Primo dicembre: quando, 64 anni fa, Rosa Parks con il suo “NO” sfidò il razzismo

 

Rosa Parks

 

 

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Primo dicembre: quando, 64 anni fa, Rosa Parks con il suo “NO” sfidò il razzismo

La donna di colore (una negra) si rifiutò di cedere a un bianco il suo posto sul bus. Fu arrestata ma da allora nulla fu più come prima…

E’ stata un’eroina dei diritti civili. Tanta strada è stata fatta, ma tanta ancora ne resta da fare: con il suo  rifiuto di cedere il posto su un autobus a un bianco, Rosa Parks ha mutato la storia dei diritti civili.

L’episodio risale al primo dicembre del 1955 a Montgomery, in Alabama, uno stato particolarmente razzista.

Rosa Parks, figlia di James e Leona McCauley e moglie di Raymond Parks, attivo nel movimento dei diritti civili, stava tornando a casa dopo il lavoro di sarta in un grande magazzino. Faceva molto freddo e la donna, non trovando posti liberi nel settore riservato agli afroamericani, decise di sedersi al primo posto dietro alla fila per i bianchi, nel settore dei posti “comuni”.

Dopo di lei salì un uomo bianco, che restò in piedi. Dopo qualche fermata l’autista chiese a Rosa di lasciare libero quel posto. Lei non si scompose e rifiutò di alzarsi con dignitosa fermezza.

Per quel “no” fu arrestata e portata in carcere per condotta impropria e per non aver rispettato il divieto che obbligava i neri a cedere il proprio posto ai bianchi nei settori cosiddetti comuni. Un atto coraggioso e determinato in seguito al quale si avviò una protesta storica. Quella stessa notte, infatti, Martin Luther King, insieme ad altre decine di leader delle comunità afroamericane, pose in atto una serie di azioni di protesta. Tra queste, il boicottaggio dei mezzi pubblici di Montgomery, che andò avanti per 381 giorni, affinché fosse cancellata una norma odiosa e discriminatoria che comprometteva persino la normale possibilità quotidiana di sedersi, come gli altri, su un autobus. Una protesta che assunse proporzioni sempre più ampie e che ottenne il sostegno dei tassisti afroamericani che avevano adeguato le loro tariffe a quella degli autobus.

Il 13 novembre 1956, la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò fuorilegge la segregazione razziale sui mezzi di trasporto pubblici poiché giudicata incostituzionale.

Da allora Rosa Parks è considerata The Mother of the Civil Rights movement, la donna che, come disse Bill Clinton consegnandole un’onoreficenza nel 1999, “mettendosi a sedere, si alzò per difendere i diritti di tutti e la dignità dell’America”.

Rosa Parks morì a Detroit il 24 ottobre 2005. Ma il suo ricordo è immortale.

Oggi 25 novembre è la Giornata Mondiale contro la Violenza sulle Donne… Permettetemi di dedicare “Lo Stupro”, l’agghiacciante, forte, commovente monologo di Franca Rame a tutte quelle merde che mi fanno vergognare di essere nato uomo…!

 

Franca Rame

 

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Oggi 25 novembre è la Giornata Mondiale contro la Violenza sulle Donne… Permettetemi di dedicare “Lo Stupro”, l’agghiacciante, forte, commovente monologo di Franca Rame a tutte quelle merde che mi fanno vergognare di essere nato uomo…!

Permettetemi di dedicare questo monologo di Franca Rame a tutte quelle merde che mi fanno vergognare di essere nato uomo… (by Eles)

(dopo il testo, che va assolutamente letto, trovate il video)

LO STUPRO

Il brano che ora reciterò è stato ricavato da una testimonianza apparsa sul “Quotidiano Donna”, testimonianza che vi riporto testualmente.

C’è una radio che suona… ma solo dopo un po’ la sento. Solo dopo un po’ mi rendo conto che c’è qualcuno che canta. Sì, è una radio. Musica leggera: cielo stelle cuore amore… amore…

Ho un ginocchio, uno solo, piantato nella schiena… come se chi mi sta dietro tenesse l’altro appoggiato per terra… con le mani tiene le mie, forte, girandomele all’incontrario. La sinistra in particolare.

Non so perché, mi ritrovo a pensare che forse è mancino. Non sto capendo niente di quello che mi sta capitando.

Ho lo sgomento addosso di chi sta per perdere il cervello, la voce… la parola. Prendo coscienza delle cose, con incredibile lentezza… Dio che confusione! Come sono salita su questo camioncino? Ho alzato le gambe io, una dopo l’altra dietro la loro spinta o mi hanno caricata loro, sollevandomi di peso?

Non lo so.

È il cuore, che mi sbatte così forte contro le costole, ad impedirmi di ragionare… è il male alla mano sinistra, che sta diventando davvero insopportabile. Perché me la storcono tanto? Io non tento nessun movimento. Sono come congelata.

Ora, quello che mi sta dietro non tiene più il suo ginocchio contro la mia schiena… s’è seduto comodo… e mi tiene tra le sue gambe… fortemente… dal di dietro… come si faceva anni fa, quando si toglievano le tonsille ai bambini.

L’immagine che mi viene in mente è quella. Perché mi stringono tanto? Io non mi muovo, non urlo, sono senza voce. Non capisco cosa mi stia capitando. La radio canta, neanche tanto forte. Perché la musica? Perché l’abbassano? Forse è perché non grido.

Oltre a quello che mi tiene, ce ne sono altri tre. Li guardo: non c’è molta luce… né gran spazio… forse è per questo che mi tengono semidistesa. Li sento calmi. Sicurissimi. Che fanno? Si stanno accendendo una sigaretta.

Fumano? Adesso? Perché mi tengono così e fumano?

Sta per succedere qualche cosa, lo sento… Respiro a fondo… due, tre volte. Non, non mi snebbio… Ho solo paura…

Ora uno mi si avvicina, un altro si accuccia alla mia destra, l’altro a sinistra. Vedo il rosso delle sigarette. Stanno aspirando profondamente.

Sono vicinissimi.

Sì, sta per succedere qualche cosa… lo sento.

Quello che mi tiene da dietro, tende tutti i muscoli… li sento intorno al mio corpo. Non ha aumentato la stretta, ha solo teso i muscoli, come ad essere pronto a tenermi più ferma. Il primo che si era mosso, mi si mette tra le gambe… in ginocchio… divaricandomele. È un movimento preciso, che pare concordato con quello che mi tiene da dietro, perché subito i suoi piedi si mettono sopra ai miei a bloccarmi.

Io ho su i pantaloni. Perché mi aprono le gambe con su i pantaloni? Mi sento peggio che se fossi nuda!

Da questa sensazione mi distrae un qualche cosa che subito non individuo… un calore, prima tenue e poi più forte, fino a diventare insopportabile, sul seno sinistro.

Una punta di bruciore. Le sigarette… sopra al golf fino ad arrivare alla pelle.

Mi scopro a pensare cosa dovrebbe fare una persona in queste condizioni. Io non riesco a fare niente, né a parlare né a piangere… Mi sento come proiettata fuori, affacciata a una finestra, costretta a guardare qualche cosa di orribile.

