…E intanto la Francia continua la sua battaglia a favore delle API – Sospesi altri due pesticidi killer!

 

API

 

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…E intanto la Francia continua la sua battaglia a favore delle API – Sospesi altri due pesticidi killer!

 

L’Anses, l’Authority sanitaria francese aveva dato il suo ok ma il tribunale di Nizza ha deciso oggi di sospendere la licenza d’uso a due pesticidi di Dow Chemical. Entrambi contengono l’insetticida sulfoxaflor e sono accusati di potenziali rischi ambientali, in particolare di effetti nocivi sulle api.
La sentenza sospende l’utilizzo dei prodotti in Francia in attesa di un’udienza per esaminare argomenti dettagliati delle parti.
Dow Chemical, che a settembre ha completato una fusione con DuPont per diventare DowDuPont, non ha voluto commentare alla Reuters che ha dato per prima la notizia.
L’Anses, invece, ha dichiarato di aver preso atto della sentenza e di continuare ad esaminare nuove prove, come richiesto dal governo. L’agenzia francese aveva approvato il sulfoxaflor per l’uso su cereali, incluso il grano e alcune colture più specializzate. Ma lo aveva proibito per le colture che attirano insetti impollinatori e per tutte le colture durante i periodi di fioritura, rilevando potenziali effetti tossici per le api. Secondo l’Authority il sulfoxaflor ha effetti simili ai neonicotinoidi, ma rimane nei terreni e nelle piante per un tempo molto più breve.
Generations Futures, l’associazione che ha portato la causa davanti al tribunale amministrativo, ha accolto favorevolmente la sentenza e ha chiesto la fine di tutti i prodotti a base di neonicotinoidi.

 

 

tratto da: https://ilsalvagente.it/2017/11/24/altri-due-pesticidi-killer-delle-api-sospesi-da-un-tribunale-francese/28643/

Attenzione – Violenza sulle donne, anche colpevolizzare continuamente le vittime È VIOLENZA SULLE DONNE…!

 

violenza sulle donne

 

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Attenzione – Violenza sulle donne, anche colpevolizzare continuamente le vittime È VIOLENZA SULLE DONNE…!

 

Il prete Bolognese don Lorenzo Guidotti alla ragazza vittima di stupro: “è il MINIMO che potesse accaderti. Ma dovrei provare pietà? No! Quella la tengo per chi è veramente Vittima di una città amministrata di…, non per chi vive da barbara con i barbari e poi si lamenta perché scopre di non essere oggetto di modi civili. Chi sceglie la cultura dello sballo lasci che si ‘divertano’ anche gli altri…?”.

Così quella pvera ragazza è stata stuprata per la secondavolta…

(continua dopo il video che Vi cnsigliamo di vedere)

Da Fanpage.it:

Anche colpevolizzare continuamente le vittime è violenza sulle donne

Che cos’è la violenza sulle donne? Un pugno? Uno schiaffo? Un omicidio? No, non solo. Anche irridere le vittime di molestie e abusi sessuali che dopo anni riescono a trovare il coraggio di denunciare e provano ad abbattere un sistema fondato sull’abuso di potere e sulla prevaricazione è violenza sulle donne, forse anche peggiore, sicuramente la più subdola.

Che cos’è la violenza sulle donne? La domanda può risultare banale, ma la risposta in realtà non lo è affatto. La violenza sulle donne non è solo lo stupro, non è solo lo schiaffo, non è solo il pugno e non è solo il femminicidio. Migliaia sono le sfaccettature e le sfumature, migliaia sono i comportamenti misogini messi in atto tutti i giorni contro le donne. La violenza contro le donne è anche e soprattutto una questione di mentalità, una mentalità trasversale che porta le persone a pensare che certi comportamenti e certe prevaricazioni siano tutto sommato giustificate e giustificabili. Sebbene in caso di stupro spesso, ma non sempre, la condanna sia pressoché unanime, accade invece molto frequentemente che in caso di molestie e abusi sessuali questa condanna sociale non sia poi così corale, ma anzi la vittima di solito viene vivisezionata e analizzata, nonché infine scambiata per carnefice. Si è visto molto bene negli ultimi mesi, complice il caso Weinstein.

