Fabrizio De André: la vita e la carriera di uno dei più grandi cantautori di tutti i tempi

 

Fabrizio De André

 

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Fabrizio De André: la vita e la carriera di uno dei più grandi cantautori di tutti i tempi

È decisamente uno dei re del cantautorato italiano e i suoi testi, come la sua musica, non smettono mai di mancarci: parliamo di Fabrizio De André, il poeta genovese che, con le sue canzoni dissacranti e piene di storie di anime nere, corrotte e perse, rivoluzionò la musica italiana.

La vita

Fabrizio De Andrè è nato a Genova il 18 febbraio del 1940. Più nello specifico nella zona di Pegli, in via De Nicolay 12, da Giuseppe De André e Luisa Amerio.

Cosa avrebbe potuto fare alla fine degli anni Cinquanta un giovane nottambulo, incazzato, mediamente colto, sensibile alle vistose infamie di classe, innamorato dei topi e dei piccioni, forte bevitore, vagheggiatore di ogni miglioramento sociale, amico delle bagasce, cantore feroce di qualunque cordata politica, sposo inaffidabile, musicomane e assatanato di qualsiasi pezzo di carta stampata? Se fosse sopravvissuto e gliene si fosse data l’occasione, costui, molto probabilmente, sarebbe diventato un cantautore. Così infatti è stato ma ci voleva un esempio.” F. De Andrè

Il padre, un professore antifascista che insegnava all’interno di istituti che lui stesso dirigeva, quando la situazione si aggravò a causa del secondo conflitto mondiale portò la sua famiglia a rifugiarsi in un cascinale a Revignano D’asti. Proprio lì, nella Cascina dell’Orto della strada Calunga, Fabrizio trascorre la sua infanzia insieme alla madre e al fratello maggiore Mauro e inizia ad interessarsi alla musica in un contesto di vita semplice e contadina.

Un giorno infatti la mamma trova il piccolo “Bicio” – così la gente del luogo usava soprannominare Fabrizio – in piedi su una sedia, radio accesa, intento a dirigere un’orchestra immaginaria. Quando è ancora piccolino, la famiglia di Fabrizio fa poi ritorno a Genova: nel 1945 i De Andrè si stabiliscono infatti nella nuova casa, in via Trieste 8 e l’anno seguente Fabrizio viene iscritto all’istituto delle Suore Marcelline.

Fabrizio però è un ribelle e la sua permanenza lì, infatti, dura poco: il ragazzo manifesta fin da subito grande insofferenza alle stringenti regole dell’istituto, tanto che la famiglia è costretta a ritirarlo ed iscriverlo a una scuola statale, la Armando Diaz. Nel nuovo istituto, grazie all’iniziativa dei genitori che avevano notato la grande predisposizione artistica del figlio, Fabrizio inizia a studiare violino. Il suo insegnante è Gatti.

La sue vicende scolastiche non finiscono qui: Fabrizio frequenta le medie inizialmente al Giovanni Pascoli ma, a seguito di una bocciatura che fa infuriare suo padre, le porta a termine all’istituto Palazzi dopo essere passato anche per le classi dei severissimi gesuiti dell’Arecco.

Nel 1954 Fabrizio, dopo il violino, inizia a suonare anche la chitarra e nel 1955 si esibisce per la prima volta in pubblico ad uno spettacolo di beneficenza al teatro Carlo Felice. Ha un suo gruppo “Bicio” e suona per lo più country e western per poi avvinarsi al jazz. Nel 1956, poi, si avvicina ad un genere che diventerà la sua massima ispirazione: la canzone francese e, in particolare, quella trobadorica medievale. Quando il padre torna proprio da un viaggio in Francia riporta a Fabrizio due giradischi di Georges Brassens e lui traduce alcuni testi.

Fabrizio frequenta poi la sezione A del liceo classico Cristoforo Colombo, la più dura di tutte, e continua a mostrare il suo carattere anticonformista con i professori. Se ne va di casa a 18 anni a causa dei contrasti con il padre e all’università, poi, dopo aver frequentato alcuni corsi di Lettere e Medicina, sceglie Giurisprudenza, dietro il consiglio della sua famiglia e del suo amico Paolo Villaggio, che Fabrizio conosce proprio negli anni del dopoguerra e con cui avrà un rapporto molto stretto per tutta la vita. I suoi studi accademici, però, non vengono portati a termine: Fabrizio decide di smettere a soli 6 esami dalla laurea.

Da quel momento in poi è la musica il suo solo e unico impegno: nel 1958 esce infatti il suo primo disco, Nuvole Barocche, a cui ne faranno seguito molti altri. Il vero successo, però, inizia grazie a Mina; è la cantante ad incidergli La Canzone di Marinella, brano subito grandemente acclamato dal pubblico.

Oltre Paolo Villaggio, Fabrizio ha infatti molti amici celebri nel panorama musicale italiano, come Gino Paoli e Luigi Tenco.

Il 1961 è l’anno delle nozze di De André: dopo solo alcuni mesi di frequentazione con Enrica Rignon detta “Puny” – appassionata di jazz e appartenente a una delle famiglie più abbienti di Genova – Fabrizio la mette incinta e la sposa. Nel 1962 nasce infatti il figlio dei due, Cristiano. La storia della coppia, comunque, finisce con un divorzio a metà degli anni Settanta. Nel 2004 la donna è deceduta.

