Amarcord – Il 15 giugno 1966 andava in onda per la prima volta “Belfagor – il fantasma del Louvre”. Lo sceneggiato fu poi replicato varie volte, nel 1969, 1975 e 1988, “terrorizzando” i ragazzini di più generazioni…

 

Belfagor

 

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Amarcord – Il 15 giugno 1966 andava in onda per la prima volta “Belfagor – il fantasma del Louvre”. Lo sceneggiato fu poi replicato varie volte, nel 1969, 1975 e 1988, “terrorizzando” i ragazzini di più generazioni…

I bambini degli anni ’60 e ’70 non hanno paura di niente, tranne che del fantasma nero di Belfagor che scivola di notte tra le sale del Louvre …

Era il 15 giugno del ’66 quando andò in onda sul secondo canale della Rai la prima puntata di ‘Belfagor ovvero il fantasma dei Louvre‘. E da quella sera, per sei puntate, milioni di famiglie italiane restarono incollate davanti alla Tv ipnotizzate da quell’insolito sceneggiato francese in 4 puntate, in cui una misteriosa gura nera si aggirava di notte per le sale deserte dei Louvre. E fra tutto questo pubblico c’eravamo noi, i bambini, affascinati dalla storia misteriosa che ci veniva raccontata e terrorizzati dalle fugaci apparizioni di quella maschera dorata dagli occhi enormi e dal lungo mantello scuro.

Belfagor ovvero il fantasma dei Louvre è una storia in bilico tra giallo e horror fantastico, che in Francia fu replicata solo due volte, ma che in Italia – a grande richiesta – la RAI rimandò di nuovo in onda nel ’66, nel ’69, nel ’75 e infine su Raitre nell’88. I dialoghi sono asciutti, la fotografia è ‘espressionista‘, sullo sfondo una Parigi esistenzialista in bianco e nero, dove si muovono personaggi simbolo di quell’epoca come Juliette Gréco nel ruolo di Luciana Borel. Tra gli altri interpreti compaiono René Dary nel ruolo dei commissario, e Andrea Bellegarde.

Tutti coinvolti in un mistero che comincia con l’omicidio di un guardiano dei Louvre. Le indagini, condotte dall’ispettore Menardier, portano all’attività di un gruppo di occultisti che si ispirano a un’antica società segreta, quella dei Rosacroce, il cui tesoro sarebbe nascosto nel Louvre. Tra i membri della confraternita ci sono Lady Hodwyn, l’affascinante Luciana Borel, la sua gemella Stefania e Boris Williams, dotato di un’oscura forza ipnotica. Sarà lui con i suoi poteri a trasformare Luciana in Belfagor e a spingerla al suicidio finale

C’è un fantasma nel Louvre… Un fantasma si aggira per l’inconscio di chi ha almeno 45 anni. Non so quanto possa dire questo post agli under 40. Non dico che non abbiano mai sentito parlare di Belfagor ma l’aver vissuto la cosa è sicuramente diverso. Se vi dicessi che ancora oggi, se devo percorrere un corridoio buio anche in casa mia lo faccio regolarmente di corsa senza guardarmi indietro? Colpa di Belfagor. Da qualche parte devo avere ancora qualcuno dei disegni che facevo compulsivamente per esorcizzare lo spavento: Belfagor di qui, di là, di fianco alla casetta con l’alberello, Belfagor piccolo, Belfagor grande. Mio nonno me li comperava, 100 lire l’uno (che a pensarci oggi era una bella cifra!) Ma chi era ‘sto Belfagor? Il 15 giugno 1966 sul Secondo canale della televisione (allora c’era solo la RAI) andava in onda per la prima volta uno sceneggiato francese in sei puntate, “Belfagor o il fantasma del Louvre” ispirato a un romanzo scritto nel 1927 da Arthur Bernède e diretto da Claude Barma. Lo sceneggiato fu poi replicato varie volte, nel 1966, 1969, 1975 e 1988. La Francia era molto popolare in televisione allora. Un anno prima avevano cominciato ad andare in onda “Le Inchieste del Commissario Maigret” con Gino Cervi e la collaborazione alla sceneggiatura del maestro Camilleri. Tutto rigorosamente in bianco e nero. Belfagor fu una sferzata in faccia. Sugli allora pudibondi schermi democristiani approdarono tutti assieme: i Rosa Croce e le sette segrete, l’esoterismo, l’alchimia, l’antico Egitto, una donna adulta che ha una relazione con uno studentello, le droghe che rendono gli individui automi, i maestri del terrore e misteriose pietre radioattive, il tutto avvolto in una pericolosa nebbia sulfurea e diabolica (Belfagor è un famoso arcidiavolo). Ricordo la trama per i troppo giovani. Un guardiano del Museo parigino del Louvre viene assassinato nottetempo durante il suo giro di ronda. Il commissario Menardier indaga e per conto suo anche uno studente curioso, Andrea Bellegarde, che si fa prendere dal mistero che circonda il caso. Già, perché si parla di un misterioso fantasma che si aggirerebbe nelle sale dell’Antico Egitto, visto da diversi guardiani. Andrea, che ha conosciuto per caso Colette, la figlia del commissario, si fa rinchiudere nel Louvre assieme a lei che ha ereditato il fiuto da segugio dal padre e una notte il fantasma compare finalmente. E’ alto, completamente ricoperto da un mantello nero e indossa una maschera di cuoio. Nel corso delle indagini Andrea conosce Luciana, un’affascinante signora dell’alta borghesia che ha una relazione con un misterioso individuo, un certo Williams. Da lì la trama si sviluppa e si fa intricatissima. Compaiono una vecchia signora che forse sa troppe cose, una setta esoterica e una sorella gemella di Luciana. Chi è il fantasma? Chi manipola la sua volontà? Elemento fondamentale del successo di Belfagor era la sceneggiatura di Jacques Armand che mescolava tutti gli elementi della storia misteriosa senza far uso di effetti speciali o trucchi. Lo spavento nasceva da cose in fondo stupide ma tremendamente efficaci. Cosa immaginare di più spaventoso che svegliarsi nella propria camera con Belfagor che si nasconde dietro una tenda? Un altro elemento di fascinazione è la Parigi di Belfagor, che è ancora quella dei cafés, dei cancan e delle edicole, un luogo denso di grandi misteri ma in fondo familiare. In Belfagor domina la presenza magnetica di Juliette Greco, con la voce profonda, l’occhio egizio e l’allure di femme fatale. Assieme a lei il protagonista Yves Rénier, deciso a combattere il male ma manipolato e salvato da figure femminili di grande forza. Nei ruolo secondari René Dary, visto in “Non toccate il Grisbi”, un commissario Menardier con gli accenti di un Gabin, mentre François Chaumette conferma la sua grandezza di attore teatrale. Una curiosità, nei panni eburnei di Belfagor si celava un mimo, Isaac Alvarez.

 

4 giugno 1994 – 25 anni senza Massimo Troisi. Lo ricordiamo con il suo canto del cigno “Il postino”: la poesia che vince la morte…

 

4 giugno

 

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4 giugno 1994 – 25 anni senza Massimo Troisi. Lo ricordiamo con il suo canto del cigno “Il postino”: la poesia che vince la morte…

Ispirato al romanzo Il postino di Neruda (Ardiente paciencia), scritto dal cileno Antonio Skármeta e pubblicato nel 1986, Il postino è l’ultima opera diretta e interpretata da Massimo Troisi, scomparso il 4 giugno 1994 12 ore dopo aver terminato le riprese. Insieme a lui a dirigere il film c’era anche Michael Radford, regista britannico principalmente noto per aver diretto Orwell 1984 e Il mercante di Venezia.

