Fairafric, il primo cioccolato bio e equo con filiera tutta africana

 

 

Fairafric

 

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Fairafric, il primo cioccolato bio e equo con filiera tutta africana

Nel settore del cacao, tra i peggiori per condizioni dei lavoratori, c’è una novità positiva che arriva dall’Africa, dove le conseguenze dello sfruttamento dei lavoratori da parte delle multinazionali sono più dure. Fairafric è la prima barretta di cioccolato bio coltivata, raccolta, lavorata e confezionata in Africa, ma non solo: ha iniziato a rendere i suoi coltivatori parte della proprietà grazie all’acquisizioni di quote societarie dell’azienda.

“Mantenere gli utili in Ghana”

A raccontare la genesi di Fairafric è il portale FoodNavigatore: “l’idea è nata nel 2013 quando Hendrik Reimers ha fatto ricerche in giro per l’Africa. Reimers si rese conto che le persone potevano guadagnare molto di più se le merci agricole che coltivavano venivano trasformate in prodotti finiti in Africa”. Da allora, il viaggio di Fairafric ha coinvolto diverse campagne di raccolta fondi che gli hanno permesso di iniziare a produrre cioccolato biologico di qualità in Ghana e spedirlo in tutto il mondo. La sua missione principale – mantenere l’utile in Ghana – è raggiunta in diversi modi, ha detto a FoodNavigator Julia Gause, responsabile delle vendite presso la sede centrale di Fairafric, a Monaco.

Il crowdfunding usato per le azioni degli agricoltori

In primo luogo, sceglie di rifornirsi di cioccolato biologico anziché di cacao equosolidale. “In Ghana, il pagamento per le fave di cacao biologiche è tre volte più alto del premio Fairtrade, motivo per cui effettivamente paghiamo il prezzo più alto che puoi pagare in Ghana”, ha affermato Gause. In secondo luogo, ha iniziato ad acquistare azioni per i suoi coltivatori di cacao, rendendoli “comproprietari”. All’inizio di quest’anno, Fairafric ha lanciato una campagna di investimento sulla piattaforma online Seedrs che consentiva alle persone di registrarsi e acquistare azioni della società. Parallelamente, ha utilizzato parte del denaro raccolto durante la sua più recente campagna Kickstarter (più del triplo del suo target di € 27.000) per costituire una fondazione proprietaria di azioni Fairafric per conto dei suoi agricoltori. “Abbiamo già riservato un sacco di quote per i nostri agricoltori durante questa campagna di Seedrs […] e ogni dividendo che queste azioni porteranno sarà consegnato agli agricoltori, in base ai volumi di fave di cacao che hanno contribuito alla produzione di cioccolato”.  “Queste persone – amici, sostenitori a lungo termine, tifosi e persone che credono nel nostro modello di business – sono ora investitori e azionisti – continua Gause – Siamo molto orgogliosi di questo modo di fare business e vogliamo che i nostri clienti e fornitori siano sulla stessa barca con noi, avendo un perfetto allineamento di interessi”.

I numeri

FairAfric ha inserzioni al dettaglio in negozi specializzati in Germania, Austria e Svizzera, nonché supermercati biologici in Germania. Viene anche venduto in una catena di supermercati al Cairo, la sua prima quotazione nel continente africano e in tutto il mondo attraverso il suo sito web. Nel 2018 Fairafric ha prodotto un totale di 250.000 barrette di cioccolata, ognuna del peso di 100 ge avvolto in un foglio di carta Natureflex, un imballaggio biodegradabile e compostabile.

Come acquistarla dall’Italia

Le barrette di cioccolato Fairafric possono essere acquistate direttamente dal sito dell’azienda. Vengono vendute a confezioni da 8 barrette da 100 grammi a un prezzo, inclusa la spedizione per l’Italia di 33 euro circa.

 

fonte: https://ilsalvagente.it/2018/12/18/fairafric-il-primo-cioccolato-bio-e-equo-con-filiera-tutta-africana-acquistabile-in-italia/45135/

Il Premio Nobel per la Pace 2018 NADIA MURAD: “Il mondo ha un solo confine, quello dell’umanità”…!

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Il Premio Nobel per la Pace 2018 NADIA MURAD: “Il mondo ha un solo confine, quello dell’umanità”…!

Nadia Murad “è un essere umano di grande carisma, senti quanto sia speciale ogni volta che sei nella stanza con lei. Trasmette una straordinaria forza e capacità di resilienza”. Così Alexandria Bombach descrive all’ANSA la 25enne yazida, che riceverà lunedì 10 dicembre il premio Nobel per la Pace 2018, della quale ha firmato un coinvolgente e potente ritratto in ‘Sulle sue spalle’, vincitore del premio per la migliore regia di un documentario al Sundance Film Festival di quest’anno. Il film non fiction è in sala come evento speciale dal 6 al 12 dicembre con I Wonder Stories, in collaborazione con Sky Arte, che manderà in onda anche 10 minuti in esclusiva del film proprio nei giorni della consegna del premio a Nadia. Nadia Murad viene premiata insieme al medico e attivista congolese Denis Mukwege per l’impegno volto a denunciare e porre fine all’uso della violenza sessuale come arma di guerra. Un obiettivo al quale la giovane yazida, sostenuta anche da Amal Clooney, ha dedicato la sua vita, dopo essere fuggita dall’Isis, che l’aveva catturata ventenne nell’estate 2014 durante un raid nel nord dell’Iraq che aveva come obiettivo sterminare la minoranza religiosa yazida, da secoli vittima di genocidi. I terroristi islamici hanno ucciso in quelle poche settimane oltre 5000 persone e catturato fatto e fatto prigionieri circa 7.000 donne e bambini per farli diventare schiave sessuali e bambini soldato. Nadia (che ha perso 18 membri della sua famiglia, tra cui la madre e sei fratelli), ripetutamente torturata e violentata è riuscita a scappare dopo tre mesi, trovando rifugio prima in un campo profughi poi in Germania. Da allora, pur sapendo di rischiare la vita (riceve costantemente minacce), ha deciso di raccontare la sua storia, per mobilitare la politica e l’opinione pubblica internazionale contro le violenze perpetrate dall’Isis e per la difesa del suo popolo e delle donne che hanno subito il suo stesso calvario. Prima che tutto succedesse “tra i miei sogni c’era aprire un salone di bellezza, perché volevo che le donne e le ragazze si vedessero speciali – spiega Nadia, occhi grandi, volto scolpito nel dolore, che a volte si apre a disarmanti sorrisi -. Questo mi è stato tolto in un modo per il quale non credo sia possibile tornare indietro”.

tratto da: https://raiawadunia.com/premio-nobel-a-nadia-murad-il-mondo-ha-un-solo-confine-quello-dellumanita/

 

La strage degli innocenti a cui partecipiamo con le nostre bombe – Yemen dall’inizio del conflitto 84.701 bambini sotto i 5 anni sono morti per fame o malattie… E sulla coscienza ce li abbiamo pure NOI…!