Il 1975, invece, è l’anno del primo tour musicale di Fabrizio De André: il suo carattere schivo, infatti, gli aveva fatto evitare fino a quel momento le luci dei riflettori. Due e tre anni più tardi, poi, la vita del cantautore sarebbe stata segnata da eventi sia belli che drammatici: nel 1977 nasce infatti sua figlia Levi, avuta con la compagna Dori Ghezzi, ma nel 1979 i due vengono rapiti dall’anonima sarda nella loro casa di Tempio Pausania.

Tale sequestro dura quattro mesi ma, anche questa esperienza, è foriera di arricchimento artistico per De André che nel 1981 realizza l’album L’Indiano; in questo, infatti, la cultura dei pastori sardi viene mischiata con quella dei nativi americani. Nel 1989, ormai liberi, Fabrizio e Dori si sposano.

Solo dieci anni dopo, però, Fabrizio muore dopo essersi ammalato di cancro ai polmoni. I suoi funerali si sono svolti il 13 gennaio del 1999 a Genova, nella Basilica di Santa Maria Assunta di Carignano. L’ultimo addio a “Faber”, questo il modo in cui lo chiamava l’amico Paolo Villaggio (per la grande passione del cantante per i pastelli colorati Faber Castle), è stato dato da una folla di oltre 10 mila persone che quel giorno parteciparono alla cerimonia.

Proprio Villaggio, in merito a quella giornata, disse: “Io ho avuto per la prima volta il sospetto che quel funerale, di quel tipo, con quell’emozione, con quella partecipazione di tutti non l’avrei mai avuto e a lui l’avrei detto. Gli avrei detto: “Guarda che ho avuto invidia, per la prima volta, di un funerale”.

La Musica

Tutta la carriera artistica di Fabrizio De Andrè è caratterizzata da fusioni e sincretismi culturali, consacrate sia in Italia che a livello internazionale. Ma la sua musica, prima di tutto, è stata espressione di ribellione e di volontà di rompere tutti gli schemi: quelli sociali ma anche quelli culturali e musicali.

Viene infatti ricordato come “il cantautore degli emarginati” o “il poeta degli sconfitti”, che per queste categorie umane scriveva ballate che rimarranno per sempre vere e proprie opere d’arte musicali. De André aveva alte, altissime fonti d’ispirazione: dalle ballate francesi a Leonard Cohen fino a Bob Dylan, il cantante genovese sapeva cogliere le giuste influenze, anche diversissime fra loro, ma utilizzarle per parlare degli ultimi.

I modelli sia francesi che americani lo hanno accompagnato nella creazione dei suoi testi in cui il cantautore sfidava le convenzioni borghesi, ripudiava la violenza e raccontava le vite di coloro che non trovavano spazio nella società: Bocca di RosaLa Guerra di Piero e Via del Campo sono infatti solo alcuni dei brani che ancora oggi ascoltiamo e che, probabilmente, rimarranno attuali per l’eternità.

Ecco, qui di seguito, la sua discografia completa:

  • 1966 – Tutto Fabrizio De André
  • 1967 – Volume I
  • 1968 – Tutti morimmo a stento
  • 1968 – Volume III
  • 1970 – La buona novella
  • 1971 – Non al denaro non all’amore né al cielo
  • 1973 – Storia di un impiegato
  • 1974 – Canzoni
  • 1975 – Volume 8
  • 1978 – Rimini
  • 1981 – Fabrizio De André
  • 1984 – Crêuza de mä
  • 1990 – Le nuvole
  • 1996 – Anime salve

Ricordando l’indimenticabile Mimì – Biagio Antonacci ricorda Mia Martini: “Mi dissero di non lavorare con lei perché portava sfortuna”

 

Mia Martini

 

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Ricordando l’indimenticabile Mimì – Biagio Antonacci ricorda Mia Martini: “Mi dissero di non lavorare con lei perché portava sfortuna”

Il cantautore milanese parla del suo rapporto con l’artista prematuramente scomparsa nel 1995: “Mia Martini è stata una donna eccezionale per la mia vita”.

Biagio Antonacci ricorda con affetto Mia Martini, la cui vita è stata raccontata nel film ‘Io sono Mia’ interpretato da Serena Rossi e andato in onda ieri sera su Rai1.
“Mia Martini è stata una donna eccezionale per la mia vita. Venne a Rozzano nella casa di mia madre che ci fece da mangiare una ‘cofanata’ di pasta con il pesce. Poi io mi misi al piano e lì cantai ‘Il fiume dei profumi’ nello studiolo di casa dove dormivo anche. Lei si mise là, umilissima, e disse “Questa canzone la canto io”. Poi ascoltò ‘Liberatemi’ e mi disse che sarebbe stato un successo pazzesco. E infatti accadde. Ma non accadde solo questo.
Certe persone che mi dissero allora di non lavorare con lei perché portava sfortuna (e furono tanti in quel periodo) alla fine la presero sui denti perché il disco vendette moltissimo alla faccia di quelli che oggi non fanno più nemmeno i discografici”.