Accarezzato dalle musiche di Luis Bacalov, ispirate a Nelle mie notti di Sergio EndrigoIl postino rappresenta quel trionfo internazionale che Troisi inseguiva da tempo. A onor del vero, il lungometraggio conquisterà numerose nomination, aggiudicandosi un BAFTA al miglior regista e alla migliore colonna sonora, il David di Donatello per il miglior montatore, un Nastro d’Argento per la miglior musica, e un Premio Oscar alla Miglior colonna sonora drammatica. Inoltre il New York Times ha inserito la pellicola nella lista dei 1000 migliori film di sempre.

Fu amore a prima vista. Stavamo sempre insieme. Vedendolo nel Postino ho pianto. Era come un volo senza ali, il suo corpo smagrito fluttuava sopra lo schermo, magicamente.

Roberto Benigni

Il film è ambientato nell’estate del 1952, in un’isola del sud Italia. Mario Ruoppolo (Massimo Troisi) si rifiuta di perseguire la tradizione familiare che lo vuole pescatore, così trova lavoro come portalettere. L’unico suo compito è quello di consegnare le lettere ad un personaggio illustre: il poeta Pablo Neruda (Philippe Noiret), in esilio in Italia a causa delle proprie idee politiche. Mario resterà sorpreso dalle numerose lettere che l’uomo riceve ogni giorno, così decide di acquistare un libro del poeta, per capire quale segreto si cela dietro la sua popolarità. Tra i due si stringerà un forte amicizia, non a caso sarà proprio Don Pablo (come lo chiama il protagonista) ad aiutare Mario a conquistare il cuore di Beatrice (Maria Grazia Cucinotta). Il giovane uscirà dal guscio della propria timidezza e grazie alla poesia e ai consigli di Neruda riuscirà a sposare, dopo aver superato numerosi ostacoli, la sua Beatrice.

Quando la spieghi la poesia diventa banale, meglio di ogni spiegazione è l’esperienza diretta delle emozioni che può svelare la poesia ad un animo predisposto a comprenderla.

Pablo Neruda

In questo lungometraggio il protagonista rievoca, con un fare nostalgico, due grandi temi della vita, o meglio misteri: la morte e la bellezza. Dietro al volto stanco e sofferente di Massimo Troisi, si nasconde un’interiorità esplosiva, ricca di vita, con una gran voglia di amare, di soffrire, di godere delle bellezze del mondo. I quotidiani incontri diventano l’occasione per il postino e il poeta, di narcotizzare i dolori della vita, l’insanabile ferita della solitudine. Maria Grazia Cucinotta non a caso, diventa la musa ispiratrice su cui costruire il desiderio di vivere, di migliorare la propria esistenza. Il postino è una semplice dichiarazione d’amore e di amicizia, ma allo stesso tempo un cantico immortale, capace di graffiare, vezzeggiare, i meandri e le ferite dell’anima.

L’attore napoletano ci lascerà subito dopo le riprese ed anche in questo caso non smetterà di stupire. Troisi non solo ci ha mostrato occhi nuovi con cui guardare la realtà, ma è stato capace anche di sconfiggere la morte, servendosi solo del leggero e sottile suono della poesia.

Tratto da: MIfacciodiCultura

Amarcord – Il 1 giugno 1980 – 39 anni fa – debuttava in Tv il telefilm che ha fatto sognare un’intera generazione: Love Boat

 

Love Boat

 

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Amarcord – Il 1 giugno 1980 – 39 anni fa – debuttava in Tv il telefilm che ha fatto sognare un’intera generazione: Love Boat

Cosa resterà degli anni ‘80” cantava Raf, una delle più belle, e nel contempo malinconiche, canzoni della mia infanzia, un vero e proprio inno di quell’epoca che ancora oggi amo ascoltare.

Vivendo in una famiglia teledipendente, degli anni ’80 mi è rimasto il ricordo dei tanti telefilm che trasmettevano in quel periodo, un ricordo che, sono sicura, anche molti di voi conservano ancora. Tra i preferiti di mia madre c’era sicuramente la serie televisiva americana “Love Boat”.

Love Boat è una serie televisiva statunitense ambientata su una nave da crociera, prodotta tra il 1977 e il 1987.

In Italia la serie è andata in onda dal 1º giugno 1980 su Canale 5. Nel 2010 è stata riproposta in versione restaurata sul canale Fox Retro della piattaforma satellitare Sky Italia e in chiaro su Rai 2.

La serie si svolge usualmente sulla nave Pacific Princess, in cui i passeggeri e l’equipaggio hanno avventure romantiche e divertenti. In alcune puntate furono usate altre navi: la gemella Island Princess, la Stella Solaris (per una crociera nel Mediterraneo), la Pearl of Scandinavia (per una crociera cinese), la Royal Viking Sky (per crociere in Europa) e la Royal Princess (per una crociera ai Caraibi). 

La particolarità della serie era costituita dal fatto che il cast dei passaggeri, che cambiava di puntata in puntata, era costituito da attori molto conosciuti, per la maggior parte negli Stati Uniti d’America.

I personaggi fissi della serie erano i membri dell’equipaggio, ossia il capitano Merrill Stubing, la direttrice di crociera Julie McCoy (sostituita nelle ultime stagioni da Judie McCoy), il barman Isaac Washington, la figlia del capitano Vicky Stubing (aggiuntasi successivamente), il dottore Adam Bricker e Burl Gopher Smith. Questi personaggi fissi avevano ruoli e caratteri ben definiti.

Un altro aspetto peculiare di Love Boat era il suo formato di scrittura: la puntata era divisa in segmenti differenti, e ogni segmento veniva scritto da un gruppo differente di autori, che lavorava sul proprio gruppo di attori e sulla propria storia.

Love Boat – Curiosità
  • La serie è basata sul film tv The Love Boat del 1976, a sua volta ispirato dal romanzo The Love Boats di Jeraldine Saunders, una vera direttrice di crociera.
    In seguito il film tv ebbe due sequels The Love Boat II e The New Love Boat, entrambi del 1977.
  • Nel 1990 venne prodotto un film per la TV, The Love Boat: A Valentine Voyage
  • Una seconda serie, Love Boat – The Next Wave venne prodotta tra il 1998 e il 1999. Il ruolo del protagonista venne affidato a Robert Urich come Capitano Jim Kennedy, un ufficiale della marina americana in pensione. Alcuni membri del cast della serie originale presero parte ad un episodio, nel quale viene rivelato che Julie Mc Coy e “Doc” Adam Bricker sono sempre stati segretamente innamorati, ma trattenuti dal fatto di essere, a quei tempi, colleghi, ed alla fine del quale diventano finalmente una coppia.

  • In Italia, il programma venne presentato con una sigla italiana, cantata da Little Tony. Questa sigla è diventata molto famosa ed entrò in hit parade.
  • La cantautrice australiana Kylie Minogue ha scritto ed interpretato un brano dedicato alla celebre serie televisiva, chiamato appunto Loveboat.
  • La Pacific Princess, ferma dall’Ottobre del 2008 anni presso il porto di Genova per delle riparazioni, sara’ venduta all’asta. Il broker delegato sara’ Andrea Fertonani della Ferrando & Massone di Genova.    Al termine di una lunga, tristissima trattativa, ciò che resta della “Love Boat” è stata venduta a una società turca, la Cemsan, specializzata in demolizioni, per poco più di due milioni e mezzo di euro.
  • E proprio questa, la demolizione, sarà con ogni probabilità la fine imminente della nave che, smessi i panni della star televisiva (nome d’arte, Love Boat, nome reale “Pacific Princess”) si era dedicata alle crociere in Sudamerica, prima di essere venduta a una società spagnola, con l’obiettivo di concludere in bellezza la sua carriera nel Mediterraneo. La nave, costruita nel 1971 in un cantiere navale dell’allora Germania Ovest, era prima di proprietà della statunitense Princess Cruises. Fu poi venduta nel 2001 ad una compagnia spagnola che, in seguito a dei problemi economici, se la vide pignorare. Dal 2008, era ormeggiata presso i cantieri navali San Giorgio del Porto a Genova in attesa di un restyling. Nel luglio del 2013 la nave fu trasferita in Turchia per essere dismessa e smantellata ma alcuni problemi tecnici, che hanno determinato la morte di due uomini e il ferimento di molti altri, hanno ritardato tale operazione ed ora la nave risulta sotto sequestro.