Quello accucciato alla mia destra accende le sigarette, fa due tiri e poi le passa a quello che mi sta tra le gambe. Si consumano presto.

Il puzzo della lana bruciata deve disturbare i quattro: con una lametta mi tagliano il golf, davanti, per il lungo… mi tagliano anche il reggiseno… mi tagliano anche la pelle in superficie. Nella perizia medica misureranno ventun centimetri. Quello che mi sta tra le gambe, in ginocchio, mi prende i seni a piene mani, le sento gelide sopra le bruciature…

Ora… mi aprono la cerniera dei pantaloni e tutti si dànno da fare per spogliarmi: una scarpa sola, una gamba sola.

Quello che mi tiene da dietro si sta eccitando, sento che si struscia contro la mia schiena.

Ora quello che mi sta tra le gambe mi entra dentro. Mi viene da vomitare.

Devo stare calma, calma.

“Muoviti, puttana. Fammi godere”. Io mi concentro sulle parole delle canzoni; il cuore mi si sta spaccando, non voglio uscire dalla confusione che ho. Non voglio capire. Non capisco nessuna parola… non conosco nessuna lingua. Altra sigaretta.

“Muoviti puttana fammi godere”.

Sono di pietra.

Ora è il turno del secondo… i suoi colpi sono ancora più decisi. Sento un gran male.

“Muoviti puttana fammi godere”.

La lametta che è servita per tagliarmi il golf mi passa più volte sulla faccia. Non sento se mi taglia o no.

“Muoviti, puttana. Fammi godere”.

Il sangue mi cola dalle guance alle orecchie.

È il turno del terzo. È orribile sentirti godere dentro, delle bestie schifose.

“Sto morendo, – riesco a dire, – sono ammalata di cuore”.

Ci credono, non ci credono, si litigano.

“Facciamola scendere. No… sì…” Vola un ceffone tra di loro. Mi schiacciano una sigaretta sul collo, qui, tanto da spegnerla. Ecco, lì, credo di essere finalmente svenuta.

Poi sento che mi muovono. Quello che mi teneva da dietro mi riveste con movimenti precisi. Mi riveste lui, io servo a poco. Si lamenta come un bambino perché è l’unico che non abbia fatto l’amore… pardon… l’unico, che non si sia aperto i pantaloni, ma sento la sua fretta, la sua paura. Non sa come metterla col golf tagliato, mi infila i due lembi nei pantaloni. Il camioncino si ferma per il tempo di farmi scendere… e se ne va.

Tengo con la mano destra la giacca chiusa sui seni scoperti. È quasi scuro. Dove sono? Al parco. Mi sento male… nel senso che mi sento svenire… non solo per il dolore fisico in tutto il corpo, ma per lo schifo… per l’umiliazione… per le mille sputate che ho ricevuto nel cervello… per lo sperma che mi sento uscire. Appoggio la testa a un albero… mi fanno male anche i capelli… me li tiravano per tenermi ferma la testa. Mi passo la mano sulla faccia… è sporca di sangue. Alzo il collo della giacca.

Cammino… cammino non so per quanto tempo. Senza accorgermi, mi trovo davanti alla Questura.

Appoggiata al muro del palazzo di fronte, la sto a guardare per un bel pezzo. Penso a quello che dovrei affrontare se entrassi ora… Sento le loro domande. Vedo le loro facce… i loro mezzi sorrisi… Penso e ci ripenso… Poi mi decido…

Torno a casa… torno a casa… Li denuncerò domani.

(continua dopo il video)

Era il 9 marzo 1973 quando Franca Rame fu stuprata. La fecero salire a forza su un camioncino cinque esponenti dell’estrema destra, pedine di un gioco malato architettato da alcuni ufficiali dei Carabinieri per punire “la compagna di Dario Fo”, attrice teatrale, drammaturga, politica, attivista. Una donna scomoda, che parlava quando doveva stare zitta, che non sapeva tacere su quello che non andava e non funzionava. Che aveva prestato la sua voce prima all’Organizzazione Soccorso Militare e poi, negli anni Settanta, al movimento femminista. Una donna che doveva imparare a stare al suo posto.

Le spaccarono gli occhiali, le tagliarono viso e corpo con una lametta, – una maschera di sangue -, le bruciarono la pelle con le sigarette e la violentarono a turno. Per quello stupro non c’è mai stata nessuna condanna, ma solo la prescrizione, a 25 anni dal fatto, nonostante nel 1987 due fascisti, Angelo Izzo e Biagio Pitaresi, rivelarono al giudice Salvini che a compiere lo stupro fu una squadraccia neofascista e soprattutto che l’ordine di “punire” Franca Rame con lo stupro venne dall’Arma dei Carabinieri. Nonostante la testimonianza di Nicolò Bozzo, che sarebbe diventato stretto collaboratore di Carlo Alberto Dalla Chiesa e che al tempo dei fatti era in servizio presso la divisione Pastrengo.

 

by Eles

 

Maltrattamento di animali: che cosa fare e come denunciare crudeltà nei confronti degli animali…

 

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Maltrattamento di animali: che cosa fare e come denunciare crudeltà nei confronti degli animali…

Se hai un cuore buono e un’anima tendente a sentimenti come compassione ed empatia, sai che nel nostro mondo non c’è assolutamente posto per la crudeltà nei confronti degli animali. Eppure, succede proprio dietro l’angolo: in ogni città, stato e nazione. Ci sono padroni che trascurano, maltrattano e addirittura abbandonano i propri animali; animali che vengono scuoiati vivi per farne pellicce; cani che vengono uccisi perché non sono abbastanza veloci nel correre; animali d’allevamento che subiscono amputazioni e tagli a parti del corpo, ecc.

Fermare i maltrattamenti nei confronti degli animali è un tema mondiale e se ti stai domandando cosa puoi fare per aiutare a trovare una soluzione, ti offriamo una breve guida con varie possibilità a tua disposizione. Credici, puoi aiutare in maniera significativa anche senza donare migliaia di euro in beneficenza o indossare la maschera di un supereroe per combattere i cattivi in prima persona. Esistono molti altri modi, molto più semplici.

Come fermare i maltrattamenti di animali

Prima di tutto, è importante sapere che anche tu potresti sottoporre ad abusi il tuo animale. Spesso i padroni non si rendono conto che la crudeltà nei confronti degli animali si presenta in forme diverse e una di queste è l’incuria e il maltrattamento. Sei sicuro di dedicare al tuo amato compagno animale cure adeguate e buone condizioni di vita? Diversi rapporti indicano che circa la metà dei proprietari di animali domestici in America sono autodidatti. Oggi si possono trovare molti servizi, compresi corsi e centri di formazione, dove è possibile migliorare le proprie conoscenze e diventare bravi “genitori” per il proprio animale. Inoltre, potresti anche voler dare un’occhiata alle leggi sulla protezione degli animali.

Segnali di abuso

A volte riconoscere la crudeltà nei confronti degli animali può essere difficile, altre è chiaramente evidente agli occhi di tutti. Si possono notare segnali di violenza diretta, come i seguenti:

  • ferite aperte e non curate;
  • svariate cicatrici;
  • difficoltà a camminare (ad esempio, lo zoppicare);
  • segnali psicologici (nascondersi dalla gente, camminare con la testa bassa o la coda tra le gambe, ecc.).