 

 

tratto da: https://www.globalist.it/musica/2019/02/13/biagio-antonacci-ricorda-mia-martini-mi-dissero-di-non-lavorare-con-lei-perche-portava-sfortuna-2037393.html

“Casa de carne”, il divertente cortometraggio che spiega il paradosso della carne

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“Casa de carne”, il divertente cortometraggio che spiega il paradosso della carne

Quanti di noi, muniti di coltello, sarebbero in grado di uccidere un animale per mangiarlo? Probabilmente nessuno, come dimostra il cortometraggio “Casa de carne”

Quanti di noi, messi di fronte all’obbligo di uccidere con le nostre stesse mani un animale, sarebbero in grado di farlo solamente per appagare il proprio desiderio di mangiare una bistecca o un piatto di costolette? Probabilmente nessuno ed è il messaggio che vuole trasmetterci Casa de carne (qui in alto), un cortometraggio “pro-vegan” del giovane regista Dustin Brown, vincitore del primo posto e di un premio di 3mila dollari in contanti agli Tarshis Short Film Awards 2019, le premiazioni di documentari e film dedicati alla questione animale.

Il film, creato per l’associazione no profit Last Chance for Animals (LCA), mostra tre amici a cena in un ristorante di alto livello, alle prese con il menu. Per uno di loro è “la prima volta” e non sa che le costolette di maiale che vorrebbe trovare nel piatto dovrà procurarsele da solo. Dopo aver ricevuto un coltello, viene portato in una stanza bianca e asettica dove trova ad attenderlo un maiale, la sua “cena”. Esita, accarezza l’animale e lascia cadere il coltello: è ormai certo che non avrà il coraggio di compiere il gesto per cui è stato chiuso in quella stanza; a quel punto, però, intervengono due “addetti ai lavori”, abituati a trovarsi di fronte persone incapaci di togliere la vita a un animale. Saranno loro a farlo al posto dell’uomo, a cui verrà di lì a poco servita la carne dello stesso maiale che si è rifiutato di uccidere. Nel finale, vediamo il protagonista profondamente turbato: a differenza degli amici a tavola con lui, pare aver finalmente realizzato da dove provenga la carne che ha nel piatto.

Una realtà, quella mostrata nel cortometraggio, che a conti fatti non appare così strana o inverosimile: sono tanti, infatti, i ristoranti e gli hotel nel mondo che permettono ai propri ospiti di “cacciare” il proprio cibo, come accade per esempio in molti locali di Tokyo dove la clientela pesca il pesce che mangerà di lì a poco.

Carnismo, consapevolezza e false credenze

“Se i mattatoi avessero le pareti di vetro, tutti sarebbero vegetariani” recita un famoso aforisma di Lev Tolstoj, che porta alla luce una verità innegabile, la stessa messa in risalto da Casa de carne: la stragrande maggioranza di noi mangia carne con poca (o nessuna) consapevolezza, senza fare la connessione tra la fetta di arrosto nel piatto e l’animale da cui proviene. Non è un caso che il più delle volte una persona che mangia abitualmente carne inorridisca di fronte ai video che mostrano le realtà dei macelli, rifiutandosi magari anche di guardarli perché altrimenti “poi la carne non la mangio più”.

Ecco, è proprio questo il punto: come dimostra anche un video-esperimento di PETA – che ha messo di fronte due bambini alla necessità di uccidere un pollo per mangiarlo in un sandwich – sono veramente poche le persone che, messe di fronte a questa realtà, la accettano e la condividono. Secondo la psicologa americana Melanie Joy – vegana e attivista antispecista – tutti noi siamo invece vittime di quello che lei stessa definisce “carnismo“, un meccanismo psicologico del quale non siamo consapevoli, ma che condiziona totalmente le nostre scelte alimentari. La maggior parte delle persone mangia carne non per necessità o perché lo voglia davvero, ma piuttosto perché condizionata da un sistema di credenze – ormai istituzionalizzate e considerate come “la normalità” – che opera al di fuori della nostra consapevolezza e senza il nostro consenso.

Secondo la psicologa, inoltre, nella nostra mente esiste una sorta di “sapere senza sapere“: una parte recondita della nostra mente ha chiaro che la bistecca che abbiamo nel piatto sia la parte del corpo di un animale morto per essere mangiato, ma allo stesso tempo questa consapevolezza è latente e non siamo in grado di associare quel pezzo di carne all’animale in vita, alla sua morte alla sofferenza vissuta all’interno di un allevamento.

tratto da: https://www.vegolosi.it/news/lungometraggio-casa-de-carne/

Amarcord – Il mitico Mr Magoo…

Mr Magoo

 

 

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Amarcord – Il mitico Mr Magoo…

Mister Magoo è un simpatico vecchietto, calvo e brontolone, che si ostina a non voler portare gli occhiali nonostante sia fortemente miope. Mister Magoo fa la sua prima apparizione nel 1949 all’interno del cartone animato “Ragtime Bear” prodotto dalla United Productions of America (U.P.A.) una società creata qualche anno prima da tre ex dipendenti della Disney.

 

L’INDIMENTICABILE SIGLA

La storia fu scritta da Milliard Kaufman e portata alla Columbia che cercava cartoons divertenti con animali. Il cartoon venne accettato malvolentieri, ma passò solo perchè era presente un orso. Il personaggio principale è invece l’anziano e brontolone Magoo, che va in vacanza con suo nipote Waldo. Waldo indossa un cappotto di procione e suona un banjo e quando Waldo fugge per via di un orso, Magoo essendo quasi cieco, scambia l’orso per suo nipote, con tutti i risultati esilaranti che questo equivoco comporta. Dopo questo successo la UPA ha continuato a produrre 52 cartoon di Magoo ricevendo 4 nomine per il premio Academy Award e vincendolo per ben due volte con “When Magoo Flew” nel 1954 e “Magoo’s Puddle Jumper” nel 1956.