Grazie a un’inchiesta del New Yorker, un bel giorno Hollywood si è risvegliata scoprendo il “segreto di Pulcinella”: l’allora terzo produttore più importante del sistema cinematografico statunitense per anni ha abusato di giovani attrici alle prime armi sfruttando il suo potere. Tutti sapevano, si è scoperto, ma nessuno aveva mai voluto parlarne apertamente perché l’uomo era troppo potente per essere combattuto, sia dai media che, soprattutto, dalle attrici novizie. Violenza e abuso sessuale reiterato si intrecciavano in quell’inchiesta che ha avuto il merito di scoperchiare il cosiddetto “vaso di Pandora”. Da lì in poi, in tutto il mondo tantissime ragazze hanno trovato il coraggio, supportandosi l’una con l’altra, di denunciare le violenze, gli abusi e le molestie subite. Tante, in molti Paesi, hanno trovato ad accogliere quelle denunce una trasversale solidarietà. In Italia, complice il caso Weinstein denunciato da Asia Argento, e un’approfondita inchiesta condotta da Dino Giarrusso delle Iene, allo stesso modo anche in Italia si è cominciato a parlare molto delle molestie sessuali che da tempo regnano incontrastate in casa nostra, nel Belpaese.

Le reazioni, però, a differenze di quelle scaturite in Usa o nei Paesi Scandinavi, non sono state affatto le medesime: le ragazze che hanno osato denunciare le molestie e gli abusi subiti sono state sbeffeggiate, vilipese, ridicolizzate e maltrattate da media e commentatori. Le testimonianze rese da quelle ragazze sono state vivisezionate e bollate come poco credibili da moltissimi lettori e opinionisti, che hanno preso anche a insultare le vittime. Come al solito, la vittima è stata trasformata in carnefice, carnefice perché ha trovato il coraggio di parlare apertamente di quello che tutti sapevano ma di cui nessuno aveva voglia di parlare.

Le vittime sono immediatamente diventate colpevoli, senza appello. Il sacrosanto garantismo tanto sbandierato dai difensori di Fausto Brizzi – il regista accusato da 15 ragazze intervistate da Le Iene – a quelle quindici donne non è stato concesso. “Hanno denunciato troppo tardi”, dicono molti. “Colpa loro che hanno accettato di fare un provino in casa”, hanno chiosato altri. “E che sarà mai, al massimo ci avrà provato. Potevano rifiutare”, uno degli altri gettonatissimi refrain. Giusto che Brizzi sia considerato innocente fino a sentenza definitiva e abbia diritto a difendersi per via giudiziaria, cosí come prevede la nostra Costituzione, ma il problema nel caso Brizzi, stando ai commenti degli utenti, sembra invece un altro: insomma, la molestia viene addirittura difesa da molti uomini e moltissime donne, tutti concordi nel sostenere che a un abuso di potere si può sempre dire di no. Il che è verissimo, purtroppo non tutte le ragazze e le donne hanno la forza di farlo, molte di loro provano un senso di vergogna, di sporco, ci mettono anche mesi a razionalizzare ciò che è successo.

Poche e sporadiche le difese per queste ragazze, pochissimi hanno rilevato il fatto che non è la donna a dover rifiutare una molestia o un abuso di potere, ma è l’uomo che deve finalmente imparare che non tutto gli è concesso e che il volerci provare con una donna che piace non permette a chicchessia di schiaffarle la lingua in bocca a sorpresa, di palpeggiarla contro la sua volontà o di farle la mano morta. Il problema è proprio a monte, è una questione di mentalità trasversale e radicata che sarà molto difficile abbattere. Il problema delle molestie di Fausto Brizzi non è Fausto Brizzi in quanto persona accusata di, ma è una questione che attiene a una forma mentis.