I segnali di trascuratezza verso un animale sono più sottili e, sfortunatamente, molto diffusi:

  • malattie non curate;
  • misere condizioni di vita (limitazione nei movimenti, oggetti pericolosi nelle vicinanze, ecc.);
  • segni di inedia e/o disidratazione (estrema magrezza e ossa visibili);
  • infestazioni parassitarie (zecche, pulci e altri parassiti);
  • mancanza di igiene.

Naturalmente, si può anche essere testimoni di crudeltà nei confronti di animali che si verificano proprio sotto i nostri occhi: qualcuno potrebbe fare fisicamente del male ad un animale (calci, percosse, ecc.). È importante intervenire immediatamente ed avvertire le autorità il più in fretta possibile. Ricorda: il maltrattamento di animali è quasi sempre segno di altri, anche maggiori, schemi di violenza che possono essere indirizzati anche contro il prossimo. Non sorprende che arrecare consapevolmente danni agli animali per piacere sia considerato uno dei tre principali prerequisiti del comportamento psicopatico.

Come denunciare abusi sugli animali

Se sei testimone di un sospetto episodio di abuso su animali, puoi chiamare le forze dell’ordine e segnalarlo. Esistono anche numeri di organizzazioni locali specializzate in ogni città. Il consiglio principale è molto semplice: fornisci informazioni accurate, poiché ciò è fondamentale per il loro pronto intervento. Potrebbe essere utile seguire i consigli qui sotto:

  1. Se credi che l’animale sia in pericolo imminente e sei a conoscenza del punto esatto in cui si trova, chiama il dipartimento di polizia della zona.
  2. Scrivi una dichiarazione concisa e concreta di ciò che hai visto, con date e orari, se possibile. Inoltre, specifica il problema principale (disidratazione, inedia, mancanza di cure mediche, ecc.) e non dimenticare di indicare le tue informazioni di contatto.
  3. Puoi presentare una segnalazione anonima. Prendi in considerazione, però, la possibilità di fornire i tuoi dati, perchè è più probabile che il caso riceva attenzione se c’è almeno un testimone attendibile disposto a testimoniare in tribunale.
  4. Puoi anche ottenere dichiarazioni scritte da altri testimoni.
  5. Se possibile, scatta foto del luogo e dell’animale che ha bisogno di aiuto. Ricorda: non metterti MAI in pericolo.
  6. Non consegnare mai documenti e foto senza averne prima fatte delle copie.
  7. Se trovi abusi su animali online, hai diverse possibilità. Prima di tutto, controlla l’origine del sito usando www.whois.net. Poi, puoi contattare le autorità locali, dove per “locali” si intende la zona di origine del sito, non la tua zona. Puoi anche contattare rifugi per animali, la Protezione Animali, o anche media locali e nazionali, perché a volte possono avere più potere delle autorità.
Come curare un cane che ha subito abusi

Se hai trovato un cane abbandonato e hai deciso di portarlo a casa, devi tenere in considerazione le seguenti informazioni. Dato che i cani randagi, soprattutto quelli che hanno subito abusi, non si fidano degli sconosciuti, è importante apprendere alcuni consigli per mantenersi al sicuro e per non fare del male all’animale:

  1. Prepara una zona sicura in casa, appositamente per il cane. Deve essere una zona tranquilla.
  2. Non alzare mai la voce. Un tono basso trasmette fiducia e sicurezza.
  3. Non colpire mai il cane ed evita di fare mosse improvvise.
  4. Non forzare il cane a fare qualcosa che non vuole. Lascia che l’animale si ritiri nel suo spazio, se si sente spaventato.
  5. È importante organizzare una precisa routine quotidiana. Il cane deve avvertire stabilità e uno dei modi migliori per fornirgliela è stabilire degli orari per dargli da mangiare e uscire per le passeggiate.
  6. Durante le lunghe passeggiate, i cani producono endorfine, gli ormoni della felicità. Ma ricorda: un cane pauroso può scappare via, quindi un guinzaglio lungo, in questo caso, è la scelta migliore.
  7. Curare le ferite può richiedere molto tempo. Quindi, abbi pazienza! Tuttavia, se hai la sensazione che ci siano stati pochissimi progressi o addirittura nessuno, puoi sempre consultare uno specialista. Un etologo canino sa come aiutare i cani abbandonati e maltrattati e molto probabilmente potrà aiutare il tuo amico.

Si può trattare di un lungo viaggio, ma ne vale assolutamente la pena. Il legame che si crea tra un essere umano e il suo fedele amico è semplicemente inestimabile. Tuttavia, se non sei sicuro di volerti assumere una tale responsabilità, puoi sempre segnalare qualsiasi animale randagio o episodio di maltrattamento di animali. Ricorda: in un determinato momento potresti essere l’unica persona in grado di salvare l’animale. Dopotutto, se noi uomini siamo davvero superiori, dobbiamo prenderci cura di coloro che dipendono da noi.

 

fonte: https://fabiosa.it/lbwkr-ctani-rseln-aueln-trecc-pbjst-maltrattamento-di-animali-che-cosa-fare-e-come-denunciare-crudelta-nei-confronti-degli-animali/

La lezione di Josè Pepe Mujica: “La vita è un miracolo, non sprecatela nel consumismo. Per essere felici trovate il tempo di vivere”

 

 

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La lezione di Josè Pepe Mujica: “La vita è un miracolo, non sprecatela nel consumismo. Per essere felici trovate il tempo di vivere”

“È fondamentale difendersi dagli attacchi del mercato. E per far ciò serve la sobrietà nel vivere, che consiste nel trovare il tempo di vivere. Questo è l’unico reale esercizio della nostra libertà”. Sono le parole di Josè Pepe Mujica, ex presidente dell’Urugay e personaggio di rilievo internazionale per la particolarità della sua presidenza, cinque anni che hanno segnato una svolta nel paese uruguayano.

Ma il suo è stato anche un esempio per il mondo. E lo ha dimostrato anche oggi, ospite al Teatro Palladium di Roma per presentare il libro “La felicità al potere” e per incontrare gli studenti. Ha parlato di capitalismo, di cultura e dell’importanza della libertà, diretta espressione della felicità, tema a lui molto caro. “Tutti gli esseri umani sono liberi – ha proseguito Mujica – ma è fondamentale che utilizzino il proprio libero arbitrio. Ad esempio, quando lavoro, perché ne ho necessità, non sono libero. Però, quando faccio qualcosa che mi piace, allora sì che sono libero”.

Per Mujica è tutta una questione di come ci si pone nei confronti del mondo: o soggiogare alle regole del mercato, del sistema e del materialismo, divenendone schiavi, oppure cercare di distaccarsi da tutto questo: “Se non posso cambiare il mondo posso cambiare la mia condotta personale e la posso cambiare adoperandomi nella ricerca della felicità”.