 

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La strage degli innocenti a cui partecipiamo con le nostre bombe – Yemen dall’inizio del conflitto 84.701 bambini sotto i 5 anni sono morti per fame o malattie… E sulla coscienza ce li abbiamo pure NOI…!

La strage degli innocenti cui partecipiamo con le nostre bombe

Quasi 85mila bambini sono morti di fame o malattia in Yemen dall’inizio del conflitto tuttora in corso nel paese arabo. Lo riferisce un rapporto pubblicato oggi dall’ong Save The Children, basato sui dati forniti dalle Nazioni Unite per stimare i tassi di mortalità in casi di grave malnutrizione e malattia tra i bambini al di sotto dei cinque anni di età. Sulla base di una «stima prudente», Save The Children denuncia la morte di 84.701 bambini per fame o malattie tra l’aprile 2015 e l’ottobre 2018. Il Fondo per l’Infanzia delle Nazioni Unite (Unicef) ha fatto sapere che dal 2015 oltre 2.400 bambini hanno perso la vita e oltre 3.600 sono rimasti feriti a causa degli scontri avvenuti in Yemen. La guerra ha provocato in tutto oltre 10mila vittime civili. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), a causa della guerra in corso l’80% dei minori residenti in Yemen ha bisogno di assistenza umanitaria, pari a oltre 11 milioni di bambini al di sotto dei cinque anni. L’Unicef sostiene che almeno 2,2 milioni di bambini soffrono di malnutrizione acuta in Yemen. Almeno 16,37 milioni di persone, su una popolazione di oltre 27 milioni, hanno bisogno di servizi sanitari di base, mentre la situazione è peggiorata dall’epidemia di colera in corso nel paese arabo, dove ogni 10 minuti muore un bambino per denutrizione.

Fonte: https://raiawadunia.com/la-strage-degli-innocenti-cui-partecipiamo-con-le-nostre-bombe/

Questi siamo stati NOI, questi siamo NOI e questi continueremo ad essere NOI – Nella foto: un padre congolese davanti agli arti mozzati della sua bambina di 5 anni. La colpa della piccola? Il padre non aveva raccolto abbastanza gomma per i padroni bianchi…!

 

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Questi siamo stati NOI, questi siamo NOI e questi continueremo ad essere NOI – Nella foto: un padre congolese davanti agli arti mozzati della sua bambina di 5 anni. La colpa della piccola? Il padre non aveva raccolto abbastanza gomma per i padroni bianchi…!

UN PADRE CONGOLESE DAVANTI AGLI ARTI MOZZATI DELLA SUA BAMBINA DI 5 ANNI

Questa immagine è forse la rappresentazione più brutale della crudeltà del colonialismo. La foto e la storia dietro di essa ci viene raccontata da una delle prime attiviste per i diritti umani, Lady Alice Seeley Harris. Il nome dell’uomo è Nsala, e viene fotografato mentre osserva una mano ed un piede mozzati alla sua bambina di 5 anni. Il motivo? Non aveva raggiunto la quota minima giornaliera di gomma da raccogliere secondo le leggi del Congo Free State. La bambina, Boali, verrà poi uccisa insieme alla moglie di Nsala, al quale verranno presentati i resti della sua famiglia. Pare, sempre secondo Lady Alice, che i belgi compirono in questo caso persino atti di cannibalismo

Tutto questo accadeva all’inizio del Novecento, non secoli fa. Con l’ascesa dei trasporti su ruota crebbe esponenzialmente la domanda di gomma, e Leopoldo II di Belgio pensò bene di trarre il massimo profitto dal suo bacino di risorse naturali ‘privato’, ovvero il Congo. A tal fine, lo sfruttamento brutale degli autoctoni rappresentò la norma dell’amministrazione belga, che arrivò ad uccidere e mutilare oltre 10 milioni di congolesi, una cifra mostruosa considerando la demografia dell’epoca. La pratica delle mutilazioni divenne così diffusa che le mani dei congolesi divennero un cimelio molto richiesto, quasi una sorta di valuta.

L’eredità del nefasto regime di Leopoldo II, al giorno d’oggi, è rappresentata da uno dei paesi più instabili e corrotti del Paese africano, protagonista di diverse guerre sanguinarie, durante e dopo la fine della guerra fredda .La morte degli avieri italiani, nel 1961, l’assassinio di Patrice Lumumba e la grande guerra del Congo, spesso ribattezzata in ‘Guerra mondiale d’Africa’ per il coinvolgimento di numerosi paesi dell’Africa Subsahariana, trovano un punto di partenza nella nascita e sviluppo del Congo Free State. E dagli arti mutilati dei suoi abitanti.

fonte: https://www.facebook.com/cannibaliere/photos/a.989651244486682/1923293294455801/?type=3&theater

Nasce il portale per lo shopping antiracket – Si chiama “Nuovo Commercio Online” ed è una sorta di Amazon anticamorra. Ecco il portale equo e solidale dei venditori antiracket e delle coop sociali che vendono prodotti provenienti dal lavoro nei beni confiscati.

 

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Nasce il portale per lo shopping antiracket – Si chiama “Nuovo Commercio Online” ed è una sorta di Amazon anticamorra. Ecco il portale equo e solidale dei venditori antiracket e delle coop sociali che vendono prodotti provenienti dal lavoro nei beni confiscati.

