra per cambiare realmente le nostre esistenze e la nostra società fondata esclusivamente sul denaro. Lui il passo l’ha fatto già negli anni ’60 ed oggi cerca di diffondere il verbo tramite libri e conferenze in giro per il mondo.

La povertà non sempre è sintomo di malessere. Crediamo che oggi, immersi nell’opulenza e nel materialismo più sfrenato, si viva meglio rispetto al passato e rispetto a quelle società cosiddette sottosviluppate e povere. Siamo convinti di essere ricchi, di poterci permettere tutto, di essere superiori ma ahimè non è così! Per capire il vero senso della vita leggi attentamente i seguenti paragrafi tratti dal libro di Pierre Rabhi “La sobrietà felice” di cui consigliamo la lettura integrale.

Un uomo semplice, che abita in una piccola oasi del Sud dell’Algeria, si dedica ogni giorno ai suoi doveri di padre di famiglia. Apre la porta della sua bottega, accende il fuoco e, per tutta la giornata, lavora il metallo. Fa manutenzione agli attrezzi agricoli dei contadini, ripara i modesti oggetti d’uso quotidiano. Quel piccolo Vulcano del deserto fa cantare tutto il giorno l’incudine, mentre un apprendista tira la corda del mantice della forgia per attizzare le fiamme. Scintille incandescenti….

Un bambino lo guarda ammirato in silenzio, ne è fiero, immensamente fiero. Di tanto in tanto l’uomo, dal volto volitivo, ascetico e grondante di sudore, si ferma per accogliere i clienti, rispondere alle loro richieste. A volte, davanti alla bottega si forma spontaneamente un assembramento di uomini. Accovacciati su una stuoia di fibre di palma chiacchierano, bevono thé, scherzano, ridono, discutono anche di questioni serie.

Non lontano dalla bottega c’è una piazza quadrata, molto ampia, circondata di negozi – droghieri, macellai, venditori di tessuti e quant’altro – e di laboratori di sarti, calzolai, falegnami, piccoli orafi…

Ogni giorno dalla botteghe fuoriescono canti, come balsami di serenità, che si spandono nell’atmosfera tiepida o soffocante, a seconda delle stagioni. Sul lato ovest c’è uno spiazzo spoglio, aperto dove si tiene il mercato. Una sorta di caravanserraglio senza muri in cui dromedari che bramiscono, pecore, capre, asini e cavalli si mischiano sprigionando odori forti. Alcuni nomadi vanno e vengono in silenzio; altri rimangono accovacciati contro sacchi di tela ruvida gonfi di cereali …. Datteri essiccati per la conservazione e a volte, in stagione, tartufi del deserto si offrono a chi desidera comprarli. Tutto ciò produce un ovattato tumulto, punteggiato dalle voci acute dei venditori che richiamano i clienti. Ogni tanto narratori o acrobati propongono le loro prodezze e i loro sogni a un pubblico affascinato che fa loro cerchio attorno. La città intera è percorsa da ombreggiate viuzze che corrono tra case di terra color ocra incastrate le une nelle altre, sormontate da terrazze, al centro un minareto bianco che a mo’ di vedetta scruta i quattro orizzonti…..

L’atmosfera è frugale. La miseria estrema tocca poco la gente di questa cultura dell’elemosina e dell’ospitalità, richiamate senza sosta come doveri fondamentali dai precetti dell’islam. Il tempo è scandito dalle stagioni e dalle costellazioni. La presenza tutelare e secolare del mausoleo del fondatore della città, che per tutta la vita ha predicato la non violenza, da tempo ha creato un clima di spiritualità propizio alla pace, alla concordia.