Nel corso degli anni la “Love Boat” ha trasportato centinaia di passeggeri lungo la costa pacifica del Messico, in crociere piuttosto brevi. Per gli standard di oggi è una nave piuttosto piccola: è lunga 167 metri e pesa circa 20mila tonnellate – le attuali navi da crociera pesano tra le 120mila e le 250mila tonnellate – e, come ha detto anche Mike Driscoll, direttore della pubblicazione di settore Cruise Weeknon c’era niente da fare a bordo, se non bersi qualche birra per far passare il tempo. In pratica la demolizione della nave è inevitabile, scrive NBC, anche perché non c’è modo di renderla competitiva nel mercato di oggi.

Un Cult: Frankenstein Junior – A.B. Norme…

 

Frankenstein Junior

 

 

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Un Cult: Frankenstein Junior – A.B. Norme…

AB-Norme

Tutto ha inizio quando Igor (Marty Feldman), impegnato nel procurare un cervello umano al Dr. Frederick Frankenstein da inserire nella Creatura, rompe accidentalmente il barattolo selezionato, portando al dottore un altro cervello, quello di un tale “AB-Norme”…
La Creatura al suo risveglio dà però segni di violenza e follia, e ciò porterà inevitabilmente al celebre scambio di battute tra Igor (o Aigor, che dir si voglia) e Frankenstein qui di seguito.

Frederick: Aigor, posso parlarti un momento?
Igor: Certamente!
Frederick: Siediti, vuoi?
Igor: Grazie. [si siede a terra]
Frederick: No, no! Più su!
Igor: Oh! Grazie. [si siede su uno sgabello]
Frederich: Dimmi, quel cervello che mi hai portato era di Hans Delbrück?
Igor: No.
Frederick: Ah! Be’… Ehm, ti dispiacerebbe dirmi di chi era il cervello che gli ho messo dentro?
Igor: Non si arrabbierà, eh?
Frederick: No, io non mi arrabbierò!
Igor: A.B. qualcosa…
Frederich: “A.B. qualcosa”? “A.B.” chi?
Igor: A.B… Norme.
Frederick: “A.B. Norme”?
Igor: Sono quasi sicuro che era quello il nome.
Frederick: Vorresti dire che io ho messo un cervello “abnorme”… in un energumeno lungo due metri e venti… e largo come un armadio a due ante?! [comincia ad urlare] Canaglia! [inizia a strangolarlo come precedentemente aveva fatto il mostro con lui] È questo che vorresti dirmi?!

Il video

In lingua originale:

Buon compleanno Gaetano – Il 25 maggio del ’53 nasceva l’indimenticabile Gaetano Scirea. Oggi avrebbe compiuto 66 anni, se…

 

Gaetano Scirea

 

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Buon compleanno Gaetano – Il 25 maggio del ’53 nasceva l’indimenticabile Gaetano Scirea. Oggi avrebbe compiuto 66 anni, se…

 

La Domenica Sportiva del 3 settembre 1989 tutta incentrata sulla seconda giornata di Serie A e sulla sorprendente vittoria della Lazio sul terreno del Milan viene interrotta bruscamente mentre il rullo che manda in onda i servizi sui match è già partito. Un affranto Sandro Ciotti spiega la ragione. Gaetano Scirea, il libero campione del mondo con maglia azzurra nella magica notte di Madrid è morto in un incidente stradale, in Polonia, dopo esser andato a visionare in qualità di allenatore in seconda dei bianconeri il Górnik Zabrze, innocua squadra della Slesia che verrà sconfitta 1-0 in Polonia e 4-2 a Torino nel primo turno di Coppa UEFA 1989/90.

Marco Tardelli in studio alla Domenica Sportiva, compagno di tante avventure con Scirea, si copre il volto con le mani…

Nato in provincia di Milano nel 1953, Scirea disputa due stagioni in prima squadra con l’Atalanta, esordendo in A a solo 19 anni in un Cagliari-Atalanta 0-0. Scelto per sostituire Salvadore, passa nella stagione 1974/75 alla corte di Madama a cui legherà il nome fino al giorno della morte e oltre. Quattordici stagioni, 377 presenze e 24 gol in campionato, l’ultimo dei quali da subentrante al 90′ in un Sampdoria-Juventus dell’aprile 1988 che vale ai bianconeri allenati da Marchesi un immeritato 2-2. Sette scudetti, solo uno in meno di Furino cui succede come capitano. E poi due Coppe Italia e un esemplare di ciascuna delle cinque coppe internazionali.
Anche la nazionale arriva assai presto, il 30 dicembre 1975 nell’amichevole Italia-Grecia. Presenza inamovibile nella nazionale di Bearzot colleziona in tutto 78 presenze, 10 delle quali da capitano, e soprattutto il titolo mondiale di Spagna ’82.

Di ruolo libero, ma con i piedi buoni, Gaetano Scirea chiude la carriera con l’invidiabile record di non aver mai ricevuto un’espulsione in carriera, di solito i centravanti avversari escono dal campo stringendogli la mano quasi in segno di riverenza, i tifosi avversari quelle rare volte che esce dal campo in anticipo invece le mani gliele battono per ammirazione, mai fuori tempo, mai scomposto, elegante come un Rolex in mezzo ad un’esposizione di Swatch.

Raccontarne le gesta non è semplice, anche perché, come disse Sandro Ciotti quel tremendo 3 settembre ai microfoni della Domenica Sportiva, è inutile spendere parole per illustrare un uomo che si è illustrato da solo per tanti anni sui campi del mondo, che ha conquistato un titolo mondiale con pieno merito, che era un campione non soltanto di sport ma soprattutto di civiltà.

Ce lo porta via un incidente stradale in Polonia.

E tutta l’Italia allora lo pianse, ora lo ricorda…

 

 

“La libertà è un lusso di pochi” – Il 13 maggio di due anni fa ci lasciava il grande Oliviero Beha. Un uomo libero…

 

Oliviero Beha

 

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“La libertà è un lusso di pochi” – Il 13 maggio di due anni fa ci lasciava il grande Oliviero Beha. Un uomo libero…

La “libertà è un lusso di pochi” ripeteva spesso alla figlia…

Oliviero Beha stava antipatico a molti, quasi a tutti. Soprattutto ai giornalisti. Solo dopo ai politici e al potere – che lo rispettavano e lo temevano – ma prima ai giornalisti: per la sua intelligenza, irriverenza a tratti arrogante, la sua sferzante capacità di mettere in scacco semplicemente combinando insieme “le tessere del mosaico”.

Con Oliviero Beha il 13 maggio del 2017 abbiamo perso un paladino della libertà di parola.

Da sempre in guerra per denunciare il deserto di valori e la mafiosità della classe dirigente e degli intellettuali troppo spesso al seguito del potente di turno, non è mai stato tenero con nessuno. E per questo ha pagato. Ha pagato duramente questa sua libertà di parola.

Autore di trasmissioni di successo, è stato mal sopportato dalla Rai e considerato sempre molto scomodo da tutti i direttori di giornali con cui ha lavorato perché diceva quello che pensava e aveva il coraggio di mettere davanti a tutti le verità più indicibili, come quella della combina da lui scoperta e documentata, della partita tra Italia e Camerun ai Mondiali del 1982. Non volle tenere la bocca chiusa e questo gli valse il posto a la Repubblica.