Nasce il portale per lo shopping antiracket

Si chiama “Nuovo Commercio Online” (NCO) e potete immaginarlo come una sorta di Amazon anticamorra. Il portale equo e solidale aggrega tutti i venditori schierati sul fronte antiracket e quelle cooperative sociali che vendono i prodotti provenienti dal lavoro nei beni confiscati.

Tra i promotori dell’e-commerce etico c’è Antonio Picascia che nel 2015 vide la sua azienda nel casertano andare in fumo: le fiamme furono appiccate dalla camorra dopo che l’imprenditore si era opposto al pizzo.

«Vogliamo aggregare tutti quegli imprenditori che si oppongono alla criminalità organizzata e quelli che lavorano nelle terre confiscate alle mafie – ha spiegato Picascia – Nel tempo puntiamo a vendere qualsiasi tipo di prodotto, compreso l’hi-tech. Il nostro obiettivo è raggiungere in un anno 100mila acquirenti e in dieci anni riuscire ad avere un fatturato di almeno cento milioni di euro».

L’obiettivo, infatti, è quello di valorizzare prodotti fatti da uomini e donne che vivono storie di riscatto, realizzati in luoghi di resistenza che non hanno voluto piegarsi alle logiche criminali, con l’intento di riorientare le logiche di mercato.

NCO nasce come evoluzione di “Un pacco per la camorra“, un’iniziativa di sensibilizzazione contro la criminalità giunta alla sua decima edizione che prevede di creare e vendere dei pacchi dono natalizi contenenti prodotti derivanti dall’economia sociale.

Felix Finkbeiner, il ragazzo che pianta alberi per salvare il pianeta – E guardate che c’è poco da sorridere: ad oggi, a soli 21 anni, mentre voi fate gli ecologisti col culo ben saldo sul divano, di alberi ne ha già piantati 15 miliardi…!

 

 

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Felix Finkbeiner, il ragazzo che pianta alberi per salvare il pianeta – E guardate che c’è poco da sorridere: ad oggi, a soli 21 anni, mentre voi fate gli ecologisti col culo ben saldo sul divano, di alberi ne ha già piantati 15 miliardi…!

Felix Finkbeiner aveva 9 anni quando decise che avrebbe realizzato il suo sogno: piantare un milione di alberi in ogni paese del mondo per cercare di salvare il pianeta. Oggi Felix ha 21 anni e di alberi ne ha piantati 15 miliardi, grazie al suo movimentoPlant-for-the-Planet, il cui motto “stop talking start planting”, la dice lunga sulla determinazione di un ragazzo che già da bambino comprese le problematiche inerenti al clima e decise di farsi portavoce di un nuovo modo di pensare e di guardare al mondo. Oggi la sua vocazione green non si è spenta, ma si è consolidata tanto da porsi un obiettivo veramente improbo: piantare 1000 miliardi di alberi in modo tale da assorbire un quarto della CO2 prodotta dall’uomo.
Sul pianeta, al momento, ci sono circa 3000 miliardi di alberi, ma questo numero è in forte calo, a causa della deforestazione mondiale. Deforestazione e cambiamenti climatici sono strettamente legati alla povertà sociale, a problemi economici e migratori; ma anche politiche economiche sbagliate sono responsabili della crisi climatica.

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La povertà rende vulnerabili anche ai cambiamenti climatici, e viceversa. Infatti i paesi poveri dipendono ancora dalla pioggia per l’irrigazione e di conseguenza per il loro sostentamento. La frequenza e l’intensità crescente degli shock climatici incide sulla loro capacità di vendere un surplus agricolo, il che significa minor capacità di reinvestire gli utili nelle attività di sussistenza e minore possibilità di rispettare una dieta nutriente. Il timore è che 100 milioni di persone possano essere spinte nel baratro della povertà estrema dal riscaldamento globale.

I cambiamenti climatici hanno un impatto negativo non solo sulla salute e sulla sicurezza ambientale, ma anche sulla società: la scarsità delle risorse è spesso fonte di conflitto fra le diverse comunità e di migrazione esterna ed interna. L’innalzamento del livello degli oceani è destinato a provocare enormi migrazioni dalle regioni di bassa quota, come il Bangladesh, o dalle aree molto esposte agli uragani, come il sud degli Stai Uniti. Tali spostamenti sono però resi difficili da una moltitudine di confini e sono destinati a provocare gravissimi tumulti politici e sociali. Nessuno vorrebbe lasciare le proprie case e famiglie e per questo devono aumentare progetti ed investimenti per lo sviluppo all’interno dei paesi in sofferenza, mentre a livello internazionale, si devono ridurre le emissioni.

Ma non serve andare troppo lontano per vedere con i propri occhi le conseguenze dei cambiamenti climatici. Dal Veneto alla Siciliasono tanti i comuni italiani colpiti da frane, esondazioni, trombe d’aria. Nonostante il cambiamento climatico sia un dato di fatto, l’Italia continua ad essere impreparata. Il rischio idrogeologico è evidente sul nostro territorio, ma si continua a costruire in aree soggette a vincoli idrogeologici, sismici e paesaggistici. La cementificazione eccessiva e il condono non fanno bene all’Italia che, ogni anno, è provata e prostrata da calamità di una frequenza e violenza inaudita. E questo senza tener conto dei costi della ricostruzione che invece sarebbero ridotti se si investisse maggiormente sulla prevenzione, su progetti di adattamento ai cambiamenti climatici, sulla manutenzione e riqualificazione del rischio, a partire dagli spazi pubblici e di allerta dei cittadini.

Si può mettere un freno alla crisi climatica?

Considerato che il clima sta cambiando sopratutto a causa dell’ingerenza dell’uomo, sì qualcosa si può fare per riequilibrare il pianeta. Innanzitutto far comprendere ai governi e ai potenti che salvare il pianeta significa anche salvare noi stessi da un’estinzione che a dirla tutta ci saremmo meritata già decenni, se non centinaia di anni fa. Il secondo passo è educare: educare al rispetto della Natura, alla bellezza, agli essere viventi. Infine, come ci ha insegnato Felix, piantare alberi, dovunque, ogni anno, così da ridare ossigeno a un malato che sta collassando non per cause naturali, ma esterne.

E se non dovesse essere chiaro….le cause esterne siamo noi.