In Italia l’inchiesta sulle molestie sessuali ha continuato ad alimentare il solito clima di tifo che si scatena in ogni momento e per qualsiasi argomento: il popolo si è diviso tra sostenitori di Brizzi e sostenitori delle molestie, dimenticandosi però di discutere del tema focale, del tema principale, ovvero di come abbattere quella mentalità che fa credere che una molestia non sia poi nulla di così grave e che alla fin fine, si sa, il mondo funziona così da sempre, e dunque perché cambiarlo? E invece no, la molestia non è affatto normale, non può essere considerata un nulla di che da nessun essere umano che voglia definirsi civile, ma anzi quel continuo tiro al piccione contro le vittime, sempre e costantemente colpevolizzate da quella larga fetta di opinione pubblica che vorrebbe apparire di mentalità aperta e anticonformista, è violenza contro le donne al pari di un abuso sessuale.

tratto da:https://donna.fanpage.it/anche-colpevolizzare-continuamente-le-vittime-e-violenza-sulle-donne/

Per non dimenticare – 29 novembre 1864, il massacro di Sand Creek. Quando il glorioso Esercito degli Stati Uniti d’America riportò una delle più fulgide vittorie della luminosa storia Americana contro donne e bambini indigeni !!

 

Sand Creek

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Per non dimenticare – 29 novembre 1864, il massacro di Sand Creek. Quando il glorioso Esercito degli Stati Uniti d’America riportò una delle più fulgide vittorie della luminosa storia Americana contro donne e bambini indigeni !!

La Guerra di Secessione stava ormai volgendo al termine con la vicina vittoria degli abolizionisti del Nord; quando il 3° Reggimento Volontari del Colorado, guidati dal colonnello John Milton Chivington, trucidò oltre 200 pellerossa, soprattutto donne e bambini delle tribù dei Cheyenne e Arapaho, accampati lungo il fiume Creek.
Il 1864, così come moltissime altre annate, fu un anno terribile per le tribù indiane; Il proclama del governatore Evans esortava la popolazione a cacciare ed eliminare fisicamente i nativi che, vuoi per un forte attaccamento alle tradizioni, vuoi per non capire la lingua dell’oppressore o vuoi per diffidenza nei confronti dell’uomo bianco, non si fossero insediati nei pressi di Fort Lyon in seguito all’ingiunzione imposta da Evans l’estate stessa. Durante tutto il periodo estivo gli indiani non abbassarono la testa, rendendo difficile la vita al nemico e infliggendoli pesanti perdite, ma non calcarono troppo la mano nella speranza di futuri accordi di pace con le autorità nordiste. Fu soprattutto il capo cheyenne Pentola Nera a volere fortemente la pace e a trattare con i visi pallidi, acconsentendo a fare accampare la propria tribù lungo il fiume Sand Creek, poco distante da Fort Lyon. Alla sua tribù si unì quella degli Arapaho del capo Mano Sinistra, dando vita in breve tempo ad un accampamento di 600 indiani appartenenti alle due tribù.
Quel 29 novembre però, mentre la gran parte degli uomini del villaggio si trovavano lontani a cacciare il sacro bisonte, piombarono sulle tipi i cavalli del 3° Reggimento seminando il panico tra i pellerossa, per tre quarti donne e bambini, rimasti all’accampamento. Pentola Nera tentò di tranquillizzare i suoi consanguinei citando gli accordi presi con le autorità e alzando la bandiera dell’Unione, ma il colonnello Chivington incurante della pacifica situazione trovatasi di fronte, fece caricare i suoi uomini distruggendo la tendopoli e massacrando gli indiani, per lo più inermi.
Si contarono più di 200 morti tra i nativi e una decina tra gli oppressori, di cui molti furono vittima dello stesso fuoco amico, come scrisse il colonnello del Colorado nel suo rapporto.
La notizia del massacro di Sand Creek arrivò presto alle nazioni Cheyenne, Arapaho e Sioux, e dopo anni e anni di battaglie per vendicare la propria gente trucidata, soltanto dodici anni più tardi i 200 indiani di Sand Creek poterono avere finalmente giustizia distruggendo il 7° Cavalleria di Custer, tra le colline di Little Big Horn.