Ma, come ha spesso ricordato la figlia Germana “Papà non aveva paura e per questo era libero”

Mia Martini, ventiquattro anni dopo quel tragico 12 maggio 1995. La cattiveria e le maldicenze la uccisero, ma il suo talento è immortale e Lei resterà per sempre un mito.

 

Mia Martini

 

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Mia Martini, ventiquattro anni dopo quel tragico 12 maggio 1995. La cattiveria e le maldicenze la uccisero, ma il suo talento è immortale e Lei resterà per sempre un mito.

12 maggio 1995: Mimì muore nella sua casa. È sola, in testa ha le cuffie del walkman. “Era serena”, scriveranno. Aveva vissuto sui palchi, si era isolata, tra estremi, senza compromessi. Vittima delle malelingue, sostenuta dagli amici come Renato Zero e dalla sorella Loredana, stimata dai colleghi Fossati, Mina, De André. Storia di una voce che l’Italia non ha mai smesso di  amare.

Nessuno risponde. Il campanello non smette di suonare, ma nessuno risponde. Nando Sepe, professione manager, tiene il dito incollato sul citofono, ma nulla. Eppure la Citroën verde di Mimì è parcheggiata lì fuori, all’esterno di quella palazzina di due piani in via Liguria 2, a Cardano del Campo, Varese. E in quella mattina del 14 maggio di venti anni fa, Sepe chiama la padrona di casa, si fa dare le chiavi di riserva. Ma la porta è chiusa dall’interno. Quando poche ore dopo i pompieri la sfondano, Mia Martini è stesa sul letto, le cuffie del walkman sulle orecchie. “L’espressione serena”, diranno. È morta da quarantotto ore. La notizia sbriciola i palinsesti televisivi. Renato Zero chiama Loredana Berté, la sorella di Mimì: “Spegni tutto, sto arrivando”. I cronisti appostati sotto casa della Bertè ricordano ancora le urla. E, di ricordo in ricordo, dopo vent’anni nessuno ha dimenticato quella voce magnetica, dolce, scura, emozionante e quelle melodie che Mia Martini ha regalato alla musica italiana.

“Ci sarebbero pure ‘sti due amici”. Funzionava così: era la frase classica che completava una strategia infallibile. Roma, 1968, Loredana Berté in minigonna a chiedere l’autostop. E poi Mimì, con l’immancabile bombetta, quasi uscita da un film di Fellini, che con Renato sbucava sulla strada per prendere al volo il passaggio conquistato. Inseparabili, i tre. Cercavano di mettere su un gruppo musicale. Per la Martini, ventunenne, era già la fase due della carriera: aveva iniziato nei primi anni Sessanta. Un viaggio in treno da Ancona verso Milano, Etta James nel cuore, Carlo Alberto Rossi che le fa incidere i primi singoli. Poi i concerti sulla riviera romagnola, qualcuno con Pupi Avati alla batteria. Qualche piccolo successo, ma la carriera da ragazza ye-ye non decolla. Mimì sta per lasciare, inizia a lavorare al sindacato dei musicisti, ma la passione per la musica è troppo forte. Quella Roma le restituirà la voglia di continuare. Diventa amica di Gabriella Ferri. Sperimenta con piccoli gruppi jazz. Sta per farcela. Poi in Sardegna, nel 1969, l’arresto per possesso di hashish e la condanna a quattro mesi di carcere. Le cambieranno la vita.

Una dinamica maledetta di ombre e di luce, di pace e di dannazione, di sorrisi e di lacrime. La vita e la carriera di Mia Martini si sono sempre mosse tra gli estremi, saltando le vie di mezzo, i compromessi, la sciatteria, la mediocrità. Dopo l’arresto Mimì torna a Roma, sbarca a Civitavecchia in una giornata di pioggia. Entra in un bar, prende un cappuccino e inizia a berlo sotto il diluvio. E sorridendo decide di non rinunciare al suo sogno. Sceglie il jazz. Ritorna a essere “Domenica” (il suo nome completo è Domenica Rita Adriana Berté) e con il trio di Totò Torquati conquista il pubblico del Titan di via della Meloria, del Piper di via Tagliamento. L’occasione della vita le capita nel febbraio del 1971. Deve correre al Piper di Viareggio, c’è da improvvisare una serata. Il pubblico resta a ballare fino alle quattro di mattina. Alberigo Crocetta, proprietario del Piper e mentore di Patty Pravo, si offre di produrla. Mimì rifiuta una prima volta. Poi cede. “Dobbiamo cambiare nome però. Ci vuole un nome italiano riconoscibile nel mondo. Ho pensato a Martini”, dice Crocetta. “Va bene: però mi chiamerò Mia, come Mia Farrow”. La storia ha inizio.

Gli anni Settanta saranno i suoi anni. Inizia a collaborare in modo stabile con Baldan Bembo, Bruno Lauzi, Claudio Baglioni. Con Franco Califano scatta l’alchimia musicale. C’è questa canzone, Minuetto, ma nessuno riesce a scrivere le parole giuste per Mia. Lei e Califano escono una sera a cena. Parlano tanto. E “il Califfo” ritorna il giorno dopo con un testo che sembra un pezzo pregiato di sartoria artigianale: perfetto per la Martini. “E vieni a casa mia, quando vuoi, nelle notti più che mai / dormi qui, te ne vai, sono sempre fatti tuoi”. Nell’Italia dove maistream fa rima con piccolo-borghese le parole, il volto, l’immagine della Martini sono come un metallo pregiato, come un diamante: l’autenticità professata come valore assoluto. La sensibilità come guida. Talmente forte che le piccole, idiote e meschine armi che lo show business inventa per fermare la Martini diventano tanti colpi. Le dicerie sul suo “portar jella” iniziano allora. Non si fermeranno mai. Mimì prima ci sorride. Poi ci sta male. Crisi cicliche. Sempre più pesanti.

“Una monomaniaca della musica”: Mimì secondo Ivano Fossati, che con lei ha condiviso una pezzo importante di vita. A lei regalò “E non finisce il cielo”, una delle canzoni d’amore più intense della musica pop italiana, con cui Mia Martini partecipò per la prima volta al Festival di Sanremo nel 1982 ottenendo il Premio della Critica, istituito in quell’anno appositamente per lei e a lei intitolato dopo la sua morte. Ironia della sorte, il premio attribuito non fu mai consegnato alla cantante e venne ritirato, postumo, dalla sorella Loredana Berté durante la serata finale del Festival di Sanremo 2008.

Fino alla decisione di ritirarsi dalle scene, nei primi anni Ottanta. Non bastano la stima, l’affetto, l’amore che le manifestano Charles Aznavour, Ivano Fossati, Pino Daniele, Paolo Conte, Fabrizio De Andrè. Non basta il Premio della Critica istituito apposta per lei al Festival di Sanremo nel 1982, quando ipnotizza tutti con E non finisce mica il cielo. Non basta la sfrontatezza di Loredana con cui collabora per Non sono una signora. Non basta neanche la venerazione che tanti giovani talenti, da Ramazzotti in giù – per il cantautore romano inciderà i cori del ritornello di Terra promessa – le manifestano. Mia decide di darci un taglio. Si rifugia da Leda, la sorella più grande. Cerca una vita ordinaria. È il 1985. Sparisce per quattro anni, si trasferisce a Calvi, in Umbria, solo piccoli concerti di provincia, pochissimi. Poi una sera del dicembre del 1988 un incidente. La sua macchina scivola su una lastra di ghiaccio e la Martini ne esce miracolosamente illesa. Tornata a casa, prima il panico, le lacrime. Poi una risata liberatoria. Decide di ritornare. Di riprendersi il suo mondo.