Rosa Araneo per MIfacciodiCultura

tratto da: http://www.artspecialday.com/9art/2018/11/30/felix-finkbeiner-ragazzo-pianta-alberi-salvare-pianeta/?fbclid=IwAR3sXjoHDhYAvWHIRQ98mB9H6Zxz1PNm9sirB7k47ortWYj3ZOMlWlzhIsY

Per non dimenticare quanto la razza umana possa fare schifo – Non vi potete sbagliare, la CAROGNA non è il bellissimo e rarissimo esemplare di giraffa nera ammazzato…!

 

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Per non dimenticare quanto la razza umana possa fare schifo – Non vi potete sbagliare, la CAROGNA non è il bellissimo e rarissimo esemplare di giraffa nera ammazzato…!

Leggi anche:

Ricordate l’Agente Smith in Matrix? “L’essere umano è un virus, è un’infezione, una piaga, un cancro su questo pianeta” …Forse aveva ragione: Abbiamo cancellato dal Pianeta il 60% delle specie animali in soli quarant’anni…!

 

 

Lo scorso anno, aveva sparato e ucciso una giraffa in Sud Africa. Nei giorni successivi la cacciatrice, originaria del Kentucky, in memoria delle crudeli gesta ha pubblicato la foto sul proprio profilo Facebook. E il mondo dei social non è rimasto a guardare. Nel giro di qualche ora, le foto sono diventate virali e sono arrivati migliaia di commenti di insulti.

In posa con il cadavere dell’animale, Tess Thompson Talley, 37 anni, aveva inizialmente caricato le foto scattata dopo una una battuta di caccia avvenuta un anno fa, a giugno 2017. Il suo post è stato cancellato, ma le foto sono state ampiamente condivise online.

Il giornale Africlandpost ha condiviso le foto il 16 giugno, in un tweet diventato virale, in cui la donna è stata accusata di avere ucciso “una rarissima giraffa nera per gentile concessione della stupidità del Sud Africa”. Il tweet è stato condiviso oltre 45.000 volte.

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AfricaDigest@africlandpost

White american savage who is partly a neanderthal comes to Africa and shoot down a very rare black giraffe coutrsey of South Africa stupidity. Her name is Tess Thompson Talley. Please share

Eppure, non c’è indicazione che la battuta di caccia di Talley fosse illegale. La donna ha addirittura detto che uccidere la giraffa abbia contribuito agli sforzi di conservazione.

“La giraffa che ho cacciato era la sottospecie sudafricana della giraffa. Il numero di questa sottospecie è in realtà in aumento dovuto, in parte, ai cacciatori e agli sforzi di conservazione pagati in gran parte dalla caccia grossa” si è difesa.

È emerso che la giraffa uccisa non era del tutto rara ma ciò non toglie che ucciderla e vantarsene sia stato un gesto crudele.

Talley ha pubblicato ulteriori commenti sulla sua pagina Facebook, alcuni da rabbrividire, sostenendo che gli animali, in quanto tali, non hanno diritti.

Purtroppo finché la caccia non sarà resa illegale, i cacciatori potranno agire indisturbati e condividere le loro gesta sui social.

Le belle notizie che ci piace darvi: Chiude il macello di carne di cane più grande del mondo – Ogni anno vi venivano ammazzati 2 milioni di animali!

 

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Le belle notizie che ci piace darvi: Chiude il macello di carne di cane più grande del mondo – Ogni anno vi venivano ammazzati 2 milioni di animali!

Chiude il complesso di Taepyeong-dong, nella città di Seongnam, la struttura che ospitava sei macelli di cani. La tradizione di consumare carne canina è ormai in discesa: il 70% dei sudcoreani non li mangia più e il 40% è convinto che la pratica dovrebbe essere vietata.

Smantellata in due giorni, l’area sarà trasformata in un grande parco. Da lager per cani quindi a luogo pubblico. Taepyeong-dong che si trova a sud di Seoul ospitava sei macelli e diverse centinaia di cani che venivano macellati per poi essere serviti nei ristoranti di tutto il Paese.

Nel 2016 aveva chiuso il mercato di Moran in cui veniva venduto circa un terzo della carne di cane consumata nella Corea del Sud, adesso questo smantellamento viene considerato come un momento storico e una vittoria per le associazioni animaliste che da anni si battono per evitare che i cani finiscano nel piatto.

Ma in generale le cose stanno cambiando. Secondo un sondaggio, il 70% dei sudcoreani non mangia più cani e circa il 40% ritiene che la pratica dovrebbe essere vietata. Il 65%, invece, ritiene necessario allevare e macellare gli animali in condizioni migliori, ma sull’argomento non ci sono leggi.

La sua chiusura è un evento storico e speriamo possa incentivare la dimissione di altri macelli illegali in tutto il Paese. Abbiamo fatto sforzi costanti per chiudere questo macello, grazie alle indagini e alle pressioni sulla provincia di Gyeonggi e su Seongnam”, scrive in una nota Humane Society International.

Sempre secondo l’organizzazione nell’ex macello, gli animali vivevano in condizioni precarie. I cani venivano uccisi con scariche elettriche dopo aver passato la loro breve vita in gabbie ristrette e tra le carcasse di altri simili.

Ricordiamo comunque che attualmente la legge coreana non vieta la vendita di carne di cane, ma solo la macellazione in pubblico, ma già lo smantellamento dell’ex mattatoio ci sembra un grande passo in avanti.