Il successo di quel primo cortometraggio diede origine a un serial durato una decina di anni, a un comic book, a una serie di tavole domenicali realizzate per i quotidiani e a numerosi spot pubblicitari. Il 18 dicembre del 1962 Mister Magoo è stato protagonista di un film d’animazione trasmesso per la NBC TV, dove lo troviamo nei panni di Ebenezer Scrooge, in una rivisitazione in chiave umoristica del “Canto di Natale” di Dickens. Il successo fu tale che furono prodotti altri film ispirati ai classici della letteratura che con Magoo nelle improbabili vesti di Robin Hood dalla mira infallibile, Long John Silver dell’Isola del tesoro, Cyrano de Bergerac, re Artù, Biancaneve e i sette nani, Guglielmo Tell, Capitan Kidd, Moby Dick, Sogno di una notte di mezza estate di Shakepeare e molti altri.

UN CARTONE

Il cartoni animati di Mister Magoo hanno come tema principale gli equivoci dell’incosciente, vecchietto che si caccia in un mare di guai: quando prende l’aereo, crede che si tratti di una nave e quando crede di essere sul ponte a prendere un pò d’aria in realtà si trova sulle ali dell’aereo. In un altro episodio quando assiste ad un conflitto a fuoco fra banditi e poliziotti, pensa che si tratti dei fuochi d’artificio di una festa e così via. La cosa straordinaria è che Mister Magoo passa icolume in mezzo a tutte queste avventure, in quanto è sempre accompagnato da una fortuna incredibile, che non lo abbandona mai, anche quando fa l’equilibrista sui ponteggi dei grattacieli, pensando di trovarsi sopra un ascensore.

13-15 febbraio 1945, il bombardamento angloamericani di Dresda – Un’azione concepita e condotta per uccidere esclusivamente civili – Un crimine di guerra che fece più vittime della bomba atomica…!

 

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13-15 febbraio 1945, il bombardamento angloamericani di Dresda – Un’azione concepita e condotta per uccidere esclusivamente civili – Un crimine di guerra che fece più vittime della bomba atomica…!

La maggior parte degli storici tende a minimizzare la gravità dei raid aerei su Dresda del febbraio 1945 nei quali morirono almeno 135.000 persone. La sua distruzione cancellò quasi otto secoli di storia insieme a buona parte dei suoi abitanti

Fino all’autunno del 1944 la zona di Dresda era rimasta al di fuori del raggio di azione dei bombardieri degli Alleati, ma con l’avvicinamento del fronte la situazione cambiò.

All’inizio del 1945 la leadership politico-militare alleata iniziò a porsi il problema di come sostenere l’impegno bellico sovietico in Europa con lo strumento del bombardamento strategico.

Furono quindi pianificati i bombardamenti di Berlino e di molte altre città dell’est della Germania, coordinati con l’avanzata russa.

L’obiettivo dichiarato era quello di causare confusione ed evacuazioni di massa dall’est, ostacolando quindi l’avanzata delle truppe da ovest; si prevedeva infatti che i nazisti avrebbero spostato verso il Fronte Orientale 42 divisioni (mezzo milione di uomini) entro il mese di marzo.

I bombardamenti

L’attacco fu condotto congiuntamente dalla Royal Air Force britannica e dalla United States Army Air Force ed avvenne fra il 13 e il 15 febbraio 1945. Il 13 febbraio 1945 più di 800 aerei inglesi volarono su Dresda, scaricando circa 1.500 tonnellate di bombe esplosive e 1.200 tonnellate di bombe incendiarie. Il giorno dopo la città fu attaccata dai B-17 americani che in quattro raid la colpirono con altre 1.250 tonnellate di bombe. Nella mattinata del 15 febbraio ci fu l’ultima incursione di 200 bombardieri statunitensi sulla città ancora in fiamme. I bombardieri alleati rasero al suolo una gran parte del centro storico di Dresda con un bombardamento a tappeto, causando una strage di civili, con obiettivi militari solo indiretti e praticamente insignificanti.

 

Secondo i piani, il 13 febbraio sarebbe dovuto esserci un attacco congiunto di USAAF (di giorno) e RAF (di notte) ma a causa del maltempo diurno, il raid britannico fu il primo. 796 Avro Lancaster e 9 De Havilland Mosquito raggiunsero la città in due ondate, colpendo Dresda durante la notte con 1478 tonnellate di bombe esplosive e 1182 tonnellate di bombe incendiarie.

Il giorno successivo la città fu attaccata dai B-17 americani, che in quattro raid la colpirono con 1250 tonnellate di bombe, esplosive e incendiarie.