“Sai, la gente è strana, prima si odia e poi si ama, cambia idea improvvisamente, come fosse niente, sai la gente è matta, forse è troppo insoddisfatta, segue il mondo ciecamente, quando la moda cambia, lei pure cambia continuamente e scioccamente”: un testo rimasto nel cassetto. Dietro questa “lettera” che sembra una dichiarazione d’amore, gli autori Bruno Lauzi e Maurizio Fabrizio, nel 1972, anticipavano i tempi contestando la cieca frenesia di una società dedica al consumo. Depositato soltanto nel 1979, rimase inedito a lungo, fino a quando nel 1989 arrivò a Mimì, che la presentò al Festival di Sanremo di quell’anno. Ancora un Premio della Critica, avrebbe meritato di vincere.

1989, 21 febbraio, Sanremo. Per capire è necessario il contesto. È necessario inscrivere quel piccolo miracolo in un prima e in un dopo. Il prima è rappresentato dai “figli di papà”: Rosita Celentano, Paola Dominguin, Danny Quinn e Gianmarco Tognazzi, che presentano il festival in puro stile anni Ottanta. Dinoccolati e cotonati. Dopo c’è Jovanotti, cappello da cowboy, aria casinista e “No Vasco, no Vasco, io non ci casco”. In mezzo, un angelo. Mia Martini entra sul palco sorridendo, attacca Almeno tu nell’universo. Al ritornello alza i pugni al cielo, accompagna presenti e telespettatori su una melodia magnifica, su parole struggenti. Ed è una bomba, pelle d’oca collettiva. Rivince il premio della critica. Ritorna dal suo pubblico. Ricomincia a vivere e respirare. Verranno La nevicata del ’56Gli uomini non cambiano. Verrà il successo, di nuovo.

“Piccere’, canta”. Roberto Murolo le sorride nella sua casa napoletana. I due, è il 1992, stanno provando una canzone di Enzo Gragnaniello, Cu ‘mme. Quattro minuti e mezzo di magia, uno spazio in cui si dispongono tradizione, rabbia, commozione, rimpianto, voglia di vivere, paure e desideri. A quarantacinque anni Mia Martini è ormai patrimonio indiscusso della canzone italiana. Nel 1993, dopo un decennio di reciproci silenzi, corre da Loredana ricoverata in ospedale. Baci e carezze e un progetto: ritornare insieme a Sanremo. Lo faranno l’anno successivo. Poi quello che sarà il suo testamento. Un disco di cover registrato dal vivo – prodotto dal suo amico Shel Shapiro – dei “suoi” cantautori: La musica che mi gira intorno. Ancora Fossati, Mimì sarà di De Gregori, Fiume di Sand Creek di De Andrè. In Dillo alla luna di Vasco Rossi l’interpretazione più intensa. Tutto sembra andare. Tutto s’interromperà il 12 maggio. Poi i funerali, vagonate di parole. Le polemiche postume. Il ruolo del padre nella sua vita e nella sua morte. Le indagini, l’autopsia, i medici che mettono nero su bianco le cause del decesso: overdose di cocaina. Patina. Che nulla toglie alla voce di Mimì. “Una monomaniaca della musica”, secondo Ivano Fossati che con lei ha condiviso una pezzo importante di vita. Mina: “Per fortuna il suo talento dolente e intenso è rimasto qui, nei suoi dischi. Io ho anche fatto un suo pezzo, Almeno tu nell’universo, ma meglio la sua versione”. E un giorno Fabrizio De André, forse, ha sintetizzato il sentire comune, definendosi “innamorato totale della sua arte e della sua umanità”. Lo siamo ancora, vent’anni dopo: totalmente innamorati di Mimì.

 

tratto da:

http://www.repubblica.it/spettacoli/musica/2015/05/12/news/mia_martini-114019951/#gallery-slider=113880139

Il 26 aprile dell’anno scorso ci lasciava un “capitalista etico” – In ricordo di Pietro Marzotto, se la nostra classe padronale avesse preso esempio da lui e dal padre vivremmo in un Paese straordinario

 

Pietro Marzotto

 

 

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Il 26 aprile dell’anno scorso ci lasciava un “capitalista etico” – In ricordo di Pietro Marzotto, se la nostra classe padronale avesse preso esempio da lui e dal padre vivremmo in un Paese straordinario

 

In ricordo di Pietro Marzotto, capitalista etico

Se la nostra classe padronale avesse preso esempio da lui e da suo padre Gaetano vivremmo in un paese tanto straordinario quanto invece orrendo e ingiusto purtroppo ora ci appare