Corea del Sud: il destino di cani e gatti

La Corea del Sud è l’unico stato dove di fatto esiste un sistema di allevamento intensivo di cani da macello. Qui gli animali sono obbligati a subire privazioni e torture inimmaginabili dalla nascita fino al giorno della macellazione, i cani trascorrono la loro vita imprigionati in gabbie rialzate, sporche e strette, esposte alle intemperie. Non fanno movimento e non ricevono acqua, compagnia né cure mediche, e non sono mai a contatto con il terreno. Spesso a questi poveri animali vengono perforati i timpani in modo da renderli meno rumorosi.
CANI e GATTI vengono mangiati dopo essere stati sadicamente TORTURATI in vari modi affinché le loro carni, per azione dell’adrenalina in circolo a causa del dolore e della paura, diventino più “saporite”. La credenza vuole che PIÙ GRANDE È LA SOFFERENZA INFLITTA ALL’ANIMALE, PIÙ TENERA E GUSTOSA SARÀ LA CARNE e le sue proprietà salutari “mitiche” ne risulteranno incrementate, rendendo gli uomini più virili.
Gli animali per lo più vengono colpiti alla testa con un bastone, picchiati a morte, impiccati, altrimenti sgozzati e fatti dissanguare, o tramite elettrocuzione. In molte occasioni gli animali NON muoiono subito, perdono coscienza per alcuni secondi risvegliandosi poco dopo perfettamente VIGILI. Succede spesso che gli animali vengano BOLLITI, BRUCIATI e SCUOIATI (alcuni usano apposite centrifughe) quando sono ancora VIVI e COSCIENTI.
Con i cani vengono realizzati soprattutto hamburger e zuppe, mentre i gatti diventano perfino parte di bevande “toniche”, realizzate spesso lanciando i gatti VIVI nell’acqua bollente.
A volte gli allevamenti si trovano vicino alle scuole, dove i bambini devono sopportare le grida dei cani che vengono macellati.
La Corea del Sud è tristemente famosa per una festa rituale e tradizionale nota come “Bok Nal”, ovvero i “giorni del cane”, che ha luogo nei giorni più caldi dell’estate tra luglio e agosto. In questo periodo si calcola che UN MILIONE di CANI vengano UCCISI per essere MANGIATI, in nome di una tradizione secondo la quale la carne di cane “rinfresca e rinvigorisce” e attraverso la quale l’uomo potrebbe assorbire la gioia di vivere e la festosità che caratterizzano queste meravigliose creature. I CANI non sono gli unici animali a soffrire pene inimmaginabili, infatti anche i GATTI subiscono le stesse torture.
Ma il massacro di questi innocenti non si limita ai Bok Nal, bensì dura tutto l’anno estendendo la tortura e la macellazione ad un numero spaventoso di animali. Nonostante la Korea Food & Drug Administration riconosca come cibo qualsiasi prodotto commestibile, ad eccezione delle droghe, nella capitale Seoul l’amministrazione locale ha approvato un regolamento che classifica la carne di cane come ‘cibo ripugnante’. Purtroppo, a quanto ci risulta, questo provvedimento non viene quasi mai applicato.
In Sud Corea la carne di cane viene consumata da persone di ogni età, genere, religione, classe sociale e livello culturale, in parte a causa della loro educazione, forse senza conoscere le sofferenze che causano. Il vescovo cattolico Sung-Hyo Lee ha affermato infatti: “Il mio cibo preferito è la carne di cane. Il mio hobby è costringere i preti stranieri a mangiarla, soprattutto quelli francesi”. – Kyeongin Ilbo, 16.05.2011.
Se la classe dirigente afferma sui mezzi di comunicazione che mangiare carne di cane è bello, e i governi non fanno nulla al riguardo, le persone sono meno inclini a chiedersi cosa ci sia di male nel commerciare questa carne.
Chi smarrisce il proprio cane ha sempre il timore che gli sia stato rubato per finire nelle pentole di qualche ristorante. In Corea del Sud i cani possono essere allevati per svariati motivi, ma ogni razza di cane può finire in tavola. Una volta che la carne è cotta, i consumatori non possono sapere da quale tipo di cane proviene. Potrebbe essere stato anche l’animale da compagnia di qualcuno.
Succede spesso che le persone vogliano sbarazzarsi di esemplari domestici “cresciuti troppo” ma molti canili non possono accoglierli tutti e così la questione del randagismo trova un diverso e più crudele esito nei mercati. Qualche canile li rivende come animali da macello per ridurre i costi nella somministrazione di cibo o farmaci, o perché non vuole spendere per praticare l’eutanasia. Nel 2010, un canile nella città di Gumi è stato colto in flagrante mentre macellava e mangiava gli animali che aveva “salvato”. Si contano oltre 400 canili in tutto il paese, la maggior parte dei quali manca delle più elementari norme igieniche e dei necessari controlli, ragione per la quale è facile che diventino oggetto di un commercio crudele e illegale.
Per sfamare i cani degli allevamenti, la Corea del Sud utilizza un terzo dei rifiuti di cibo, una pratica questa assolutamente illegale nei paesi avanzati del mondo. Immaginate di mangiare animali nutriti con scarti di cibo infestati da mosche, larve, topi e germi infettivi. Le condizioni igieniche nelle quali vengono tenuti gli animali dovrebbero destare serie preoccupazioni, considerando il modo in cui si propagano virus e patologie canine, filaria, colera, trichinellosi, che possono direttamente compromettere la salute umana.
È letteralmente impossibile distinguere fra i vari allevamenti, e la destinazione d’uso degli animali ivi rinchiusi: un cane incustodito può sempre diventare carne da mangiare per qualcuno. I cani in Sud Corea sono gli unici animali ad essere allevati sia come compagni nelle case della gente sia per la loro carne. La logica che i cosiddetti MEAT DOG (carne di cane ovvero cane da mangiare) siano diversi dai PET DOG (cane domestico ovvero cane da amare) è solo una strategia utilizzata da chi è mosso da meschini interessi per promuovere il consumo di carne, e mangiare così la specie animale più amata in Corea.
Nella Corea del Sud oltre 2 MILIONI di cani vengono uccisi ogni anno per la loro carne. Sono 30 MILIONI i cani che vengono macellati e mangiati ogni anno in Asia, in merito ai gatti non si ha una stima precisa.
Fonti:
https://www.greenme.it/abitare/cani-gatti-e-co/29583-carne-di-cane-macello-chiuso
https://www.facebook.com/notes/giustizia-animalista/corea-del-sud-il-destino-di-cani-e-gatti/1610678295888764/

Importantissimo – Ecco cosmetici e prodotti NON testati sugli animali: tutti i nomi delle aziende CRUELTY FREE…

 

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Importantissimo – Ecco cosmetici e prodotti NON testati sugli animali: tutti i nomi delle aziende CRUELTY FREE…

Cosmetici e prodotti non testati sugli animali: tutti i nomi delle aziende cruelty free

Cosmetici e prodotti non testati su animali. Quali sono e dove si possono trovare? Fortunatamente con la legge 11 marzo 2013 in Europa è entrato in vigore il divieto di test su animali per gli ingredienti dei cosmetici: shampoo, bagnoschiuma, make up, crema da barba, sapone, creme di ogni tipo. Ecco la lista aggiornata delle ditte che rispettano i nostri amici animali.