Tra i pazzi sanguinari del colonnello Chivington, quel triste giorno solo due due ufficiali del Reggimento si rifiutarono di eseguire i folli ordini impartiti loro: il capitano Silas Soule e il tenente Joseph Cramer. Soule in particolare, aveva ordinato ai suoi uomini di non aprire il fuoco e il colonnello lo face arrestare assieme ad altri sei uomini, ma il capitano denunciò quanto successo, portando Chivington davanti alla commissione d’inchiesta. Il giovane capitano Soule però, non riuscì mai a testimoniare perché fu assassinato a Denver poco dopo il suo rilascio. Il colonnello Chivington invece, sotto pressioni e consigli dall’alto, lasciò l’esercito salvandosi così dalla Corte Marziale che affermò: “Sand Creek era stato un atto di profonda codardia e una strage perpetrata a sangue freddo, un gesto sufficiente a coprire i colpevoli di infamia indelebile, e nel contempo, a suscitare indignazione in tutti gli americani”

Rendono onore anche a loro, oggi, i discendenti delle varie tribù indiane radunati a Eads, così viene chiamata oggi la località in cui si consumò questa ennesima sanguinosa pagina dell’epopea statunitense, per celebrare il 150°anniverario della strage davanti ad autorità e popolazione.

Nel terzo millennio la storia degli indiani d’America è ormai relegata a folclore hollywoodiano, cilum e peyote, ma ci sono intere generazioni di pellerossa che non rinunciano alla memoria e soffrono ancora il peso di ogni singola stella cucita sulla bandiera “portatrice di pace” nel mondo.
Una bandiera che solo pochi giorni fa veniva sventolata orgogliosamente in ogni angolo del degli States per la festa del ringraziamento.
Una bandiera, che come ci insegnano i films dovrebbe rappresentare un’utopica società multirazziale ed egualitaria, ma che invece, proprio come sta accadendo in queste ore a New York, si trova a fare i conti con l’ennesima rivolta contro un sistema multirazzista.
Eh già, il duro prezzo dell’integrazione… Gli indiani d’America ne sapevano qualcosa…

Andrea Bonazza

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Per approfondire:

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IL MASSACRO DEL FIUME SAND CREEK

Nel 1864 tra la popolazione della frontiera americana si creò un clima di paura e di tensione, la causa era la sommossa iniziata dai Sioux nel 1862 in Minnesota. Nella primavera di quello stesso anno nel Colorado alcune bande di Sioux, di Cheyenne e di Arapaho effettuarono delle rapine e dei saccheggi, dando molto filo da torcere ai bianchi, facendo iniziare così le prime scaramucce tra la Cavalleria dei Volontari del Colorado e i cacciatori Cheyenne.

In autunno i capi Cheyenne risposero favorevolmente ai “sondaggi di pace” del governatore John Evans, mettendosi sotto la protezione del maggiore Wynkoop (Uomo Bianco Alto) a Fort Lyon.

Uomo Bianco Alto aveva rapporti amichevoli con i Cheyenne, procurando la disapprovazione di alcuni ufficiali militari del Colorado. Così dopo essere stato accusato e rimproverato di far ”comandare gli indiani”, fu sostituito dal maggiore Scott J. Anthony, un ufficiale dei Volontari del Colorado.

Il governatore Evans affidò a John Chivington la “campagna di pacificazione”.

Chivington era un protestante metodista, alto quasi 2 metri e molto robusto, un tipo spaccone e arrogante, ogni qualvolta che incontrava un bianco, lo esortava a uccidere tutti gli indiani sia piccoli che grandi, era poi un personaggio molto conosciuto nella frontiera, famoso tra i cercatori d’oro e gli allevatori.

Il governo, impegnato nella Guerra di Secessione, non aveva modo di occuparsi della frontiera, ed erano quindi gli uomini del calibro di Chivington a rappresentare la legge e il governo nei sperduti territori del lontano West.

Le autorità locali per tutelare pionieri, cercatori d’oro, coloni, agricoltori, dalle scorrerie degli indiani che stavano diventando “sempre più fastidiosi”, non sentendosi sicuri con l’esercito, fecero ricorso ai reparti dei volontari, vigilantes reclutati sul posto, milizie improvvisate, avventurieri, disertori fuggiti dal fronte della guerra che stava imperversando.