Una lotta individuale, quindi. Una lotta che deve avere un solo risultato, un solo scopo: la felicità. Un valore, questo, che purtroppo non è proprio del sistema vigente – se non apparentemente – nella nostra società, come sottolinea la “pecora nera al potere”, in cui domina una cultura egemonizzata dall’economia capitalista: “E’ logico che un sistema generi una cultura a suo favore, sarebbe innaturale il contrario. E questa cultura di cui parlo è molto presente nella nostra società. E che cosa ci porta? Ci porta solitudine e infelicità. Il nostro mondo moderno è caratterizzato da questi due fattori: un dato che lo dimostra è la quantità di suicidi che registriamo, un numero maggiore delle vittime di guerra sommate a quelle degli omicidi”.

Un fenomeno molto complesso quello messo in luce da Mujica. Secondo lui, questi suicidi sono l’emblema della contraddizione insita nel capitalismo: “Se da un lato, infatti, ci permette di aver un maggior grado di benessere e di vivere più a lungo, allo stesso tempo ci porta anche molti elementi negativi, come dimostrano i dati sui suicidi nel mondo”.

Non sono sfuggite a Mujica anche un paio di battute sulle prossime elezioni americane: “Non mi preoccupa tanto se vincerà Trump, perché lui passerà, così come tutti i presidenti. In Europa c’è stato Hitler, e anche lui è passato, alla fine. Quello che mi preoccupa veramente è la gente che lo voterà: loro sì che rimarranno. Loro rappresentano una classe media che, vivendo nell’incertezza, attribuisce le colpe ora ai cinesi, ora ai messicani. In realtà sta esprimendo una patologia”. Una patologia che deriva dalla concentrazione di ricchezza e benefici nelle mani di poca gente. “Un fenomeno che, negli Usa come in Europa – ha sottolineato – sta creando delle aspettative nella grande moltitudine delle classe media: sono quelli che votano Trump o che in Francia sostengono i nazionalisti. Una contraddizione che appartiene alle destre di tutto il mondo, proprio perché l’economia è globalizzata”.

“Certo – ha affermato Mujica, ritornando sulle presidenziali Usa – anche Clinton è abbastanza conservatrice”. “Il paradosso di oggi, del mondo moderno – ha proseguito – è che i candidati sono commercializzati come fossero dei prodotti, e questo lo dobbiamo alla tecnologia”. “La rivoluzione informatica che ha investito il nostro mondo – ha avvertito – avrà ripercussioni istituzionali pesanti nella forma di democrazia che avremo in futuro, così come la sta avendo sulla cultura, le università e il sistema scolastico”.

Poi un ultimo messaggio rivolto ai giovani e a chi si prepara a vivere le dinamiche del mondo e della nostra società: “La vita è un miracolo, essere vivi è un miracolo. E non possiamo vivere oppressi dal mercato che ci obbliga a comprare, ancora e ancora. Anche perché non paghiamo con i soldi, ma con il tempo della nostra vita”.

 

Gli Italiani non si possono più permettere di pagare le cure mediche? Ecco la bellissima iniziativa di alcuni medici in pensione, quasi tutti ex-primari, anche di fama internazionale: un centro dove si cura gratis a chi ne ha bisogno…

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Gli Italiani non si possono più permettere di pagare le cure mediche? Ecco la bellissima iniziativa di alcuni medici in pensione, quasi tutti ex-primari, anche di fama internazionale: un centro dove si cura gratis a chi ne ha bisogno…

Borgomanero: 23 specialisti in pensione visitano poveri e immigrati nel centro Auser

Borgomanero è un tranquillo paese in provincia di Novara, a due passi dal Lago Maggiore. Oggi gode di una rinnovata fama grazie a uno degli esperimenti sociali più interessanti degli ultimi anni. Merito di una associazione di volontariato, l’Auser, che in città è presieduta da Maria Bonomi, e da un gruppo di medici, quasi tutti in pensione, che hanno deciso di mettere a disposizione la loro professionalità per una nobile causa.

Ventitré medici specialisti in pensione, quasi tutti ex-primari e alcuni con fama internazionale, hanno scelto di proseguire nell’esercizio della loro professione mettendosi totalmente a disposizione di chi è economicamente in difficoltà e non può permettersi di pagare il ticket né tantomeno una consulenza medica privata.

È la storia del poliambulatorio di Borgomanero, in provincia di Novara, dove i volontari dell’Auser hanno offerto gratuitamente i locali e un pool di medici in gamba nelle rispettive competenze, affiancati da infermieri.

Sono 23 gli specialisti volontari che lavorano nell’ambulatorio Auser: dalla chirurgia all’urologia, dalla ginecologia alla pediatria, oltre a una decina di odontoiatri. Tra loro l’ortopedico Piero Frediani, il radiologo Carmelo Cavallaro, il dermatologo Giorgio Leigheb. I pazienti visitati vanno dai 1300 ai 1500 all’anno. Oltre alle visite specialistiche vengono effettuati esami ematici di laboratorio, elettrocardiogrammi, esami Holter, ecografie ed ecodoppler, tutto in maniera assolutamente gratuita. Gli assistiti sono essenzialmente rifugiati, senzatetto, anziani e persone bisognose in senso lato. All’ambulatorio vengono indirizzati dal medico di famiglia, molti sono anziani assistiti dall’Auser. Tra i pazienti anche persone che possono pagare la visita: ricevono assistenza medica in cambio di un contributo. L’effetto è multiplo: si aiutano le persone in difficoltà, si alleggeriscono le liste d’attesa del servizio sanitario pubblico e si conferisce una funzione sociale importante ai camici bianchi in pensione.

Le specializzazioni sono 17: c’è il chirurgo e il pediatra, il dermatologo e l’ortopedico, l’odontoiatra e il ginecologo. Ultimamente persino tre avvocati, un consulente amministrativo e una psicologa. E soprattutto c’è sempre un sorriso per tutti. E grazie alle donazioni di alcuni pazienti è stato possibile acquistare anche indispensabili apparecchiature diagnostiche.

«L’idea è nata otto anni fa in piena crisi economica – spiega Sergio Cavallaro, urologo e direttore sanitario dell’ambulatorio Auser – con alcuni medici in pensione abbiamo deciso di creare questo ambulatorio per sostenere le persone più indigenti, quelle che non ce la facevano a pagare il ticket, non solo quelle che avevano difficoltà economiche. Poi dato che la nostra è una zona dove ci sono molti rifugiati richiedenti asilo ho unito le cose e ci siamo dedicati a queste persone. All’inizio ho chiamato alcuni miei amici, poi altri sono venuti spontaneamente richiamati dal nostro obiettivo».

«All’inizio abbiamo dovuto faticare parecchio – racconta Cavallaro – abbiamo dovuto vincere molte resistenze da parte dei medici di famiglia, degli specialisti. Come si può immaginare non è stato facile. Però adesso siamo integrati sul territorio molto bene, collaboriamo con l’Asl e con i medici di famiglia, la cittadinanza ci sostiene. Una signora oltre a dare un contributo ci ha regalato un elettrocardiografo».

 

 

La corrida vista con gli occhi del toro – Le atrocità sulla corrida che tutti devono conoscere per capire l’idiozia delle bestie umane che si godono lo spettacolo…!

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La corrida vista con gli occhi del toro – Le atrocità sulla corrida che tutti devono conoscere per capire l’idiozia delle bestie umane che si godono lo spettacolo…!