Vent’anni di battaglie che hanno portato a un grande risultato: salvaguardare gli animali che venivano trattati in laboratorio e su di essi venivano testati i prodotti che normalmente poi arrivano nelle nostre case.

Prima della legge, un nuovo ingrediente poteva venir sottoposto ad alcuni test su animali se eseguiti in laboratori al di fuori dell’UE. Come spiega VIVO – Comitato per un Consumo Consapevole / NOVivisezione erano test molto invasivi per gli animali, sempre letali.

Parliamo di tossicità ripetuta (agli animali vengono somministrate basse dosi di sostanza da testare per periodi di tempo lunghi, anche per tutta la vita dell’animale); tossicità riproduttiva (la capacità della sostanza di creare difetti nella prole, quando somministrata a un animale in gravidanza); tossicocinetica(come la sostanza raggiunge le cellule e gli organi e causi eventuali danni biologici).

Grazie al nuovo divieto, ora in Europa non possono essere venduti prodotti che contengono ingredienti, sviluppati appositamente per il campo della cosmesi, che siano stati testati su animali, in qualunque parte del mondo, dopo l’11 marzo 2013. Naturalmente non diventano fuorilegge gli ingredienti testati prima di questa data.

Di seguito la lista delle aziende che rispettano lo Standard Internazionale cruelty-free ovvero si impegnano a:

  • Non testare su animali il prodotto finito, né commissionare questi test a terzi
  • Non testare i singoli ingredienti, né commissionare i test a terzi
  • Dichiarare che i test svolti dai suoi fornitori sulle materie prime usate sono avvenuti prima di un dato anno a sua scelta (per esempio, 1995)

Il che significa non usare più alcun ingrediente (chimico, di sintesi) nuovo, ma solo ingredienti completamente vegetali o ingredienti di sintesi già in commercio prima dell’anno scelto. Così facendo, non si incrementa di fatto la sperimentazione su animali.

MARCHI E PRODOTTI NON TESTATI SUGLI ANIMALI
Igiene e cura della persona
  • Agronauti Cosmetics, Alchimia Natura, Alkemilla, Allegro Natura, Altromercato, Argital, Artha,
  • Bakel, Biofficina Toscana, Biomethodique, BioOut, Bjobj, Body Shop, Bottega Verde, Camorak,
  • Delibel, Derbe, Diva International, Dr. Taffi, Ecor, Fantastika, Floralia, Flora-Primavera,
  • Gala, Helan, Insium, I Provenzali,
  • La Saponaria, Lefay, Lenerbe, Lepo Line, L’Erbolario, Liquidflora advanced organic make-up, Lush, MGA,
  • Montagne Jeunesse, Naturaequa, Naturerb, Natyr Altromercato, Officina Naturae, Omia,
  • Pasticceria da bagno, Pedrini, Puravida, Qualikos,
  • Rebis, Regenè, Remedia, San.Eco.Vit, Saponificio Gianasso, Seres, Speziali Fiorentini,
  • Tea Natura, Vaneda, Verdesativa, W.S. Badger, Zoè Cosmetics.
Assorbenti
  • Nuvenia,
  • Natracare
  • Organyc
Pulizia della casa e bucato
  • Aequa equo-solidale, Argital, Avaverde,
  • Bioermi, Brillor, Casa Verde Bio,
  • Ecoblu, Ecoland, Ecor, Ecosì, Ekos, Folia,
  • Happyclean, Higen,
  • Naturerb, Officina Naturae,
  • Pierpaoli, San.Eco.Vit., Solara,
  • Talybe, Tea Natura,
  • Verdevero, Winni’s.
Igiene degli animali
  • Aniwell, Argital, BjoBao (Bjobj),
  • Dodo (Officina Naturae)
  • Mifido, Pet Benefit, Pet in Pharma (Diva international)

 

fonte: https://www.greenme.it/consumare/sai-cosa-compri/29510-cosmetici-non-testati-lista-aggiornata

 

 

Rosa Parks, dopo quel Primo Dicembre di 63 anni fa il mondo non è stato più lo stesso…

 

Primo Dicembre

 

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Rosa Parks, dopo quel Primo Dicembre di 63 anni fa il mondo non è stato più lo stesso…

Il mondo di Rosa Parks, prima e dopo il giorno del bus
Chi era la sarta arrestata nel 1955 a Montgomery per essersi seduta dove non doveva? Non fu l’unica donna attivista per i diritti dei neri. Molta influenza la ebbero le parrucchiere! La professoressa Nadia Venturini ci racconta i retroscena delle storiche svolte negli Usa

Quando si domanda chi era Rosa Parks, la risposta più comune, la più sbrigativa ed essenziale è: “Quella sarta di colore che si era rifiutata di alzarsi nell’autobus riservato ai bianchi ed era stata messa in prigione”.

Tutto vero, ma intorno alla figura della donna che nel 1955, con un gesto semplicissimo, diede il via alla reazione di massa dei neri a Montgomery con il conseguente boicottaggio (per un anno) dei mezzi di trasporto, sono nate e si sono sviluppate molte altre realtà sociali e politiche.

Rosa Parks fu la scintilla e poi la bandiera della protesta afroamericana negli stati del Sud, un personaggio chiave che da oltre mezzo secolo ispira la letteratura mondiale.

In Italia, uno dei massimi esperti in materia è NADIA VENTURINI, professore associato di Storia del Nord America presso l’Università di Torino. Autrice di testi quali «Neri e Italiani ad Harlem» e «Con gli occhi fissi alla meta», la docente ha appena pubblicato «La strada per Selma – La mobilitazione afroamericana e il Voting Rights Act del 1965».

Le abbiamo chiesto un contributo autografo. Ecco il suo ricco approfondimento.