La tranquilla città non è tuttavia un paradiso terrestre. Qui come altrove gli uomini sono afflitti da preoccupazioni; il meglio e il peggio vi convivono… Una specie di gioia onnipresente ha la meglio sulla precarietà, coglie ogni pretesto per manifestarsi in feste improvvisate. Qui l’esistenza si tocca con mano. In un clima di pazienza continuamente ravvivata, il più piccolo sorso d’acqua, il più piccolo boccone di cibo danno alla vita un sapore vero. Dal momento che l’essenziale è assicurato, tutto li rende felici e grati, come se ogni giorno vissuto fosse già un privilegio, una tregua. La morte è loro familiare, ma non è una tragedia…

Se questo mondo sospeso tra sogno e poesia non era privo di sofferenza, era però un frutto a lungo maturato sull’albero del destino. Come in altri luoghi del pianeta, gli uomini hanno tentato di crearvi un’armonia, senza però riuscirci alla perfezione, non essendo la perfezione una loro prerogativa…

E poi, insidiosamente, lentamente, in questo mondo vecchio di secoli tutto inizia a precipitare. Il fabbro si intristisce. E’ pensieroso, assorto in strani pensieri. Non torna più a casa al crepuscolo come un libero cacciatore, a volte a mani vuote ma più spesso carico di un cesto colmo di cibarie per la sopravvivenza della sua famiglia per le quali deve ringraziare solo i propri meriti, il suo talento e il suo coraggio, favoriti dalla divina benevolenza. Il lavoro per il fabbro comincia a scarseggiare. Gli occupanti francesi hanno scoperto del carbon fossile e propongono a tutti gli uomini in forze un’occupazione retribuita. L’intera città è sottosopra. E’ finita l’epoca in cui si assaporava il tempo come se fosse eterno. Suona l’ora del tempo degli orologi, fino a quel momento sconosciuto, suona con i suoi minuti e i suoi secondi… Questo nuovo tempo ha come intento di abolire ogni <<perdita di tempo>> e, nel regno dei sonni tranquilli, l’indolenza viene presa per pigrizia. Ora bisogna essere seri, sgobbare molto. Ogni mattina, con una lampada ad acetilene in mano, bisogna sprofondare nelle viscere oscure della terra per riesumarne un materiale nero che cela un fuoco sopito da tempo immemore, come in attesa di un risveglio che gli permetterà di cambiare l’ordine del mondo. Ogni sera, gli uomini escono con il volto insozzato dallo strano termitaio in cui sono stati rinchiusi durante il giorno. Si fa fatica a riconoscerli, tanto inefficaci sono stati i lavaggi per togliere dal visto la scura maschera di carbon fossile e polvere che lo ricopre. Attorno agli occhi si ostinano occhiaie nere, emblema della nuova confraternita dei minatori. Sempre più polsi vengono ornati da orologi; per fare più in fretta, si moltiplicano le biciclette; il denaro si insinua in tutte le ramificazioni della comunità. Le tradizioni prendono un gusto di antiquato, di sorpassato. Ora bisogna mettersi al passo con la nuova cultura.

Il fabbro, come il mastro Cornille di Alphonse Daudet, che soffriva per l’onore beffeggiato del suo mulino a vento – <<respiro del buon Dio>> – soppiantato dai mulini a vapore – <<invenzione del diavolo >> -, resiste finché può a tali sconvolgimenti.

Ma alla fine deve arrendersi all’evidenza: i clienti si fanno rari e riuscire a sfamare la famiglia ha ormai del miracoloso. Non gli resta che diventare lui stesso una termite… Grazie alle sue naturali attitudini viene assegnato a guidare una piccola locomotiva che traina un lungo bruco di vagoni pieni di materiale magico, destinato soprattutto a essere trasportato in Francia. I grandi treni dalle potenti locomotive si porteranno via come un bottino il materiale nero. E’ così che il Progresso ha fatto irruzione in quest’ordine secolare.