David Grieco – 26 aprile 2018

Mi preparavo da tempo, ma non è servito a niente. La morte di Pietro Marzotto mi addolora profondamente. Mi addolora come amico, come parente (è il nonno adorato di mia figlia Viola, alla quale ha dispensato tutta la tenerezza che aveva lesinato ai figli a causa del troppo lavoro), come comunista (non c’è stato capitalista più etico di lui) e soprattutto come italiano. Perché se la nostra classe padronale avesse preso esempio da lui e da suo padre Gaetano noi vivremmo oggi in un paese tanto straordinario quanto invece orrendo e ingiusto purtroppo ora ci appare.
Più di dieci anni fa, quando sua figlia Marina ed io andammo per la prima volta, quasi in incognito, a Valdagno, non credevo ai miei occhi.
In quella piccola valle nascosta tra le montagne e un tempo abbandonata da dio, trovai le case degli operai, le scuole per i figli degli operai, l’ospedale per gli operai, lo spaccio alimentare a chilometro zero per gli operai, le case di riposo per gli anziani, e le foto delle colonie estive, a Jesolo, per i figli degli operai. Per non parlare dello stadio interamente coperto, il primo in Italia, “perché non è giusto che gli operai debbano prendere la pioggia mentre il padrone sta seduto al riparo in tribuna”, e del sontuoso Teatro Rivoli, quello del Premio Marzotto, dove è passato persino il surrealista Duchamp, “perché la cultura è importante, molto importante”.
Questa insolita considerazione per gli operai e i figli degli operai veniva da suo padre Gaetano Marzotto, che all’indomani della fine della guerra disse con straordinaria semplicità che sarebbe scoppiata un’altra guerra, chiamata lotta di classe. Ma anziché predisporre misure ricattatorie e repressive nei confronti degli operai, il padre di Pietro Marzotto spiegò che la lotta di classe si sconfigge soltanto facendo vivere nel modo migliore possibile gli operai e le loro famiglie, perché gli operai sono il vero patrimonio degli imprenditori, e perché non è giusto che il padrone intaschi per se’ tutti i profitti e se ne infischi di come vivono loro.
Davanti a una piccola società creata e organizzata in modo mirabolante, ricordo che dissi a Marina “ma questo è il socialismo reale, è l’Unione Sovietica riuscita bene”. Lei invece, per tutta risposta, scoppiò a piangere. Perché tutto questo apparteneva al passato. Resisteva e resiste ancora, ma era stato fermato per sempre dalla forza distruttiva del neocapitalismo arrembante.
Pietro Marzotto era il settimo figlio di Gaetano Marzotto. Sua madre morì poco dopo la sua nascita e lui non la vide mai.
Come spesso accade, questo bambino che non aveva conosciuto sua madre pensò di essere in qualche modo responsabile della sua morte. Si dedicò prestissimo all’azienda di famiglia, cominciò come semplice operaio, svolse per tre anni le più umili mansioni in fabbrica senza nemmeno percepire i contributi, e riuscì in seguito ad espandere la Marzotto in tutto il mondo investendo tutto ciò che la famiglia possedeva per acquistare i più grandi marchi dell’abbigliamento (da Hugo Boss a Valentino, a Lacoste) e superare così una grave crisi provocata ad arte dal ricatto della corruzione politica che lo aveva letteralmente messo in ginocchio.
Quasi senza accorgersene, Pietro aveva creato il più grande polo tessile del mondo. E quando si presentarono gli avvoltoi della finanza per indurlo a fare i soldi con i soldi e a moltiplicare in modo spregiudicato i suoi profitti con gli stratagemmi azionari, Pietro li mise alla porta spiegando loro che aveva creato quello che aveva creato soltanto per mantenere in vita le fabbriche, gli operai e le loro famiglie.
Ma la maledetta finanza riuscì a rientrare dalla finestra con la forza corruttrice del denaro e Pietro Marzotto venne “cacciato”, come rivelò lui stesso al Corriere della Sera nel 2012.
“Sono un uomo poco incline al compromesso, non sono mai stato molto amato”, disse un giorno. Per questo stesso motivo, io l’ho amato molto.
Nel Natale del 2016, Pietro Marzotto sapeva già di non aver più molto da vivere. Radunò figli e nipoti e disse loro che era venuto il momento di consegnargli, in vita, tutto quello che possedeva con allegata una sola, precisa raccomandazione: “Sarete molto meno ricchi di tanti vostri parenti, ma ricordatevi che i soldi non sono importanti. È importante ciò che si crea, è importante il lavoro. Investite sempre i soldi nel lavoro, non cercate di speculare, la speculazione è nemica del lavoro”.
Pietro Marzotto ha sempre avuto uno spiccato, quasi infantile senso di giustizia e ha combattuto a viso aperto tante battaglie contro i cosiddetti “industriali di Stato”. Gli hanno spesso offerto la presidenza di Confindustria, ma lui rispondeva dicendo “sono un industriale, non sono un confindustriale. Un industriale deve stare in fabbrica sei giorni su sette, un confindustriale fa l’esatto contrario, sta sei giorni su sette in Confindustria”.
Pietro è stato l’unico che ha sempre detto quello che pensava di Berlusconi. Più che detto, fatto. Restituì l’onorificenza di Cavaliere del Lavoro perché pretendeva la radiazione di Berlusconi che ne infangava il prestigio. Alla fine, Berlusconi fu convinto a rinunciarvi (non avrebbero mai avuto il coraggio di cacciarlo via) ma non ha mai smesso di farsi chiamare Cavaliere.
Nel Natale del 2013, parlammo di Matteo Renzi. Lui disse che bisognava per forza fidarsi di Renzi perché non c’erano alternative. Gli risposi che era difficile fidarsi di Renzi. Lui mi guardò come si guarda un vecchio comunista impenitente. Ma nel dicembre scorso a Vicenza, nella sua ultima apparizione pubblica, disse senza mezze misure che Renzi lo aveva gravemente deluso, e quando subito dopo gli domandarono di Berlusconi, rispose che in Berlusconi non aveva mai creduto.
Marina Marzotto mi ha raccontato che ieri un signore ha chiesto di poter entrare nella stanza dove Pietro si trovava ormai in coma irreversibile. Lei lo ha lasciato entrare e lui, piangendo, gli ha spiegato di essere un piccolo imprenditore che aveva fallito ed era stato salvato in extremis da Pietro. Ma non ho idea di quanti possano essere i piccoli imprenditori veneti che furono salvati prima da Gaetano Marzotto e poi da Pietro Marzotto. Tanti. Tanti e poi tanti. Scommetto che li vedremo tutti, il 2 maggio, al suo funerale a Valdagno.
Voglio chiudere con un particolare che mi ha sempre affascinato e di cui Marina mi ha raccontato il retroscena soltanto 24 ore fa.
Pietro Marzotto, per tutta la vita, ha portato in viaggio con se’ un cuscino. Diceva che i cuscini degli alberghi erano scomodi. Ho fantasticato per anni su questo dettaglio e io questo cuscino l’ho messo sempre in qualche modo in relazione con la mancanza d’affetto che ha patito fin dalla nascita per la perdita di sua madre. Ma non l’ho mai visto quel cuscino. Ieri Marina mi ha rivelato che quel cuscino era il cuscino della sua culla.
Per trattenere le lacrime, mi faccio come sempre aiutare dal cinema. Quel cuscino era esattamente il suo Rosebud, cioè l’oggetto infantile e misterioso che ossessiona il Cittadino Kane di Orson Welles fino alla morte e fino alla fine del film. Prima di morire, Welles affermò che l’idea di Rosebud, dopo tanti anni, gli sembrava un inutile orpello del film. Invece era forse la sua intuizione più straordinaria.
Grazie Pietro, anche per questo.

fonte: https://www.globalist.it/economy/articolo/2018/04/26/in-ricordo-di-pietro-marzotto-capitalista-etico-2023340.html

Amarcord – 50 anni fa, nell’aprile del 1969, presentata la mitica Fiat 128

 

Fiat 128

 

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Amarcord – 50 anni fa, nell’aprile del 1969, presentata la mitica Fiat 128

Nata dallo sviluppo del progetto denominato X1/1, la Fiat 128 è stata una pietra miliare della storia automobilistica.

Destinata a sostituire la gloriosa 1100, è infatti la prima Fiat ad adottare il gruppo motopropulsore trasversale e la trazione sulle ruote anteriori, ovvero lo schema già sperimentato alcuni anni prima sulla Autobianchi Primula e poi universalmente adottato dalle vetture piccole e medie europee negli anni a venire.

La Fiat 128 viene presentata nell’aprile del 1969 con le due varianti di carrozzeria berlina a 2 e 4 porte e il motore di 1116 centimetri cubici e 55 cavalli di potenza massima. Anche il motore è di impostazione moderna, con l’albero a camme in testa e la distribuzione a cinghia, caratteristiche queste che fino ad allora avevano contraddistinto i motori più sportivi. Ad ottobre dello stesso anno alla berlina viene affiancata una versione familiare a 2 porte più il portellone posteriore.

La prima trazione anteriore del Gruppo FIAT, progettata dall’Ingegner Dante Giacosa, fu l’Autobianchi Primula negli Anni Sessanta. Per la FIAT si trattava di un modello “sperimentale”, giacché fino a quel momento la trazione anteriore era stata bandita dalla Casa torinese dal fondatore, il Senatore Agnelli, dopo l’incendio accidentale di un prototipo che l’adottava negli Anni Trenta. Tuttavia, grazie al successo ottenuto dalla concorrenza (le francesi Citroen e Panhard, la tedesca Auto Union-DKW, l’inglese BMC, non senza dimenticare la connazionale Lancia), a Torino la dirigenza aveva cominciato a ricredersi e aveva deciso di collaudare quella formula sul marchio Autobianchi, recentemente divenuto di totale proprietà FIAT. Così, se le cose fossero andate male (le resistenze, fra i più conservatori della dirigenza e dell’ufficio tecnico, erano infatti ancora molte), sarebbe stato se non altro il marchio Autobianchi a rovinarsi la faccia, anziché la FIAT. Il successo della Primula, invece, fu lusinghiero, ben maggiore rispetto alle aspettative, soprattutto all’estero. A quel punto alla FIAT cominciarono a darsi più coraggio sulla trazione anteriore e certi scetticismi vennero meno.

Nel 1969, infatti, debuttò quella che era la prima trazione anteriore con marchio FIAT: la 128. Rispetto all’Autobianchi Primula, era tecnicamente ben più moderna: infatti oltre al motore anteriore e disposto in modo trasversale, in modo da contenere i costi e dare maggior spazio all’abitacolo, c’erano le sospensioni a ruote indipendenti rispetto al ponte rigido e alle balestre. Questo schema, a quel tempo più unico che raro, è oggi dominante in tutto il settore automobilistico, con la trazione posteriore ormai confinata solo all’alto di gamma, oltretutto solo di alcune marche: dalle utilitarie del segmento A fino alle berline del segmento D, infatti, la trazione anteriore è ormai fortemente preponderante.