Le atrocità sulla corrida che tutti devono conoscere e cosa è costretto a sopportare il toro, passo per passo.

La “corrida de toros” (corsa di tori) è uno spettacolo che consiste in un combattimento tra uomo e toro, diffuso principalmente in Spagna, ma anche in Portogallo, Sud della Francia e in alcuni paesi dell’America Latina (con denominazioni differenti).

Le gare in Spagna si svolgono fin dal 1800, ma venivano praticate anche precedentemente, a partire dal XIV secolo, da nobili che, a cavallo, combattevano contro tori per questioni legate al prestigio e all’onore.

Alla corrida partecipano: 6 toreri e 3 tori (provenienti da allevamenti specializzati) che si alternano; due picadores a cavallo, tre banderilleros e gli incaricati a ritirare il corpo del toro una volta che viene ucciso.

Prima della gara i partecipanti sfilano davanti al pubblico e ricevono dal presidente, e unico giudice, le chiavi della porta dalla quale usciranno i tori. La “toreada” è divisa in 3 parti, chiamate “tercios“.

Prima della gara

Il toro viene sottoposto a crudeltà per indebolire le sue forze: tenuto al buio, senza cibo e senza acqua, viene colpito ai reni con sacchi di sabbia, gli viene cosparsa trementina sulle zampe per impedirgli di star fermo, gli viene annebbiata la vista applicando vaselina sui suoi occhi, gli viene infilata stoppia nelle narici e nella gola per impedirgli la respirazione e gli vengono conficcati aghi appuntiti nel corpo. Prima ancora di entrare nell’arena è quindi drogato, sofferente ed impaurito.

Quando entra nell’arena
  • Prima parte: Tercio de Varas

Il toro esce dalla porta con un arpioncino conficcato nel garrese (il punto alto del dorso, tra collo e scapole) e compie un giro dell’arena alla ricerca di una via d’uscita.

Spesso tenta di tornare indietro, ma la porta è chiusa e inizia, così, a prenderla a cornate. Si sente, inoltre, frastornato dai rumori della banda e del pubblico.

Il torero entra in scena e comincia a caricarlo con il “capote“, il drappo di tela rosa acceso da un lato e giallo dall’altro. I picadores a cavallo domano il toro colpendolo con una lancia dalla punta in acciaio, modellata a piramide a tre lati e provvista di un arresto metallico alla base, che serve ad impedire che penetri anche il manico nella carne del toro. La legge prevede che il toro venga colpito nel muscolo del collo almeno due volte, ma spesso i colpi arrivano ad essere 5 o 6 perché alcuni tori, atterriti, continuano a caricare cavallo e picadores. Così, il cavaliere colpisce il toro con il manico della lancia, in modo da stordirlo, ma non così tanto da non poter continuare la gara.

L’intento di questa prima parte è capire la forza del toro e affaticarlo.

  • Seconda parte: Tercio de Banderillas

I 3 banderilleros (o il torero) caricano il toro con il corpo e infilano tre paia di banderillas con una grossa punta in acciaio nel suo dorso.

L’arpioncino è lungo circa 6 cm e largo 4 ed è creato cosicché, quando il toro si muove, questa spinga nella carne ed infastidisca continuamente.

Il toro inizia a dissanguare, a dare segni di cedimento e le sue cariche diventano sempre più brevi e sofferte.

  • Terza parte: Tercio de Muleta

Il torero comincia ora il suo spettacolo, osannato da tutti come una star. Sostituisce il “capote” con la “muleta“, un drappo rosso di flanella che stringe con una mano, mentre nell’altra maneggia una spada.

Il toro è molto stanco e debilitato dai colpi ricevuti, che gli hanno danneggiato i muscoli del collo. Si trova impossibilitato ad alzare il capo e tiene, quindi, la testa bassa. Il picador lo sottomette e lo mantiene in una condizione di inferiorità, così da agevolare il torero nel passo successivo: conficcare al toro la spada tra le scapole, raggiungendo il suo cuore.

Il toro comincia a vomitare sangue, soffoca e crolla.

La legge prevede che il torero uccida il toro entro il decimo minuto di questa fase, se questo non accade (perché il torero non ha colpito abbastanza in profondità o non ha reciso un organo vitale) viene emesso un avviso dagli spalti.

Se entro il tredicesimo minuto il toro è ancora vivo, viene dato un secondo avvertimento e il torero usa una piccola spada per dare il colpo di grazia al toro agonizzante.

Qualora, nuovamente, entro il quindicesimo minuto il toro non muore, verrà ucciso con un pugnale da uno dei peones e il torero verrà fischiato: avrà fallito.

Se, invece, avrà combattuto con destrezza e capacità, verrà acclamato dalla folla come se fosse un vero eroe.

Dopo la gara

Se il torero avrà fatto un buon lavoro, gli verranno offerte come ricompensa una o due orecchie, oppure la coda del toro.

Il toro viene portato via, agonizzante e paralizzato, ma cosciente; oppure viene accoltellato alla base del cranio, per spezzargli la colonna vertebrale e assicurarne la morte.

Nel caso in cui avrà lottato con onore verrà trascinato fuori dall’arena, tra gli applausi del pubblico, prima di essere macellato.

Se il toro avrà combattuto in maniera unica e straordinaria, si può decidere durante la gara di provare a salvargli la vita (indulto) una volta concluso lo spettacolo, così da farlo riprodurre in modo che tramandi le sue qualità.

Dopo l’eventuale indulto il toro riceve, quindi, cure mediche. I giorni più critici sono i primi 3, ma solitamente, data la gravità delle ferite, il toro non riesce a sopravvivere oltre i primi giorni.

“Ci vuole un formidabile potenziale sadico per pagare l’ingresso in un’arena in cui lo spettacolo consiste nel torturare un animale, farlo soffrire, ferirlo crudelmente, raffinare i gesti barbari, codificarli (come un inquisitore o un torturatore che sa bene fino a che punto bisogna arrivare per mantenere in vita il più a lungo possibile chi, in ogni caso, sarà messo a morte) e godere in modo isterico quando il toro è sfinito perché non vede più nessuna via d’uscita.”

L’apoteosi della vergognosa crudeltà umana – In questi giorni “El toro Jubilo” – “toro di fuoco” – Legano alle corna del toro materiale infiammabile. L’animale che impazzisce dal terrore e dal dolore corre disperato per il paese. Spesso si suicida incornando un muro. E le bestie umane si godono lo spettacolo…!

 

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L’apoteosi della vergognosa crudeltà umana – In questi giorni “El toro Jubilo” – “toro di fuoco”  – Legano alle corna del toro materiale infiammabile. L’animale che impazzisce dal terrore e dal dolore corre disperato per il paese. Spesso si suicida incornando un muro. E le bestie umane si godono lo spettacolo…!

In Spagna a Medinaceli ogni anno, il secondo sabato del mese di novembre, si esprime tutto il sadismo e la crudeltà del genere umano.

L’inferno del toro “jubilo” l’ennesimo torturato da una violenza gratuita e crudele viene seviziato fino alla morte.

Il toro viene condotto a forza all’interno del recinto, viene immobilizzato intorno ad un palo, e gli vengono legate intorno alle corna delle palle di materiale infiammabile. Le goccia di pece finiscono negli occhi accecandolo e bruciandogli il muso.