IL SUD 50 ANNI FA  

E’ difficile crederlo, guardando Obama e Michelle, ammirando gente dello spettacolo come Oprah Winfrey e Denzel Washington. Eppure la segregazione esisteva davvero negli undici stati che avevano fatto parte della Confederazione durante la Guerra Civile. 

 

 

Era un sistema rigido che teneva i neri separati dai bianchi nei luoghi pubblici e sui mezzi di trasporto. Relegava i neri in scuole di livello inferiore, li escludeva da molte occupazioni e prevedeva salari più bassi. Ma soprattutto ogni stato elaborava stratagemmi legali per impedire ai neri di registrarsi per votare, come ha descritto molto bene la regista Ava DuVernay nel film Selma. 

I NERI SAPEVANO DOVE NASCONDERSI PER ORGANIZZARE LE LORO AZIONI 

La segregazione conteneva un paradosso: la legislazione del sud obbligava a mantenere ad uso esclusivo dei neri una serie di spazi pubblici molto eterogenei (chiese, bar, associazioni ricreative, barbieri e beauty shop) e quindi permetteva agli afroamericani di avere luoghi in cui potersi nascondere e organizzare all’insaputa dei bianchi, senza dover ricorrere a stratagemmi. Un fenomeno che riguardava in modo particolare le donne, spesso escluse dai livelli dirigenti delle organizzazioni per i diritti civili. Perfino nel memorabile giorno della Marcia su Washington, nessuna donna parlò sul palco. Per questo motivo, la vicenda di Rosa Parks ci consente di scoprire un risvolto ancora poco conosciuto di quella che fu la lotta per i diritti civili degli afroamericani. 

CHI ERA ROSA PARKS PRIMA DI DIVENTARE FAMOSA  

Non era né anziana, né stanca: però si era stancata di subire. Aveva 42 anni, faceva la sarta, era attiva nel volontariato della sua chiesa e da vent’anni attivista della NAACP di cui, a Montgomery, era segretaria del responsabile locale E.D. Nixon.

Rosa McCauley Parks aveva accumulato esperienze come attivista per i diritti civili, fin da quando negli Anni 30 aveva partecipato col marito Raymond Parks alla campagna per la liberazione dei 9 ragazzi di Scottsboro, ingiustamente accusati di stupro. Dopo la fine del boicottaggio di Montgomery era diventata un’icona nazionale, ma sia lei che il marito avevano perso il lavoro. Dovettero trasferirsi a Detroit e ripartire da zero. Rosa veniva invitata a convegni e manifestazioni, ma non le offrirono mai un impiego adeguato alla sua esperienza di attivista. Continuò come volontaria ad impegnarsi sul tema della giustizia criminale e del trattamento dei neri nel sistema giudiziario.

L’ARRESTO: NON ERA SEDUTA NEL SETTORE DEI BIANCHI  

Quando venne arrestata a Montgomery nel 1955, non si era seduta nella parte bianca del bus, ma in quella intermedia di separazione delle razze, che veniva occupata solo quando il bus era molto affollato. L’autista le ordinò comunque di alzarsi per cedere il posto a un uomo bianco, Rosa rifiutò, venne imprigionata e liberata la sera stessa grazie alla cauzione pagata dall’avvocato bianco antirazzista Clifford Durr. E.D. Nixon progettò la causa giudiziaria che avrebbe portato la Corte Suprema, un anno dopo, a decretare l’incostituzionalità della segregazione sui mezzi di trasporto. Intorno alla vicenda di Rosa si creò una mobilitazione della comunità nera: 40mila persone fra chiese, associazioni, donne di ogni estrazione sociale.

L’INTERVENTO DI MARTIN LUTHER KING IN DIFESA DELLA PARKS  

Il 5 dicembre, giorno del processo, in un’affollata assemblea tenuta in chiesa, alla Parks non venne data la parola ma fu Martin Luther King a sottolineare la sua reputazione di buona cittadina. Una rispettabilità inattaccabile, quella più compatibile con la definizione della femminilità nel dopoguerra, in cui la maggior parte degli afroamericani tentavano di aderire ai valori della società dominante per ritagliarsi uno spazio personale e professionale anche nel mondo segregato del sud. Parks divenne così una sorta di bandiera della causa per la desegregazione dei mezzi pubblici di Montgomery e poi un’icona del movimento.

NON SOLTANTO ROSA: LE ALTRE DONNE DELLA RIBELLIONE  

Nel 1955 Rosa Parks era un’attivista molto consapevole, cosciente che la scandalosa situazione dei bus di Montgomery non era dovuta solo alla segregazione , ma ai deliberati maltrattamenti degli autisti bianchi verso la prevalente utenza nera . Rosa e Nixon avevano partecipato ad una Leadership Training Conference della NAACP, organizzata da Ella Baker , che aveva contribuito a rafforzare i progetti di azioni legali contro la segregazione. Inoltre durante l’estate la Parks aveva partecipato ad un seminario presso Highlander Folk School (link) dove aveva conosciuto Septima Clark e Bernice Robinson: un incontro fra donne formidabili.

 

JO ANN ROBINSON: FU LEI A IDEARE IL BOICOTTAGGIO DEI BUS 

Il boicottaggio degli autobus di Montgomery iniziò il 5 dicembre 1955 e si concluse il 21 dicembre 1956: fu una delle più straordinarie dimostrazioni di resistenza non violenta che si ricordino. Migliaia di afroamericani rinunciarono al trasporto pubblico per un anno intero.

I NERI PAGAVANO IL BIGLIETTO E POI VENIVANO LASCIATI A TERRA  

Ma quel boicottaggio non fu progettato da Rosa Parks o da Martin Luther King o dai leader afroamericani. Fu ideato da Jo Ann Robinson, presidente del Women’s Political Council, un’associazione femminile afroamericana. Occorre spiegare che tre quarti dei passeggeri degli autobus erano neri e subivano vari abusi. Il regolamento prevedeva che dopo aver pagato la propria tariffa, gli utenti neri scendessero per risalire dalla porta posteriore, ma talvolta venivano lasciati a terra, e le donne spesso subivano maltrattamenti. Molte lamentele arrivavano al WPC della Robinson la quale già nel 1954 aveva avvisato il sindaco che 25 organizzazioni locali erano pronte ad avviare un boicottaggio degli autobus.