Al suo apparire la 128 fece invecchiare di colpo il modello che andava a sostituire, la tradizionale 1100 con motore anteriore e trazione posteriore e sospensioni posteriori a balestra. Rispetto a quest’ultima aveva dimensioni grossomodo analoghe (era infatti lunga 3,85 metri, larga 1,59 e alta 1,34) ma, grazie alla disposizione del motore in senso trasversale, con cambio affiancato, e alla mancanza del tunnel della trasmissione il suo abitacolo era assai più spazioso e confortevole, e anche il bagagliaio permetteva un maggior carico. Il suo motore, un monoalbero di 1116 cc da 55 CV DIN (o 60 CV SAE), era inoltre ben più brillante del vecchio aste e bilancieri della 1100, il cui basamento risaliva alla storica 508 Balilla, e pure in fatto di tenuta di strada e stabilità non c’erano paragoni. Un’altra chicca, destinata a far fortuna su molte FIAT dei decenni a venire, era la ruota di scorta collocata nel vano motore anziché nel baule, cosa che permetteva di guadagnare ulteriore spazio per i bagagli oltre a poter sostituire la ruota in caso di foratura senza dover svuotare il baule stesso, qualora esso fosse stato pieno.

Anche il prezzo di vendita, in quel 1969, sembrava molto competitivo: 875mila lire per la due porte e 930mila per la quattro porte. Sempre in quel 1969 debuttò anche la versione familiare e, nel 1971, la Rally, dotata dello stesso motore portato a 1290 cc per una potenza di 67 CV DIN e destinata a guadagnarsi una buona reputazione in campo rallistico. Sempre nel 1971 arrivò anche la versione Coupé, con carrozzeria a due porte ed un assetto più rigido e sportivo, sebbene agli occhi di molti il suo passo accorciato rispetto alla berlina ne turbasse un po’ la piacevolezza della linea.

In Italia la produzione della 128 continuò fino al 1985 per un totale di oltre tre milioni di esemplari, anche se già dal 1978 era apparsa la sua erede, la Ritmo, un modello dall’impostazione e dalla linea completamente diverse ed anch’esso beneficiato da un grande successo. Già nel 1976, comunque, la 128 aveva conosciuto un profondo rifacimento estetico con l’arrivo della seconda serie, che l’aveva dotata di paraurti in plastica in luogo dei precedenti in acciaio e di fari quadrati, più moderni ed in linea coi canoni degli Anni Settanta. La seconda serie, molto migliore rispetto alla prima anche per quanto riguardava la protezione contro la corrosione, risultò però proprio per queste modifiche estetiche anche meno gradevole e simpatica della serie precedente.

Nel frattempo, però, anche in Germania la formula tecnica lanciata dalla 128 aveva destato interesse. Alla Volkswagen, dove urgeva trovare un’erede per la vecchia gamma basata sul Maggiolino e sulle sue derivate, smontarono infatti una 128, ritenuta dai tecnici della Casa di Wolfsburg come la migliore auto del momento, per studiarla in tutti i suoi dettagli. Quindi affidarono il design della nuova gamma a Giorgetto Giugiaro, e vennero fuori le moderne e piacevoli Polo, Golf, Scirocco e Passat. Da quelle auto iniziò la veloce e robusta ripresa del colosso tedesco, che in precedenza aveva faticato a trovare valide sostitute per la sua ormai attempata produzione, oltretutto buttando molto spesso denaro in modelli e progetti di scarso successo (dalla K70, progetto ripreso dalla NSU, alle 1700 che erano lontane discendenti ed evoluzioni del Maggiolone). Il resto della concorrenza stessa non tardò molto a parametrarsi a questi nuovi standard tecnici: francesi, tedeschi e giapponesi che fossero.

Dopo la sua uscita di scena dal mercato italiano, la 128 continuò con successo la sua carriera all’estero dove già si era affermata negli Anni Settanta: in Brasile, prodotta dalla FIAT locale, ma soprattutto in Jugoslavia dove la Zastava di Kragujevac, legata alla Casa di Torino, ne elaborò una versione derivata, col portellone posteriore, nota come Skala. Quest’ultima venne prodotta anche in Egitto, dove avveniva la produzione su licenza dei modelli della Zastava. In entrambi i casi le 128 Skala restarono sulla breccia fino agli Anni Duemila ed oltre.

Quanto sono comodi i porti chiusi, la gente muore lontana e non se ne sentono le urla – Un ricordo: quando chiusero tutti i porti a 900 profughi ebrei, il loro destino fu la shoah, ma per la Storia i colpevoli furono solo i nazisti…

 

porti chiusi

 

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Quanto sono comodi i porti chiusi, la gente muore lontana e non se ne sentono le urla – Un ricordo: quando chiusero tutti i porti a 900 profughi ebrei, il loro destino fu la shoah, ma per la Storia i colpevoli furono solo i nazisti…

Del genocidio del popolo ebraico per mano della Germania nazista ormai si sa quasi tutto. Storicamente siamo venuti a conoscenza delle cause, delle modalità, delle responsabilità e degli effetti. Altra cosa sono le storie delle singole persone che hanno avuto la vita sconvolta dall’odio nazi-fascista. Non tutti sanno, per esempio, che molti ebrei perseguitati dalle politiche antisemite del Terzo Reich provarono a salvarsi la vita emigrando verso le Americhe, la Palestina e nell’Estremo Oriente. 

Durante i primi sei anni della dittatura di Adolf Hitler, dal 1933 fino allo scoppio della seconda guerra mondiale nel 1939, contro gli ebrei vengono emanati più di 400 tra decreti e regolamenti che limitano i loro diritti sotto tutti gli aspetti, sia in campo pubblico che privato. Nel 1937 e nel 1938 le autorità tedesche inaspriscono la persecuzione “legale” degli ebrei tedeschi. Subito dopo la cosiddetta “Notte dei Cristalli”, avvenuta tra il 9 e il 10 novembre 1938, le leggi naziste proibiscono agli ebrei l’accesso alle scuole pubbliche, alle università, ai cinema, ai teatri e agli impianti sportivi. In molte città gli ebrei non possono accedere a determinate zone definite “ariane” e il governo impone che si identifichino, per separarli a tutti gli effetti dal resto della popolazione: a partire dal 1939 tutti gli ebrei che hanno nomi non di tradizione ebraica devono aggiungere “Israel” o “Sara” al loro nome di battesimo e sui loro passaporti e carte di identità viene stampata la G di giudeo.

Per sottrarsi a misure sempre più oppressive, a partire dall’inizio del 1939, molti ebrei tedeschi tentano di fuggire dal Paese. Il 13 maggio del 1939 il transatlantico St. Louis, capitanato dal comandante Gustav Schröder, salpa da Amburgo con a bordo 937 profughi, in gran parte ebrei, ma anche con diversi oppositori politici. Il comandante scrive una nota nel suo diario: “Un certo nervosismo serpeggia tra i passeggeri. Nonostante ciò, tutti sembrano convinti che non rivedranno mai più la Germania”. Il bastimento è diretto verso le Americhe e il primo scalo è l’isola di Cuba. A quel tempo Cuba è governata dal Presidente Federico Laredo Bru, che permette, come i suoi predecessori, agli Stati Uniti di esercitare una forte influenza sulla politica del Paese.