Quando inizia a bruciare la parte interna delle corna il dolore diventa lancinante, spesso i tori cercano di porre fine al dolore insopportabile lanciandosi contro i muri terrorizzati, per suicidarsi.

L’indicibile sofferenza dell’animale, termina al mattatoio, perché ovviamente, dopo essere stato ridicolizzato, brutalizzato, deriso e umiliato, alla fine viene anche macellato. Giustificare una simile violenza in virtù di arcaiche tradizioni è vergognoso.

Tra poco le sue urla squarceranno il cielo, coperte solo dalle risate e dalle grida isteriche di gente immonda.

Il delirio della tortura dei tori in Spagna è una tradizione. Lui, sarà solo l’ennesima vittima di una cultura specista e senza cuore.

UNA VERGOGNA…!

 

Una casa per tutti: costruire con il bambù

 

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Una casa per tutti: costruire con il bambù

Nel mondo mancano alloggi a prezzi accessibili. Il problema è così grande che in tutto il mondo servirebbero 3.000 miliardi di dollari. Solo nel 2015 sono stati spesi tra i 300 e i 500 miliardi di dollari.

Poiché l’edilizia popolare beneficia sia di sovvenzioni che di garanzie statali, i suoi risultati finanziari hanno attirato gli investimenti privati.

I programmi di edilizia popolare in Brasile offrono un’idea dell’entità della domanda su scala globale. Dal 2010 al 2014 il Brasile ha costruito 2 milioni di case popolari ad un costo medio di 15.000 euro l’uno, a fronte di un’iniezione di liquidità da parte dello Stato per 30 miliardi di euro.

Tuttavia, la domanda in Brasile è di 5,6 milioni di unità abitative, e così anche con questo sforzo straordinario, oltre il 60% delle famiglie bisognose è ancora lasciato senza casa.

Ciò crea molto spazio per iniziative private che integrano l’azione del governo. Il Sudafrica, alla fine dell’Apartheid nel 1994, aveva l’obiettivo dichiarato di costruire un milione di case in più, soddisfacendo oggi solo il 14% di quelle esigenze abitative.

L’investimento nell’edilizia popolare è l’unico settore edilizio caratterizzato da una crescita a livello mondiale e da un interessante ritorno sugli investimenti.

Ma c’è un problema?

Mentre nel settore immobiliare tradizionale c’è un guadagno che va dal 25% al 35% di utile sul capitale investito, i programmi di edilizia residenziale sostenuti dallo Stato, in generale, offrono solo il 10% di ritorno. Tuttavia, sono investimenti a basso rischio e che attraggono chi è in cerca di rendimenti stabili e sicuri.

Ecco cosa si può fare.

Architetti e urbanisti hanno speso molto tempo e impegno nella progettazione di case a prezzi accessibili, concentrandosi principalmente sulla riduzione dei costi, in particolare eliminando la manodopera attraverso sistemi di costruzione prefabbricati. Le case popolari in Brasile costano ancora 15.000 euro per unità, mentre in India l’investimento di capitale in una casa può arrivare fino a 4.500 euro. Ovviamente non sono prezzi alti e, inoltre, si offrono case migliori delle baraccopoli, ma non consentono di avere case soddisfacenti.

Uno dei problemi principali è che l’edilizia popolare consuma enormi quantità di cemento e calcestruzzo e questo crea importanti emissioni di gas a effetto serra.

Da qui l’innovazione.

Simon Velez, architetto colombiano, e Marcelo Villegas, ingegnere di spicco, hanno beneficiato entrambi del grande lavoro pionieristico di Oscar Hidalgo, il maestro dell’architettura del bambù. Si resero conto che quando gli spagnoli colonizzarono gli altopiani andini della Colombia e dell’Ecuador, non incontrarono foreste pluviali, ma piuttosto scoprirono massicce foreste di bambù dominate dalla Guadua angustifolia, un’erba gigante che poteva produrre per settant’anni fino a sessanta pali da 25 metri all’anno.

Il bambù è un ottimo materiale da costruzione, e come testimonianza si trovano ancora centinaia di case coloniali di più di 200 anni. In Cina ce ne sono molte e quelle più antiche si dice abbiano 3.000 anni. Così Simon e Marcelo studiarono cosa si poteva fare per poter costruire case per tutti senza generare rifiuti e gas serra.

Simon capì che il bambù ha bisogno di essere protetto dal sole e dalla pioggia, mentre Marcelo progettò un’ingegnosa tecnica di giunzione.

Quando Klaus Steffens, dell’Università di Brema, ha eseguito le stesse prove, è rimasto così impressionato che si è impegnato a ottenere una licenza edilizia per questo materiale da costruzione naturale e per questa innovativa tecnica costruttiva. Il bambù non è solo un acciaio vegetale, ma è anche bello e, inoltre, contribuisce al problema dell’anidride carbonica.

Simon ha rapidamente convertito il successo dei suoi progetti in programmi di edilizia popolare in risposta al terremoto che ha colpito la regione Eje Cafetero, donando i disegni al governo locale per l’uso open source.

Sessantacinque pali di bambù bastano esattamente per costruire una casa di 65 metri quadrati a due piani con un grande balcone. Questo edificio costa meno di 15.000 dollari, e mentre la maggior parte della popolazione considera il bambù un simbolo di povertà, questa casa con un balcone (simbolo della classe media superiore) ha trasformato la costruzione in una casa molto desiderata. A dieci anni di distanza da questi edifici pionieristici sparsi in tutta l’America Latina, gli alloggi in bambù si sono affermati come una delle più promettenti innovazioni nella progettazione di edifici a emissioni zero sia per i ricchi che per i poveri.

Ma c’è qualcosa di più.

Simon e Marcelo non si sono mai preoccupati di brevettare nessuna delle loro invenzioni, ma hanno condiviso liberamente le loro intuizioni, trascorrendo molto tempo con i lavoratori che spesso non sanno leggere o scrivere, per trasferire le loro intuizioni sulle tecniche su come costruire. Migliaia di edifici sono emersi in tutto il mondo utilizzando questa tecnica open source, riassunte nel libro “Crescere la propria casa”.

Oggi oltre un miliardo di persone vivono in case di bambù, sono nati posti di lavoro, si è risparmiato CO2, ma pochi si rendono conto che le foreste di bambù temperano l’effetto isola di calore, con fino a dieci gradi in meno.

Abbiamo di fronte un programma di edilizia popolare che fornisce acqua potabile supplementare e abbassa la temperatura della Terra. Mettiamolo in atto.

fonte: http://www.beppegrillo.it/una-casa-per-tutti-costruire-con-il-bambu/

Ricordate l’Agente Smith in Matrix? “L’essere umano è un virus, è un’infezione, una piaga, un cancro su questo pianeta” …Forse aveva ragione: Abbiamo cancellato dal Pianeta il 60% delle specie animali in soli quarant’anni…!

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Ricordate l’Agente Smith in Matrix? “L’essere umano è un virus, è un’infezione, una piaga, un cancro su questo pianeta” …Forse aveva ragione: Abbiamo cancellato dal Pianeta il 60% delle specie animali in soli quarant’anni…!