Il bombardamento notturno della RAF creò una “tempesta di fuoco”, con temperature che raggiunsero i 1500 °C. Lo spostamento di aria calda verso l’alto e il conseguente movimento di aria fredda a livello del suolo, crearono un fortissimo vento che spingeva le persone dentro le fiamme, fenomeno già osservato in altri bombardamenti (per esempio quello ad Amburgo del 1943) e talvolta indicato col nome di tempesta di fuoco. Col passare delle ore, il vento caldo sempre più forte e l’altissima temperatura non permisero più alcuno spostamento: l’aria calda degli incendi dei vecchi quartieri attirava aria fredda dalla periferia, provocando una potentissima corrente d’aria che a tre ore dal bombardamento si trasformò in un ciclone. L’equipaggio di un bombardiere statunitense, tornato nelle ore successive, vide arrivare a 8 000 metri travi di legno e ogni tipo di materiale, sollevato da una forte corrente ascensionale.

Il fenomeno delle tempeste di fuoco si ripropose numerose volte nella seconda guerra mondiale. Dopo i primi tentativi tedeschi (falliti) sulla Gran Bretagna, si verificarono tempeste di fuoco su molte grandi città tedesche (la più devastante fu quella di Amburgo nel 1943), sovietiche (in particolar modo Stalingrado e numerose piccole città industriali degli Urali), e giapponesi, come Tokyo (che subì il numero più elevato di vittime in una sola incursione, forse il doppio rispetto a Dresda).

Per ottenere una tempesta di fuoco occorrevano quattro condizioni: 1) strade strette e edifici molto ravvicinati (Berlino e Londra non erano adatte, malgrado i numerosi tentativi); 2) case realizzate con materiali incendiabili come legno (molto diffuso in Russia e Germania) o carta (Giappone meridionale); 3) Un’elevata concentrazione di bombe incendiarie mescolate a bombe esplosive e mine aeree; le bombe esplosive avrebbero aperto nelle case brecce in cui si sarebbe infilata l’aria surriscaldata dalle bombe incendiarie, ma se queste non fossero state concentrate su un’area ristretta, si sarebbero spente; 4) condizioni climatiche adatte. Per poter innescare una tempesta di fuoco, inoltre, bisognava che le squadre antincendio fossero insufficienti o assenti, e per questa ragione la Luftwaffe sviluppò la tecnica della doppia ondata (presto copiata da USAAF e RAF): un attacco civetta costringeva i vigili del fuoco a uscire dai rifugi ed essere sorpresi ed eliminati nel secondo passaggio.

La città fu nuovamente bombardata dalla USAAF il 2 marzo con altre 1000 tonnellate di bombe esplosive e incendiarie, e il 17 aprile, con 1554 tonnellate di bombe esplosive e 164 di bombe incendiarie. Forse per errore, numerosi bombardieri americani colpirono un’altra città, situata a poco più di un centinaio di chilometri verso sud, Praga.

Le rovine dopo il bombardamento

Furono distrutte 24.866 case del centro su un totale di 28.410. Un’area di 15 chilometri quadrati fu rasa al suolo (includeva 14.000 case, 72 scuole, 22 ospedali, 19 chiese, 5 teatri, 50 edifici bancari e assicurativi, 31 magazzini, 31 alberghi, 62 edifici amministrativi, industrie, e altre costruzioni, tra cui il comando principale della Wehrmacht). Dei 222.000 appartamenti della città, 75.000 furono completamente distrutti, 11.000 gravemente danneggiati, 7.000 danneggiati, 81.000 leggermente danneggiati. All’epoca, la città era grande circa 300 chilometri quadrati. 199 fabbriche furono danneggiate in modo più o meno grave; 41 di esse erano classificate dalle autorità locali come importanti per la produzione militare. Numerosi stabilimenti della Zeiss-Ikon furono distrutti al 100%. Paradossalmente, la ferrovia riprese a funzionare dopo pochi giorni, con una connessione lenta su un unico binario, attraverso un ponte solo parzialmente danneggiato.

L’esatto numero totale di vittime è impossibile da definire: la popolazione di Dresda nel 1939 contava circa 642.000 abitanti ma alcune fonti hanno affermato che i rifugiati fossero fino a 200.000. La commissione di storici incaricata dalla città di Dresda di studiare il bombardamento, invece, ha concluso che « […] a Dresda non potevano essere arrivati profughi a decine o persino a centinaia di migliaia». Secondo alcuni storici, una valutazione verosimile sarebbe fra 25.000 e 35.000 morti, un bilancio non troppo diverso da quello relativo ad altri bombardamenti alleati su città tedesche.

Sui registri ufficiali tedeschi risultano 21.271 sepolture di resti umani ritrovati. Da tale elenco sono quindi esclusi eventuali corpi completamente distrutti dalla tempesta di fuoco. La commissione di storici incaricata dalla città di Dresda di riesaminare, per l’anniversario del 2005, la questione del numero di vittime, escluse con test scientifici che « […] un gran numero di persone – alcune migliaia o decine di migliaia…» potessero essere scomparse senza lasciare traccia. È comunque indicativo che si siano trovati cadaveri fino al 1966. Altre fonti parlano di un numero di vittime molto superiore (da 150.000 a 300.000) ma destituito da ogni fondamento. Tali informazioni hanno origine da una falsificazione dei nazisti: alla cifra iniziale di circa 30.000 morti nei documenti ufficiali redatti dalle efficienti squadre governative tedesche (specializzate nel fare stime dei danni dopo un bombardamento) fu aggiunto uno zero per fomentare l’odio contro gli alleati nei paesi neutrali. Secondo le stime di Frederick Taylor, dando per assodata e certificata la distruzione totale di 24.866 edifici e dando per vera la cifra non falsificata dai nazisti di 30.000 decessi, risulterebbe l’assurdità di un solo deceduto per ogni edificio distrutto. Lo storico tedesco Jörg Friedrich parla di 40.000 morti. Tali stime sono in linea con quanto accadde nella maggior parte dei bombardamenti della seconda guerra mondiale.