A Cuba vige il Decreto 55, che stabilisce il pagamento di 500 dollari per ottenere il visto necessario ai rifugiati per sbarcare sull’isola. Sfruttando una lacuna normativa nel definire a livello giuridico la differenza tra rifugiato e turista, il direttore dell’Immigrazione, Manuel Benitez, approfitta meschinamente della lacuna legislativa per vendere a caro prezzo ai rifugiati i permessi turistici per sbarcare a Cuba. Già prima della partenza da Amburgo della St. Louis si crea un florido mercato di visti turistici, rivenduti a prezzi spropositati ai disperati in fuga dalle persecuzioni. La situazione, durante il viaggio del transatlantico, peggiora ulteriormente. Il 5 maggio il parlamento promulga il Decreto 937 che, in sostanza, impedisce ai profughi ebrei di essere riconosciuti sia come turisti che come rifugiati. I molti che avevano già pagato il loro visto lo vedono trasformarsi all’improvviso in carta straccia. All’arrivo in porto, il governo cubano non concede agli esausti passeggeri della nave il permesso di sbarco. Alla St. Louis viene intimato di gettare l’ancora al largo delle coste di Cuba. Dopo una serie di trattative infruttuose con le autorità dell’isola il comandante Schröder circumnaviga Cuba e si allontana fino alle coste della Florida, sperando in un aiuto da parte degli Stati Uniti, dove vige una rigida politica sulle quote di immigrazione a cui il governo non vuole derogare.

Schröder inizia a temere per la salute psico-fisica dei suoi passeggeri, in particolare che possano verificarsi dei suicidi a causa dalla disperazione. Decide addirittura di istituire delle pattuglie per controllare che nessuno, durante la notte, possa compiere gesti estremi. La St. Louis invia allora una richiesta di aiuto al governo canadese, ma anche il primo ministro William Lyon Mackenzie King decide di non accettare i passeggeri come rifugiati. Il governo cubano, dopo giorni di indecisione, decide di concedere lo sbarco esclusivamente a chi pagherà un’ulteriore tassa di cinquecento dollari: solo 22 di loro riescono a scendere a L’Avana.

Seppur antirazzista e oppositore delle politiche del governo tedesco, il capitano Schröder è costretto a invertire la rotta, ma si rifiuta di restituire la nave alla Germania e cerca una collaborazione con i governi europei. La St. Louis fa ritorno in Europa e raggiunge Anversa, il 17 giugno 1939, più di un mese dopo la sua partenza. Gli esuli vengono ripartiti tra il Regno Unito, che accetta di accogliere 288 passeggeri, la Francia, il Belgio e i Paesi Bassi che accolgono i restanti 619. Molti di loro non vedranno la fine della guerra che scoppierà pochi mesi dopo.

Il mondo della prima metà del Novecento è diverso da quello dove viviamo oggi, ma in alcuni casi la storia sembra ripetersi con coincidenze inquietanti. L’Italia da anni sta affrontando l’immigrazione di profughi provenienti soprattutto da Africa, Asia e Medio-Oriente. Le persone che tentano di raggiungere le coste del nostro Paese – e conseguentemente dell’Europa – viaggiano su imbarcazioni fatiscenti e scappano spinte da diverse motivazioni.  Violenze contro chi non segue le leggi della Sharia, discriminazioni e persecuzioni a causa dell’orientamento sessuale, feroci regimi dittatoriali costringono migliaia di persone ogni anno a fuggire da Paesi come Eritrea, Gambia e Pakistan. Altrove, come in Nigeria e in Somalia, lo scontro tra gruppi armati, costituiti su base etnica o religiosa, porta i civili a fuggire in massa.

L’Europa sta reagendo politicamente e umanamente in modo inadeguato a questa emergenza umanitaria, i dibattiti interni a ogni paese membro dell’Unione sono incentrati sul tema dell’immigrazione e le soluzioni preferite dagli elettori sono quasi tutte orientate verso le politiche delle destre, che per ottenere consensi si mostrano sempre più xenofobe e intolleranti. Anche l’Italia, dopo le elezioni politiche del 4 marzo 2018 ha dimostrato di preferire chi, tra i contendenti alla guida del Paese, prometteva il pugno di ferro nella risoluzione della questione dei migranti.

Le conseguenze di questo tipo di scelte politiche sono state un susseguirsi di episodi controversi dal punto di vista umano e giuridico. L’ultimo caso eclatante è stato quello della nave battente bandiera olandese Sea Watch 3. Il 18 gennaio scorso l’imbarcazione ha tratto in salvo 47 persone al largo delle coste libiche, aprendo una querelle internazionale sulle responsabilità dei singoli paesi europei nell’accoglienza dei naufraghi. Il capitano dell’imbarcazione ha dichiarato di aver informato le autorità libiche, italiane, maltesi e olandesi per avere informazioni su come coordinare i soccorsi, non ricevendo alcuna risposta. L’Olanda ha deciso di non prendere in carico le persone salvate come forma di protesta alla mancanza di accordi europei su soluzioni strutturali per l’accoglienza dei migranti. Per quanto riguarda l’Italia, lo sbarco è stato impedito dalle disposizioni del ministro dell’Interno Matteo Salvini, una decisione che ha costretto 47 persone, tra cui 15 minori, a vivere per 13 giorni in mare. A bordo la situazione ha rischiato di precipitare per le precarie condizioni psico-fisiche dei profughi: il sindaco di Siracusa, Francesco Italia, in un’intervista ha riportato le parole del medico di bordo, preoccupato dal rischio di atti di autolesionismo che alcuni migranti avrebbero potuto infliggersi per l’esaurimento dovuto all’incertezza della situazione e alle precarie condizioni di vita a bordo.

Dopo intensi negoziati incorsi tra il nostro governo e quelli di altri paesi europei, la situazione sembrava essersi sbloccata il 30 gennaio, i migranti dovevano essere redistribuiti sui territori di 9 paesi tra cui l’Italia, eppure l’8 febbraio fonti del Viminale hanno reso noto che la Francia si è defilata dall’accordo e ha dichiarato che accoglierà solo le persone bisognose di aiuto e non i migranti economici. L’episodio della Sea Watch 3 non si è concluso neanche per l’equipaggio: nei giorni successivi allo sbarco dei migranti l’imbarcazione è stata oggetto di indagini, e anche se ad oggi non è stato trovato nulla di penalmente rilevante, come riferito da Giorgia Linardi, portavoce di Sea Watch in Italia, in una conferenza alla Camera dei deputati, è ancora ferma nel porto di Catania e non le è stato permesso di ripartire, come accusa il capo missione Kim Heaton-Heather in un videomessaggio diffuso su Twitter. È molto probabile che la vicenda della nave Ong olandese non sarà l’ultima di questo genere. Il ministro Salvini è ancora interessato dalle conseguenze di un episodio simile da lui gestito con la stessa intolleranza: quello della nave della Guardia Costiera U.DiciottiIl Tribunale dei ministri di Catania, pochi giorni fa, ha chiesto l’autorizzazione al Senato per procedere contro Matteo Salvini, al quale contesta la gestione dell’emergenza dei 117 migranti avvenuta lo scorso agosto. Il ministro è sotto accusa per il reato di sequestro di persona aggravato “per avere, nella sua qualità di ministro dell’Interno, abusando dei suoi poteri, privato della libertà personale 177 migranti di varie nazionalità giunti al porto di Catania.

La senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta all’Olocausto, negli ultimi tempi ha accusato più volte l’Italia e l’Unione europea di  porsi nei confronti della questione dei migranti con un atteggiamento pericolosamente simile a quello vissuto sulla sua pelle ai tempi della Shoah. La testimonianza dei sopravvissuti è un argine alla minaccia che quello che è già accaduto 70 anni fa si possa ripetere. Conoscere la storia e le sue analogie con il presente – come la storia della St. Louis – deve metterci in guardia da una deriva che sta sdoganando la mancanza di umanità come la nuova normalità nel governo di Paesi che si credono delle democrazie.

fonte: https://thevision.com/cultura/ebrei-st-louis-shoah/