 

Prima di leggere l’articolo, ecco cosa dice l’agente Smith a Morfeus…

La popolazione mondiale continua a crescere, le foreste abbattute per creare campi agricoli, abbiamo riempito il pianeta di pozzi, raffinerie, impianti chimici, plastica nel mare, abbiamo causato cambiamenti climatici, abbiamo praticato la pesca irresponsabile, tollerato i bracconieri nelle foreste, ci siamo avvelenati con i pesticidi e tutti vogliono vivere come gli occidentali, portando al consumismo sfrenato a livello planetario.

Siamo oggi a 7.5 miliardi di persone, il doppio di 40 anni fa.

Trecento specie di mammiferi sono in via di estinzione perche’ ne mangiamo troppi.

Abbiamo usato energia, terra ed acqua piu di quanto non potessimo permetterci.

Dal 1950 ad oggi abbiamo tirato su dal mare 6 miliardi di pesci, grazie alla pesca industriale, sostiutendoli con plastica.

Il 90% dei coralli a livello mondiale e’ a rischio di estinzione.

Abbiamo abbattuto le foreste per farci piantagioni di soya o di olio di palma.

Nella savana tropicale ogni due mesi scompare un area grande quanto Londra.

Le meta’ delle orche assassine morira’ per inquinamento chimico nel mare.

Il risultato di queste nostre azioni e’ del tutto consequenziale: il numero di animali che vivono allo stato selvaggio e’ in declino, con la scomparsa del 60% delle specie animali nel corso degli scorsi 40 anni.

Sono cifre impressionanti, rilasciate dal WWF mondiale Living Planet Report 2018. 

Lo studio ha coinvolto 59 scienziati in tutto il pianeta ed ha concluso che noi uomini stiamo distuggendo gli equilibri che in milioni di anni ci hanno permesso di sviluppare la nostra civita’, basata su acqua pulita e aria respirabile.

Sono stati studiati gli impatti dell’attivita’ umana su popolazioni di mammiferi, uccelli, pesci, anfibi e rettili, dal 1970 al 2014, e l’analisi ha riguardato 4,005 specie animali distinte, con 16,704 esemplari in totale. di Appunto, il 60% delle specie selvagge e’ andato estinto.

Le popolazioni di rinoceronti sono calate del 63% fra il 1980 e il 2006 a causa del mercato illegale delle loro corna.

Le popolazioni di orsi polari, gia’ in declino, caleranno del 30% entro il 2050 a causa dello scioglimento delle nevi.

Le popolazioni di squali nell’oceano indiano e in quello pacifico sono scese del 63% negli scorsi 75 anni.

Le popolazioni di pappagalli grigi africani nel Ghana sono calate del 98% fra il 1992 e il 2014 a causa della perdita di habitat.

Le popolazioni di pulcinelle di mare, uccelli acquatici, in Europa caleranno del 79% fra il 2000 e il 2065.

Le specie piu a rischio sono nei Caraibi e nell’America centrale e meridionale, con il declino dell’83% delle specie animali selvagge e dei pesci, dal 1970 al 2014. A rischio oranghi-tanghi, rinoceronti, elefanti, e altre specie della foresta tropicale.

La cosa importante da ricordare e’ che le foreste non sono terra sprecata, di nessuno, oppure un qualche cosa di carino, ma tutto sommato nonesseniziale. La natura ci consente di vivere, e’ il nostro habitat.

Le foreste mantengono un sacco di equilibri climatici, con gli alberi e l’assorbimento di CO2. Ma gli alberi sono la casa di tante specie animali che vivono in simbiosi con lei: gli animali fertlizzano la terra, e aiutano a diffondere i semi; estinti gli animali, la foresta ne soffre, e viceversa, senza foresta gli animali selvatici non hanno casa.
Perche’ non ne parliamo troppo della diversita’ che continua a declinare? Perche’ e’ un processo incerementale, che accade lontano. Non ce ne accorgiamo, gli squali e gli orsi sono fuori dagli occhi, fuori dal cuore.

E invece occorrerebbe ripensare lo status quo, smettere il sovrasfruttamento del pianeta e dei costi in tutto quello che facciamo. Le risorse naturali, si calcola, se dovessero essere quantificate in una cifra economica sarebbero $125 trillioni di dollari.

Tutto quello che abbiamo cercato di fare finora, non e’ stato sufficente ed occorre fare di piu’.

Si e’ gia’ parlato della sesta estinzione di massa, causata da noi uomini.

Perche’ la cosa migliore e’ mangiare meno carne? Perche’ la deforestazione e’ dovuta alla produzione di soya spesso esportata per dare da mangiare a maiali e a galline. Anche i corpi d’acqua, fiumi e laghi sofforono perche’ l’acqua viene usata a scopi di irrigazione per queste enormi piantagioni.
Il mondo parlera’ di tutte queste cose nel 2020, ad un meeting all’ONU per discutere ancora, di cambiamenti climatici, di oceani e biodiversita’.
Chissa’ quante altre specie saranno perse in questi due anni che ci stanno avanti.  Chissa’ quante parole nel frattempo.
tratto da: https://dorsogna.blogspot.com/

 

Che strani i visi pallidi… Uno straordinario pensiero di Toro Seduto

 

Toro Seduto

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Che strani i visi pallidi… Uno straordinario pensiero di Toro Seduto

 

“Che strani gli uomini bianchi…
I visi pallidi vogliono arare la terra e sono malati di avidità.
Hanno fatto molte leggi,
e queste leggi i ricchi possono infrangerle,
ma i poveri no.
Nella loro religione i poveri pregano, i ricchi no.
Tolgono denaro ai poveri e ai deboli
per sostenere i ricchi e i potenti.“

Toro Seduto

 

Chi era Toro Seduto…

Toro seduto: la storia di un uomo leggendario

Toro Seduto nacque nei pressi del Grand River (Sud Dakota), nel 1831 (circa), e morì nei medesimi luoghi nel 1890.

E’ universalmente considerato il più celebre capo indiano, perché durante la sua vita seppe incarnare le virtù degli indiani delle pianure, che, unite ad una grande forza e ad un immenso coraggio, lo resero un condottiero amato dai suoi amici e temuto dai suoi avversari.

Toro seduto guidò l’alleanza di tutte le tribù Sioux nella resistenza indiana contro l’invasione dei bianchi nelle Grandi Pianure. Non si fidò mai degli “americani” e non firmò mai con loro alcun trattato. Sotto la sua bandiera si raccolse la più grande coalizione di pellerossa di ogni tempo, che riuscì a sconfiggere l’esercito guidato dal Generale Custer.

Non divenne famoso per il suo coraggio o per i suoi atti eroici, ma per le sue capacità tattiche e organizzative nell’insurrezione contro gli americani, di cui sarebbe diventato il nemico più accanito e pericoloso.

Era un uomo forte, un po’ tarchiato, con un viso intenso ricoperto da cicatrici, pelle piuttosto chiara e capelli castani che portava legati in due grandi trecce. Era un “politico” di razza; aveva il dono di affascinare chi gli stava vicino e di sapersi contornare di uomini capaci, valorosi e fedeli. Come oratore, grazie alle sue argomentazioni chiare e convincenti, possedeva una grande forza di persuasione. Veniva interpellato in molte occasioni, anche politiche, tanto che era diventato il punto di riferimento principale per risolvere le controversie tra Sioux.