Più del 90% di Dresda fu distrutto dalla furia dei bombardamenti. Nella foto, la città dalla Rathausturm.

Nel 1955 Konrad Adenauer, Cancelliere della Repubblica Federale Tedesca, dichiarò: «Il 13 febbraio del 1945 l’attacco alla città di Dresda, sovraffollata di profughi, provocò circa 250.000 vittime». Nel libro Mattatoio n. 5 lo scrittore statunitense Kurt Vonnegut (che durante il bombardamento si trovava a Dresda, come prigioniero di guerra, e che sopravvisse perché detenuto in un mattatoio), riporta la cifra di 135.000 morti. Né le stime di Adenauer né quelle di Vonnegut sono suffragate da documenti, ma indicano bene come il bombardamento di Dresda, a differenza di altri gravi bombardamenti della seconda guerra mondiale, fosse diventato un simbolo. Grazie all’attacco il filologo Victor Klemperer e sua moglie poterono fuggire dalla Judenhaus in cui erano prigionieri.

Sebbene la potenza di fuoco non fosse di molto superiore a quella usata in altri bombardamenti in Europa, una serie di fattori ne aumentarono l’efficacia: le condizioni meteorologiche favorevoli, la presenza di numerosi edifici in legno, e i tunnel sotterranei che collegavano molte cantine (e attraverso cui le fiamme si diffusero). Inoltre Dresda si rivelò assolutamente impreparata all’attacco: a causa del tracollo delle forze armate tedesche e del fatto che agli inizi della guerra la città fosse fuori dal raggio di azione dei bombardieri alleati, disponeva di una difesa contraerea inadeguata, che andò progressivamente diminuendo con il trasferimento in altre zone delle batterie contraeree, tanto che gli equipaggi delle incursioni riferirono di una pressoché totale assenza di contrasto da terra. Sei Lancaster tuttavia non rientrarono alla base, e tre si schiantarono all’atterraggio. Anche un Bf 110, uno dei caccia notturni della Luftwaffe decollati per intercettare l’attacco, non tornò. I rifugi antiaerei erano assolutamente inadeguati ad ospitare sia la popolazione residente, sia i profughi presenti in città.

 

16 febbraio 1947 – Il treno della vergogna – Gli esuli Istriani accolti dai loro connazionali non solo senza un briciolo di solidarietà, ma con avversione, rancore e inaudita violenza.

 

treno della vergogna

 

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16 febbraio 1947 – Il treno della vergogna – Gli esuli Istriani accolti dai loro connazionali non solo senza un briciolo di solidarietà, ma con avversione, rancore e inaudita violenza.

 

“Il Treno della Vergogna” o “Treno dei fascisti” 
La targa è alla stazione di Bologna.
Il testo è: “Nel corso del 1947 da questa stazione passarono i convogli che portavano in Italia esuli istriani, fiumani e dalmati: italiani costretti ad abbandonare i loro luoghi dalla violenza del regime nazional-comunista jugoslavo e a pagare, vittime innocenti, il peso e la conseguenza della guerra d’aggressione intrapresa dal fascismo. Bologna seppe passare rapidamente da un atteggiamento di iniziale incomprensione a un’accoglienza che è nelle sue tradizioni, molti di quegli esuli facendo suoi cittadini. Oggi vuole ricordare quei momenti drammatici della storia nazionale. Bologna 1947-2007.”

E’ una targa ipocrita, tardiva e non veritiera; scrivere “un atteggiamento di iniziale incomprensione” è non assumersi appieno le proprie colpe.

Quello che è passato alla storia come “Treno della vergogna” è un convoglio che nel 1947 trasportò da Ancona i profughi provenienti da Pola: si trattava di esuli italiani che con la fine della Seconda Guerra Mondiale, si ritrovarono costretti ad abbandonare le loro case in Istria, Quarnaro e Dalmazia.

L’evento è passato alla storia come “esodo istriano“. All’epoca i ferrovieri lo definirono offensivamente “treno dei fascisti”, definizione emblematica di tutta la disinformazione e la strumentalizzazione politica che circondò la vicenda.

Domenica 16 febbraio 1947 i profughi partirono da Pola a bordo di diversi convogli, portandosi dietro il minimo indispensabile, ovvero quel poco che erano riusciti a salvare. Giunti ad Ancona per gli esuli si rese necessario l’intervento dell’esercito: i militari dovettero proteggerli da connazionali, militanti di sinistra, che non solo non mostrarono solidarietà, ma li accolsero con avversione e violenza.

Il giorno seguente, di sera, partirono di nuovo stipati in un treno merci già carico di paglia. Il convoglio arrivò alla stazione di Bologna solo alle 12:00 del giorno seguente, quindi proprio martedì 18 febbraio.