QUELLA NOTTE PASSATA A STAMPARE VOLANTINI DI PROPAGANDA 

Quando seppe dell’arresto di Rosa Parks, Robinson agì con prontezza e segretezza. Nella notte fra il 1° e il 2 dicembre 1955, stilò un breve comunicato anonimo, nel quale riferiva che «un’altra donna negra è stata arrestata e gettata in carcere perché ha rifiutato di alzarsi e cedere il posto ad una persona bianca sull’autobus». Invitava quindi i cittadini neri a non prendere gli autobus il 5 dicembre, giorno del processo. Il volantino era anonimo, conciso e privo di retorica. Fu stampato nella notte in diecimila copie. La Robinson, con l’aiuto di studenti e colleghi, utilizzò di nascosto il centro stampa del college e all’alba venne organizzata la distribuzione presso scuole, negozi, birrerie, saloni di bellezza e barbieri. Alle due del pomeriggio ogni volantino era stato passato più volte di mano: «Praticamente ogni uomo, donna o ragazzo nero a Montgomery conosceva il progetto e faceva passaparola. Nessuno sapeva da dove fossero venuti i volantini o chi li avesse fatti circolare, e a nessuno importava. Nel profondo del cuore di ogni persona nera vi era una gioia che non osava rivelare», raccontava tempo dopo la Robinson.

LE DOMESTICHE DI COLORE OSTENTAVANO CALMA A CASA DEI BIANCHI  

Insomma, era stato un gruppo di donne che, con furtiva abilità, aveva innescato la protesta. Il che testimonia ancora una volta come negli Anni 50 per i neri dissenzienti del sud la dissimulazione della protesta fosse considerata vitale.Le domestiche, ad esempio, che lavoravano fino a tardi presso le famiglie dei bianchi, quel giorno lessero di corsa e di nascosto il volantino per poi distruggerlo subito dopo e continuare a lavorare di buon umore, per non fare trapelare nulla. 

BERNICE ROBINSON E L’ATTIVISMO DELLE PARRUCCHIERE  

I volantini del boicottaggio di Montgomery venivano lasciati soprattutto nei saloni di bellezza. Già, perché molte parrucchiere ed estetiste erano attiviste dei diritti civili, ormai da decenni. Parecchie di loro erano aderenti alla NAACP e diffondevano fra le loro clienti i materiali per potersi registrare e votare.

Le beauticians nere erano professioniste indipendenti, mediamente più colte di altre donne che svolgevano lavori umili. Talvolta disponevano di un negozio attrezzato, talvolta esercitavano nelle proprie case, ma erano tutte piccole imprenditrici libere dal controllo bianco, che potevano affermare una leadership riconosciuta nelle loro comunità. L’importanza di questa professione traeva origine da uno dei tratti distintivi delle donne nere, disprezzato dal razzismo bianco e invece esaltato dalla cultura del Black Power: i capelli ricci, difficili da trattare, che richiedevano l’uso di prodotti specifici e l’abilità di professioniste specializzate. Fino agli Anni 60 prevaleva lo stile conformista che imitava le acconciature delle donne bianche: poi emerse la scelta ribelle di portare i capelli afro, come Angela Davis.

Le «beauticians» nere controllavano uno spazio fisico, il beauty shop, che era nel contempo pubblico e privato: forniva uno spazio intimo riservato alle donne, in cui le estetiste potevano parlare liberamente con altre donne per incoraggiarle all’attivismo o alla registrazione elettorale . La specificità professionale e l’indipendenza economica le portavano a sostenere diverse forme di attivismo politico. Highlander aveva organizzato alcuni seminari di formazione dedicati proprio a queste professioniste all’inizio degli Anni 50: essendo in contatto con tutti i settori della popolazione afroamericana, con donne di classi e formazione diverse, le beauticians erano in grado di raccogliere inf ormazioni di ogni tipo e diffonderle fra le loro clienti.

SEPTIMA POINSETTE CLARK, INSEGNANTE E RIVOLUZIONARIA  

Bernice Robinson venne coinvolta in questi contesti nel 1955 dalla cugina Septima Poinsette Clark (link). Insegnante elementare a Charleston, nel 1956 venne licenziata perchè non aveva voluto dimettersi dalla NAACP. Bernice aveva vissuto a lungo a New York, dove aveva appreso il mestiere di estetista e di sarta: quando dovette tornare a vivere a Charleston, trovò difficile abituarsi nuovamente alle restrizioni della segregazione. Divenne attiva nella NAACP locale, e costruì a lato della sua casa un laboratorio da estetista. Mentre faceva una messa in piega, incitava le clienti a registrarsi per votare.

Septima Clark condusse la Robinson al centro culturale Highlander, dove incontrarono Rosa Parks. Ognuna di loro nell’estate del 1955 prese decisioni che avrebbero sconvolto le loro vite. Bernice si fece convincere da Septima ad organizzare una scuola di cittadinanza nelle zone rurali più povere della South Carolina. Gli afroamericani erano in gran parte analfabeti, per cui non potevano registrarsi. La scuola di cittadinanza doveva dare un’alfabetizzazione primaria e un’educazione civica per conseguire questo obiettivo. 

Il modello di scuola popolare che aveva creato ebbe successo, molti afroamericani riuscirono a registrarsi, e vennero aperte scuole analoghe in tutto il sud. Dopo tre anni, Bernice lasciò il suo beauty shop, perché ottenne il ruolo di coordinatrice della formazione in tutto il sud. Viaggiava continuamente ed era in contatto con tutti i leader afroamericani. Nel 1965 andò con Septima a Selma per alcuni mesi, per insegnare ai neri locali a scrivere la propria firma.

Il Voting Rights Act del 1965 coronò gli sforzi di migliaia di donne afroamericane che avevano lottato per superare gli ostacoli posti dagli stati del sud al diritto di voto. Avevano creato oltre 900 scuole popolari, permettendo la registrazione di centinaia di migliaia di afroamericani. Erano donne determinate e coraggiose, venivano spesso dalle classi popolari, e alcune di loro avevano cominciato pettinando e truccando altre donne.

Fonte: La Stampa