Il figlio del fabbro è turbato nel vedere il padre tornare sudicio ogni sera, come tutti gli altri. L’idolo è come profanato. La bottega è diventata un guscio silenzioso dietro la porta oramai chiusa sui ricordi dal gusto desueto di un tempo antichissimo all’improvviso superato. L’incudine non canta più. La civilizzazione, con alcuni dei suoi attributi, la sua complessità e il suo immenso potere di seduzione, è arrivata senza che il bambino possa comprenderla e tanto meno spiegarsela…

L servitù del padre infligge al figlio una strana ferita. Tutta la popolazione sente che sta arrivando qualcosa di importante, qualcosa di insidioso e incomprensibile. L’era del lavoro come ragion d’essere e, come corollario, la smoderatezza evocata dal denaro e dalle nuove cose da acquistare. Come in un ultimo sussulto di libertà, appena percepito il primo salario alcuni minatori non tornavano alla miniera. Quando ricomparivano, dopo un mese o due, i datori di lavoro, scontenti, chiedevano loro perché non fossero tornati prima. I minatori allora rispondevano con candore che non avevano finito di spendere il denaro: perché dunque avrebbero dovuto faticare? Senza esserne coscienti, ponevano una domanda che è stata accuratamente evitata, ma che oggi qualcuno considera essenziale, e alla quale, in quest’epoca di grande scombussolamento in cui siamo obbligati a riconsiderare la condizione umana, bisognerà pur rispondere: lavoriamo per vivere o viviamo per lavorare?

Io avrei compreso solo molto più tardi che, negandone l’identità e la persona, la modernità arrogante e totalitaria aveva inflitto a quel fabbro, come a innumerevoli altri esseri umani del Nord e del Sud del mondo, una sorta di annullamento. Peggio ancora: con il pretesto di migliorarla, ha ridotto la condizione di ognuno a una moderna forma di schiavitù, non solo producendo capitale finanziario senza alcuna ricerca di equità, ma instaurando a livello mondiale, semplicemente prendendo il denaro come unità di misura della ricchezza, la peggior disuguaglianza che esista. Lo sfruttamento e l’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo, e della donna da parte dell’uomo, sono sempre stati una perversione, una fatalità che ha macchiato la storia con le brutture che conosciamo; ma se quella perversione era per così dire spontanea, la modernità, con le rivoluzioni intese a mettervi fine, l’ha perpetuata sotto l’insegna dei più alti proclami morali: democrazia, libertà, uguaglianza, fraternità, diritti dell’uomo, abolizione dei privilegi…

Come la giungla del capitalismo selvaggio condanna l’Africa alla povertà infinita

 

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Come la giungla del capitalismo selvaggio condanna l’Africa alla povertà infinita

Ho incontrato anni fa il presidente di un paese africano il cui sottosuolo era ricco di petrolio. Dei frutti di questa ricchezza in giro se ne vedevano pochi o niente. Gli chiesi quanto petrolio le compagnie straniere estraessero ogni anno. Per un po’ fece finta di ignorare la mia domanda, poi sbottò: « Non lo so e non lo voglio sapere. Uno dei miei predecessori tentò di capirlo e fu cacciato via da un colpo di stato. Quelli fanno come vogliono!».

“Quelli” sono le imprese straniere che operano nel continente al mondo più ricco di materie prime e condannato alla miseria perpetua proprio per questo. Comprano al prezzo che decidono loro, corrompono, distruggono l’ambiente e se qualcuno si ribella, lo eliminano senza pietà. 

È questa la vera causa della tragedia africana e della grande fuga della sua gente. Basterebbe un po’ di trasparenza e di regole chiare. Quella che è normale in ogni società civile che si rispetti. Ma i grandi potentati mondiali non sono disposti ad accettare che regole e diritti valgano su scala planetaria. L’Africa è territorio di saccheggio selvaggio.

È di questi giorni la minaccia del presidente di Vitol, uno dei più grandi gruppi mondiali nel commercio di petrolio. Sono pronti ad andar via dalla Svizzera se passa una legge che prevede, per le imprese residenti nel paese, l‘obbligo di dichiarare ogni pagamento superiore a centomila franchi a governi ed entità straniere.