La Pontificia Opera di Assistenza e la Croce Rossa Italiana avevano preparato dei pasti caldi, soprattutto per bambini e anziani. Ma quando gli esuli erano quasi giunti nella città emiliana, alcuni ferrovieri sindacalisti diramarono un avviso ai microfoni, incitando i compagni a bloccare la stazione se il treno si fosse fermato.

Allo stop del convoglio ci furono persino alcuni giovani che, sventolando la bandiera con falce e martello, iniziarono a prendere a sassate i profughi, senza distinzione tra uomini, donne e bambini. Altri lanciarono pomodori e addirittura il latte che era destinato ai bambini, ormai quasi in stato di disidratazione.

A causa di questi atti vili fu dunque necessario far ripartire il treno per Parma, dove finalmente si riuscì ad andare in aiuto dei profughi ormai allo stremo delle forze. Da lì, ripartirono poi per La Spezia, dove furono temporaneamente sistemati in una caserma.

Il “treno della vergogna” non fu affatto un caso isolato. Gli “Italiani”, ancora furenti per l’infamia della guerra, avevano ormai identificato i profughi Istriani come “fascisti” e come tali responsabili della tragedia appeta vissuta.

 

Buon San Valentino con le 10 poesie più belle di tutti i tempi da dedicare a chi si ama…

 

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Buon San Valentino con le 10 poesie più belle da dedicare a chi si ama…

Ecco le 10 poesie più belle da dedicare a chi si ama…

 

Ho sceso, dandoti il braccio… –  Eugenio Montale
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
E ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
Le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
Non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
Le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

 

Noi saremo – Verlaine
Nell’amore isolati come in un bosco nero,
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,
saranno due usignoli che cantan nella sera.
 

 

Tu… Anima mia – Saffo
Rapita
nello specchio dei tuoi occhi
respiro
il tuo respiro.
E vivo…

 
T’amo senza sapere come… – Pablo Neruda
T’amo senza sapere come, né quando né da dove,
t’amo direttamente senza problemi né orgoglio:
così ti amo perché non so amare altrimenti
che così, in questo modo in cui non sono e non sei,
così vicino che la tua mano sul mio petto è mia,
così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno.
 

 

Il più bello dei mari – Nazim Hikmet
Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello che vorrei dirti di più bello
non te l’ho ancora detto.
 

 

Paris at night – Jacques Prévert
Tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte
Il primo per vederti tutto il viso
Il secondo per vederti gli occhi
L’ultimo per vedere la tua bocca
E tutto il buio per ricordarmi queste cose
Mentre ti stringo fra le braccia.

 

Amore non è amore se muta… – William Shakespeare
Amore non è amore se muta
quando scopre un mutamento
o tende a svanire quando l’altro s’allontana.
Oh no!
Amore è un faro sempre fisso che sovrasta la tempesta
e non vacilla mai;
Amore non muta in poche ore o settimane,
ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio;
se questo è errore
e mi sarà provato,
io non ho mai scritto,
e nessuno ha mai amato.

 

Ti adoro – Charles Baudelaire
T’adoro al pari della volta notturna,
o vaso si tristezza, o grande taciturna!
E tanto più t’amo quanto più mi sfuggi,
o bella, e sembri, ornamento delle mie notti,
ironicamente accumulare la distanza
che separa le mie braccia dalle azzurrità infinite.
Mi porto all’attacco, m’arrampico all’assalto
Come fa una fila di vermi presso un cadavere e amo,
fiera implacabile e crudele, sino la freddezza
che ti fa più bella ai miei occhi.

 

Alla tua salute amore mio – Alda Merini
Accarezzami, amore,
ma come il sole
che tocca la dolce fronte della luna.
Non venirmi a molestare anche tu
con quelle sciocche ricerche
sulle tracce del divino.
Dio arriverà all’alba
se io sarò tra le tue braccia.
 

Per un istante d’estasi – Emily Dickinson
Per un istante d’estasi
Noi paghiamo in angoscia
Una misura esatta e trepidante,
Proporzionata all’estasi.
Per un’ora diletta
Compensi amari d’anni,
Centesimi strappati con dolore,
Scrigni pieni di lacrime

 

 

Ricordando Whitney Houston – L’indimenticabile voce che ci lasciò l’11 febbraio di 8 anni fa…

 

Whitney Houston

 

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Ricordando Whitney Houston – L’indimenticabile voce che ci lasciò l’11 febbraio di 8 anni fa…

Ricordando Whitney Houston… Classe 1963, oggi la compianta Whitney Houston compirebbe 56 anni. La bella e talentuosa Nippy, così familiari e amici amavano chiamare affettuosamente Whitney, è scomparsa prematuramente l’11 febbraio del 2012, la vigilia dei Grammy Awards, quando è stata trovata priva di vita nella vasca da bagno di una stanza del Beverly Hills Hotel, a Los Angeles, tre anni prima che la sua unica figlia Bobbi Kristina seguisse il suo triste destino.

“Il mio più grande demone sono io. Sono il mio miglior amico o il mio peggior nemico”, aveva detto la souldiva americana non molto tempo prima di morire, forse consapevole, almeno in parte, che la spirale distruttiva dalla quale tentava faticosamente di uscire da anni non l’avrebbe risparmiata. A ucciderla è stato infatti un micidiale cocktail di alcol e droghe, l’ennesimo dopo anni di abusi iniziati quando era la moglie di Bobby Brown, ex frontman dei leggendari New Edition diventato celeberrimo alla fine degli anni Ottanta grazie a due bestseller solistici.