Nel frattempo Chivington rifiutò indignato il brevetto di ufficiale cappellano che il governo gli offrì, così chiese ed ottenne un grado di combattente di capitano, che in poco tempo trasformò in colonnello, diventando il comandante dell’intero reggimento.

Fu per il suo odio sviscerato che provava contro gli uomini dalla pelle rossa che Chivington si fece la nomina di “cacciatore di indiani “.

Così quando gli attacchi e le scorrerie di alcuni indiani ostili divennero più frequenti contro pionieri e carovane che percorrevano il sentiero delle Smoky Hills, fu al colonnello Chivington con il suo 3° reggimento di Volontari che il governatore Evans si rivolse.

Evans emanò un decreto promettendo terre e denaro a chiunque uccideva un indiano.

Questo era un invito che Chivington ed i suoi non si fecero certo ripetere.

Nel forte c’era una piccola guarnigione di soldati, tra cui alcuni ufficiali regolari. Questi fecero notare a Chivington che non tutti gli indiani erano nemici, in particolar modo la tribù Cheyenne di Motavato (Pentola Nera) che si trovava accampata a circa 60 km dal forte.

Pentola Nera era un capo pacifico e credeva molto nella parola dell’uomo bianco, aveva anche firmato la pace pochi mesi prima con l’esercito, consentendo così il transito dei carri che passavano attraverso il suo territorio. Ma questo a Chivington non interessava più di tanto, ed iniziò ad infuriarsi e ad accusare ufficiali e soldati che non erano d’accordo con lui dicendo che erano dei codardi e dei traditori. In particolar modo inveì contro il capitano Silas Soule, il tenente Joseph Cramer e il tenente James Condor. Agitando il pugno vicino alla faccia del tenente Cramer disse:

Odio tutti coloro che simpatizzano per gli indiani , bisogna sterminarli tutti , è il dovere di ogni patriota americano. Tutto questo tra gli applausi dei suoi volontari.

Per non ritrovarsi davanti ad una corte marziale i tre ufficiali dovettero partecipare loro malgrado alla spedizione. Essi comunque ordinarono ai loro uomini di sparare solo per difendersi.

Era la sera del 28 novembre 1864 quando l’ex predicatore metodista con più di 700 uomini al suo seguito uscì da Fort Lyon per andare a “caccia di indiani”. Chivington dando la carica ai suoi uomini disse: “uccidete qualsiasi indiano che incontrate sulla vostra strada”.

Il villaggio di Caldaia Nera si trovava in un ansa del Sand Creek, il suo tipì era situato quasi al centro, ad ovest c’erano Antilope Bianca e Copricapo di Guerra con la loro gente. Sull’altro versante, quello orientale c’era il campo arapaho di Mano Sinistra. Complessivamente vi si trovavano quasi 600 persone, la maggior parte di loro erano donne, bambini ed anziani.

Quasi tutti i guerrieri si trovavano lontani, a caccia di bisonti, come gli era stato suggerito dal maggiore Anthony.

Alle prime luci dell’alba la colonna raggiunse il villaggio, nell’accampamento nessuno si immaginava che cosa stesse per accadere, d’improvviso i Cheyenne si svegliarono con il rumore dei cavalli al galoppo. Si scorsero i primi soldati e tra la gente si diffuse subito il panico.

Donna Sacra, moglie di Pentola Nera fu una delle prime persone ad avvistare i soldati, iniziò così ad urlare fortemente per dare l’allarme al villaggio. Pentola Nera si trovava nel suo tipì, sentendo la moglie urlare uscì all’aperto e vide i soldati che avanzavano, fermamente convinto delle rassicurazioni avute dal magg. Anthony, cercò di calmare la sua gente e innalzò la bandiera americana, lo stesso vessillo che gli era stato offerto in segno di amicizia dai soldati al momento della firma.

Caldaia Nera attendeva protezione, ma le prime bordate scoppiarono. Quando gli fu chiaro che i soldati erano venuti per uccidere, si scagliò contro di loro a mani nude, ma alcuni suoi guerrieri riuscirono a metterlo fortunatamente in salvo.