La legge è figlia dell’indignazione popolare per tanti scandali, non ultimo quello relativo alla Glencore, altra importantissima impresa in campo energetico. Sarebbe venuto fuori il pagamento di una bustarella di 18 milioni di dollari ad un faccendiere legato al presidente della Repubblica Democratica del Congo. In cambio Glencore avrebbe pagato 140 milioni invece di 585 per le sue attività estrattive in quel paese. Un risparmio di quasi mezzo miliardo di dollari. Quante scuole, quanti ospedali, quante strade, quanta occupazione è stata così sottratta alla popolazione congolese?

La tragedia è che Vitol e altre imprese hanno la possibilità di minacciare. Altre nazioni “civili” sono pronte ad ospitarle senza porre domande imbarazzanti. Il nostro mondo è una giungla in cui i più forti hanno ogni potere e godono di ogni complicità. Eppure basterebbe davvero poco per cambiar registro.

Sarebbe sufficiente una decisione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che vincolasse tutti al rispetto di certe regole e Vitol non avrebbe scampo. Nessuno, ma davvero nessuno, finora ci ha messo mano. Si, perché la politica, la politica che conosciamo, ha abdicato ai suoi doveri più elementari nei confronti dei popoli del pianeta. Serve altri interessi. Quelli dei poteri forti.

In Svizzera si terrà a breve un referendum su queste questioni. Qualcuno, dalle nostre parti, è pronto a proporne uno simile?

fonte: http://www.dolcevitaonline.it/come-la-giungla-del-capitalismo-selvaggio-condanna-lafrica-alla-poverta-infinita/

Gli strangolatori dell’Africa

 

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Gli strangolatori dell’Africa

 

Il bilancio di molti stati africani non supera poche centinaia di milioni di dollari. Ciò non permette la benché minima politica sanitaria o scolasticaed assicura, invece, un debito estero crescente negli anni pur di tirare avanti. Il debito va ripagato ed ulteriori tagli colpiscono la già inesistente spesa sociale.
Le istituzioni finanziare internazionali sono ferree a tal proposito nei loro controlli.

In Guinea Bissau ho visto morire lentamente in un ospedale un povero diavolo per una banale ulcera perforata. Non lo avevano assistito perché volevano essere certi che realmente la sua famiglia non avesse soldi per pagare le cure. In sostanza si aspetta.

Politiche promosse da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale. Se la famiglia ha qualcosa, prima o poi la tira fuori pur di non perdere il proprio congiunto e concorrerà “giustamente” alle spese.

L’ultima inchiesta sui “Panama Papers”, cioè sulla mole di documenti finanziari riservati proveniente da un solo spezzone di paradiso fiscale, racconta di ben 1400 società offshore utilizzate per sfruttare le ricchezze africane e trasferirle in conti segreti.

L’Espresso di questa settimana documenta come in due soli paesi, Algeria e Nigeria, l’Eni e le sue consociate abbiano pagato tangenti per un miliardo e mezzo di dollari per assicurarsi petrolio, gas ed oleodotti. Un tesoro finito nei conti riservati di governanti africani corrotti ed in quelli di manager italiani e chissà quanti altri. Un miliardo e mezzo per due affari.

Provate ad immaginare quanto spaventosamente immensa sia la rapina in corso da decenni ad opera di multinazionali e loro lacchè locali sulla pelle di intere popolazioni, su quella di un intero continente. Nel silenzio di fatto delle istituzioni finanziarie internazionali.

Con un miliardo e mezzo di dollari si costruiscono tanti ospedali e tante scuole. Si cambia la qualità della vita per milioni di persone.
Sono divenuti invece lusso per corrotti e potere per farabutti.
Lì in Africa, qui da noi…

 

fonte: http://www.dolcevitaonline.it/gli-strangolatori-dellafrica/