Whitney Houston era la figlia della diva gospel Cissy Houston e la nipote della leggendaria cantante soul Dionne Warwick, un’icona della musica e del cinema internazionali lanciata nello star system di serie A nella prima metà degli anni Ottanta. Personaggio chiave tra la Vecchia Scuola soul e la nuova generazione r&b, Nippy ci lascia un’eredità musicale che non teme confronti, e che i suoi fan, così come le nuove leve del pop, non dimenticheranno mai.

Fu una cantante e attrice, da molti considerata la più grande voce del nostro tempo, infatti per Rolling Stone merita il 34° posto nella classifica dei 100 cantanti più grandi di tutti i tempi.

Il suo grandissimo successo arriva negli anni ’80 e le permetterà di accedere a mercati fino ad allora preclusi alle cantanti di colore. Da questo trampolino di lancio la cantante ha poi dominato le classifiche mondiali, in particolar modo la Billboard Hot 100, nella quale ha piazzato sette singoli consecutivi alla numero uno, tra le altre cose battendo il record di cinque appartenente a Diana Ross & The Supremes e ai Beatles.

Durante la sua carriera ha venduto 200 milioni di dischi e ha ricevuto oltre 400 premi, insomma è l’icona dello slow-pop che piace, trasversalmente, a tutte le culture e generazioni di mezzo mondo.

ECCO 5 CON CUI VOGLIAMO RICORDARE WHITNEY HOUSTON:
 I Will Always Love You

I wanna dance with somebody (who loves me)

Greatest love of all

I’m every woman 

How will I know 

L’invenzione del biliardino? Una storia commovente: Alejandro Finisterre, militante anarchico spagnolo, guardava i bambini mutilati durante la guerra civile e pensando tristemente che non avrebbero più potuto giocare a calcio…

 

biliardino

 

 

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L’invenzione del biliardino? Una storia commovente: Alejandro Finisterre, militante anarchico spagnolo, guardava i bambini mutilati durante la guerra civile e pensando tristemente che non avrebbero più potuto giocare a calcio…

 

ALEJANDRO FINISTERRE CI LASCIO’ IL 9 FEBBRAIO 2007. MILITANTE ANARCHICO, GUARDAVA I BAMBINI SPAGNOLI MUTILATI DURANTE LA GUERRA CIVILE E PENSO’, TRISTEMENTE, CHE NON AVREBBERO PIU’ POTUTO GIOCARE A CALCIO. E COSI’ INVENTO’ IL BILIARDINO

Le storie che raccontiamo, come ripetiamo spesso, sono le nostre storie. Vicende che ci riguardano da vicino anche se magari non ce rendiamo subito conto. Pensiamo al biliardino. Chi nella vita non ha fatto almeno una partita a questo celebre gioco? 

La storia della nascita di questo gioco/sport è strettamente legata ad un alla storia della Guerra civile spagnola, e ad un personaggio di orientamento libertario che per primo lo ha brevettato. 

Alejandro Finisterre nasce nella città di Finisterre – dalla quale prende il cognome – nella regione spagnola della Galizia nel 1919. All’età di 15 anni si sposta a Madrid per studiare. Per potersi pagare la scuola fa ogni tipo di lavoro, dal muratore al ballerino di tip-tap, ed inizia a sviluppare una coscienza politica che lo porterà ad avvicinarsi al mondo anarchico, che ci concretizzerà un paio di anni dopo, nel 1936, allo scoppio della Guerra civile. 

Pochi mesi dopo l’inizio del conflitto rimarrà però vittima di uno dei tanti bombardamenti che subì la capitale spagnola. Travolto dalle rovine dell’edificio nel quale si trovava rimase ferito e venne trasferito in ospedale. Qui, insieme ai numerosi feriti provenienti dal fronte, erano presenti molti bambini colpiti nel corso dei bombardamenti. Molti avevano ferite gravi e, spesso, erano mutilati alle gambe. Alejandro penso che non avrebbero più potuto fare molte cose, come giocare a calcio. Fu allora che gli venne l’idea, prendendo spunto dal pingpong: creare un gioco di calcio “da tavolo” che potesse essere usato facilmente ancehe da chi aveva subito gravi mutilazioni. Nacque così il biliardino.

Ma la storia della nascita del gioco non finisce qui e prosegue in maniera turbolenta, come turbolenta fu la vita di Alejandro Finisterre in quegli anni. Con l’avvicinarsi dell’epilogo della guerra civile, egli scappò infatti in Francia per sfuggire alla persecuzione franchista. Ma la stessa Francia imprigionò molti degli esuli che attraversavano i Pirenei. Proprio mentre si spostava in Francia perse il brevetto del biliardino, tant’è che ancora oggi si sollevano dubbi sull’effettiva paternità dell’invenzione. Rimase per quattro anni detenuto in Marocco, poi venne liberato e partì alla volta del Guatemala dove, però, venne arrestato nel 1954 in seguito ad un colpo di Stato. Mentre lo estradavano a Madrid, fece finta di avere una pistola e dirottò l’aereo verso Panama in uno dei primi dirottamenti aerei della storia. Infine, dopo la morte di Franco, è tornato in Spagna dove si è spento nel 2007.

Fonti:

Cannibali e Re
Cronache Ribelli