Un vecchio settantenne, Antilope Bianca, anche lui disarmato, invece di fuggire disse ai pochi guerrieri rimasti che tutto ciò era colpa loro, di loro vecchi che si erano fidati della parola dell’uomo bianco. Andò incontro al comandante dei soldati (testimonianza di Beckwourth, la guida che si trovava al fianco di Chivington), tenendo bene le mani alzate e dicendo chiaramente in lingua americana: fermatevi, fermatevi, egli si fermò e incrociò le braccia. Una pallottola lo prese in faccia, prima di spirare intonò il suo canto di morte: niente vive per sempre sola la terra e i monti sono eterni.

Nel frattempo anche Mano Sinistra e gli Arapaho cercarono di raggiungere la bandiera di Pentola Nera, fermandosi davanti ai soldati con le braccia incrociate disse che non voleva combattere contro i suoi amici bianchi.

Morì fucilato anche lui sotto i colpi dei volontari.

Ci furono molte scene raccapriccianti in tutto il campo, la maggior parte degli uomini di Chivington erano completamente ubriachi e si lasciarono andare in una frenesia omicida, massacrando barbaramente tutti gli indiani che capitavano a tiro.

Non risparmiarono nessuno, si accanirono anche sui cadaveri mutilandoli e scotennandoli.

Ci furono diverse testimonianze, sia da parte dei bianchi che da parte degli indiani.

Coperta Grigia (John Smith l’interprete di Fort Lyon) riferì che dei soldati catturarono tre bambini e li condussero davanti a un gruppo di ufficiali. Il più grande aveva 8 anni, gli altri due avevano 4 e 5 anni, il tenente Harry Richmond disse: abbiamo l’ordine di ucciderli tutti, ne uccise uno sparandogli un colpo di pistola alla testa. Uccise anche gli altri due nonostante i pianti e le suppliche.

Robert Bent, figlio maggiore di William Bent (che prese in moglie una donna Cheyenne), si trovò suo malgrado insieme a Chivington, vide cinque donne nascoste dietro un cumulo di sabbia, i soldati avanzarono verso di loro, uscirono fuori tirandosi su i vestiti per far capire che erano donne, chiesero pietà, i soldati le fucilarono.

Altre 30-40 donne si misero al riparo di un anfratto, mandarono fuori una bambina di 6 anni con una bandiera bianca attaccata a un bastoncino, fece pochi passi e un colpo di fucile la uccise. Poi uccisero anche tutte le donne che si erano nascoste nell’anfratto, senza opporre nessuna resistenza.

Tutti i morti che vide Robert Bent erano stati scotennati. Vide anche un certo numero di neonati uccisi con le loro mamme.

Il vecchio Tre Dita (uno dei sopravvissuti) raccontò che sua madre si mise sulle spalle il figlio più piccolo e correva verso il torrente tenendo per mano lo stesso Tre Dita, i soldati continuarono a sparare ugualmente, un proiettile la colpì alla spalla, nonostante fosse ferita riuscì a mettersi in salvo. Quando prese il bambino piccolo che portava sulle spalle si accorse che era morto, colpito da un proiettile. Anche suo marito venne ucciso quel giorno. In seguito lei andò a vivere con i Cheyenne del Nord e rimase con loro molti anni. Il vecchio Tre Dita non dimenticò mai quello che successe a lui ed a sua madre quel giorno al Torrente della Sabbia.

Un’altra donna, la moglie di Orso Nero portava una cicatrice nel posto in cui era stata colpita, per questo motivo la chiamavano Un Occhio Andato Insieme. Raccontò cose atroci sui soldati che uccidevano i bambini, portavano via le donne trattandole male. Ne uccisero la maggior parte, ma qualcuna riuscì a salvarsi e raccontò quello che successe.

Queste ed altre atrocità ancora furono commesse quella volta sul Torrente della Sabbia.

Nessun Cheyenne che riuscì a salvarsi dimenticò quello che vide laggiù quel giorno.