La vita di Toro Seduto è conosciuta perché la illustrò personalmente attraverso la scrittura pittorica. E dai disegni si evince che fino al 1870 aveva preso parte a sessantatré battaglie (la prima a 14 anni), sia contro la tribù dei Corvi (i nemici storici), che contro gli invasori bianchi. Più tardi era diventato un allevatore di cavalli e poi nominato stregone degli Hunkpapa.

Nel 1863 fece visita alla tribù dei Santee nella riserva destinata loro dai bianchi; vedendo come erano miseramente trattati, in lui aumentò la rabbia e il rancore per i coloni americani. Da quel momento combattè con ogni mezzo i soldati che, infischiandosene delle promesse e dei trattati, continuavano a invadere e occupare i territori dei Sioux. Ancor giovane, Toro Seduto divenne il leader della Società dei Guerrieri Coraggiosi e, più tardi, membro autorevole dei Silent Eaters – Mangiatori Silenziosi – un gruppo responsabile del benessere tribale.

Nel giugno del 1863 avvenne il suo primo scontro con i soldati americani.

Nel 1865 guidò l’assedio a Fort Rice, da poco insediato nei territori dell’odierno Nord Dakota.

Rispettato ormai da tutti per la intelligenza e la sua audacia, nel 1868 divenne capo della Nazione Lakota.

Nel 1872, durante una battaglia contro i soldati, nei pressi della ferrovia dello Yellowstone River, Toro Seduto (con altri quattro guerrieri) si sedette con tranquillità tra le due linee che combattevano, fumò la pipa mentre le pallottole fischiavano sopra la sua testa, la arrotolò quando finì e, con estrema noncuranza andò via camminando. Dopo quel gesto il coraggio di Toro Seduto divenne leggendario.

Nel 1874, una spedizione di coloni scoprì ingenti quantità d’oro nelle Black Hills (Colline Nere), situate nel territorio Dakota, su un’area sacra a molte tribù e preclusa agli insediamenti colonici dal Trattato di Fort Laramie (stipulato tra i bianchi e alcune tribù pellerossa nel 1868). In barba a quel divieto i cercatori d’oro invasero le Colline Nere provocando la reazione dei Lakota. Quando il successivo tentativo del Governo degli Stati Uniti di acquistare le Black Hills fallì, il trattato di Fort Laramie fu messo da parte e il commissario americano per gli affari indiani decretò che tutti i Lakota al di fuori delle riserve dopo il 31 gennaio 1876 sarebbero stati considerati ostili.

Non volendo cedere alle prepotenze dei bianchi, Toro Seduto riunì le tribù Lakota, Cheyenne e Arapaho e le guidò nella Danza del Sole, offrendo preghiere a Wakan Tanka, il Grande Spirito, e tagliando le sue braccia cento volte in segno di sacrificio. Durante la cerimonia ebbe la visione di soldati che cadevano nel campo dei Lakota, come cavallette dal cielo.

Ispirato dalla visione, il capo guerriero degli Oglala Lakota, il celeberrimo Cavallo Pazzo, condusse in battaglia 500 guerrieri, e il 17 giugno 1876 colse di sorpresa le truppe di Crook, costringendole alla ritirata. Per celebrare la vittoria, i Lakota si diressero nella valle del fiume Little Big Horn, dove furono raggiunti da altri 3000 indiani che avevano lasciato le riserve per unirsi a Toro Seduto.

In quel luogo, il 25 giugno, furono attaccati dal Settimo Cavalleggeri comandato dal Generale Custer, che però venne interamente annientato (come aveva predetto Toro Seduto nella sua visione).

La sete di vendetta portò gli americani a concentrare in quell’area migliaia di soldati, e i rapporti di forza si ribaltarono al punto che la maggioranza dei capi Lakota, che nel frattempo s’erano di nuovo divisi, nel giro di un anno dovettero arrendersi.

Toro Seduto non fu tra questi, e nel maggio 1877 riparò con la sua gente in Canada. Poco dopo il Generale Terry gli offrì, in cambio del perdono, di farlo stabilire in una riserva, ma il grande Capo indiano non prese neanche in considerazione l’ipotesi.

Quattro anni più tardi, tuttavia, il 19 luglio 1881, viste le enormi difficoltà nello sfamare la sua tribù (il Bisonte in quelle zone era ormai quasi estinto), Toro Seduto si arrese. Consegnò il fucile al comandante di Fort Buford in Montana e chiese di attraversare il confine canadese e di risiedere in una riserva sul Little Missouri River, presso le Colline Nere. In un primo tempo fu inviato alla Riserva di Standing Rock e, successivamente, temendo nuove rivolte, a Fort Randall, dove trascorse due anni come prigioniero di guerra.

Infine, il 10 maggio 1883, Toro Seduto potè ricongiungersi alla sua gente a Standing Rock.

Nel 1885 lasciò la riserva (su permesso degli americani) per lavorare nel Buffalo Bill’s Wild West (lo spettacolo del leggendario Buffalo Bill), dove veniva pagato 50 dollari la settimana per un giro a cavallo dell’arena (guadagnando anche con gli autografi e le fotografie). Quattro mesi dopo però abbandonò il Circo e fece ritorno tra la sua gente, incapace com’era di integrarsi nella società dell’uomo bianco.

Tornato a Standing Rock si stabilì sul Grande Fiume, dove era nato, rifiutando di rinunziare alle sue tradizioni, come imponevano i regolamenti della riserva. Continuò a vivere con due mogli e a rifiutare la cristianità, ma non mancò di mandare i suoi figli a una vicina scuola cristiana, convinto com’era dell’importanza dell’istruzione per le future generazioni Lakota.

Nell’autunno del 1890, un Lakota Miniconjou di nome Orso Scalciante gli recò notizia della preparazione di una Danza degli Spiriti, che avrebbe scacciato i bianchi dalle loro terre e ristabilito il modo di vivere degli indiani. Le autorità bianche di Standing Rock, temendo che Toro Seduto potesse partecipare al rito, inviarono 43 poliziotti Lakota a prelevarlo. Il 15 dicembre 1890, prima dell’alba, i poliziotti irruppero nella cabina di Toro Seduto e lo trascinarono all’esterno, dove i suoi seguaci stavano accorrendo per proteggerlo. Nel conflitto a fuoco che seguì un poliziotto Lakota lo colpì al capo ferendolo a morte, e giustiziando a sangue freddo anche suo figlio diciassettenne, che aveva implorato di essere risparmiato.

Toro Seduto probabilmente non venne ucciso incidentalmente, dato che i bianchi, visto il suo carisma, lo percepivano come un pericolo costante per la loro sicurezza.

Come successe ad altri capi indiani, anche Toro Seduto cadde per mano di un appartenente al suo stesso popolo. Fu sepolto a Fort Yates, in Nord Dakota, e nel 1953 i suoi resti furono trasferiti a Mobridge, nel Sud Dakota, dove riposano sotto un cippo di granito che segna la sua tomba.