Era la Luna Cheyenne di Quando i Cervi Sono in Fregola.

La descrizione di Robert Bent su quello che fecero Chivington ed i suoi volontari venne confermato dal tenente James Connor. Il giorno dopo quando tornarono sul campo di battaglia (se battaglia si vuole chiamare) non vi era un solo corpo di uomo, donna o bambino a cui non fosse stato tolto lo scalpo, ed in molti casi i cadaveri erano mutilati in modo orrendo.

Un reggimento ben addestrato e disciplinato avrebbe potuto annientare sicuramente tutti gli indiani che quel giorno si trovavano sul Sand Creek. Fu grazie alla mancanza di disciplina, alle abbondanti bevute di whisky, ed alla scarsa precisione di tiro da parte dei volontari che quel giorno molti indiani riuscirono a mettersi in salvo.

Quando tutto fu finito sul campo vi erano 105 morti tra donne e bambini e 28 uomini.

Nel suo rapporto ufficiale Chivington disse di aver ucciso 400-500 guerrieri.

Tra le sue file vi furono 9 morti e 38 feriti, questo non per la reazione da parte indiana, ma a causa del tiro disordinato dei suoi volontari.

Rimasero uccisi i capi Antilope Bianca, Occhio Solo e Copricapo di Guerra. Mano Sinistra fu ferito da una pallottola ma riuscì a scamparla. Pentola Nera riuscì a salvarsi trovando un rifugio in un burrone, sua moglie Donna Sacra nonostante avesse 7 pallottole addosso riuscì a sopravvivere. Tra i cadaveri che i becchini bianchi andarono a seppellire nelle fosse comuni scavate accanto al Torrente della Sabbia (1 dollaro per ogni cadavere) c’era anche il corpo di Donna Gialla, la donna Cheyenne che il giovane Cavallo Pazzo salvò nel massacro di Blue Water Creek.

Dopo pochi giorni a Denver in ogni locale della città cui c’era uno spettacolo, c’era una presentazione al pubblico di uno degli “eroi”, uno dei reduci del Sand Creek, accompagnato da alcuni trofei di guerra, una lancia, una freccia, uno scalpo ancora completo di trecce da esibire, tra gli applausi ed i tono ironici dei signori e delle signore. Nei locali più malfamati erano riservati i trofei più raccapriccianti, i genitali maschili e femminili amputati ai cadaveri dei Cheyenne uccisi.

Per molti giorni dopo l’eccidio, le prostitute della città avevano promesso amore gratis a chi le avrebbe ricompensate con le capigliature sanguinanti dei selvaggi ed a tutti i reduci del Sand Creek che si fossero presentati nei bordelli esibendo lo scalpo con il pube tagliato via a una donna Cheyenne.

Ci volle diverso tempo, per far tornare Denver alla “normalità”.

Nel frattempo a Washington iniziarono a nascere dei forti dubbi sulla ”impresa militare “compiuta da Chivington, e quando alcune testimonianze del massacro giunsero ad alcuni giornalisti dell’est, fu nominata una corte marziale per giudicare il “Colonnello”.

Per sfuggire alla giustizia militare Chivington rassegnò le dimissioni dall’incarico paramilitare.

Il governo allora nominò una commissione d’inchiesta civile presieduta da Kit Carson.

Ascoltarono i testimoni oculari, gli ufficiali di Fort Lyon che visitarono il villaggio dopo la strage, e i medici militari che esaminarono i cadaveri e soccorsero i feriti ancora vivi.

Tutti i rapporti militari sostennero chiaramente che non erano ferite da combattimento quelle trovate sui cadaveri, bensì colpi dati a vecchi inermi, a donne e bambini in fuga o riversi a terra già agonizzanti.

Per la commissione non ci furono dubbi.

Nel suo rapporto finale Carson scrisse che quello che successe a Sand Creek fu una strage premeditata, un massacro compiuto da vigliacchi.

Nessuna punizione fu inflitta a Chivington ed i suoi eroi.

Lui e il suo 3° reggimento di volontari si trasformarono in una vergogna nazionale.

Il colonnello se ne tornò nel suo nativo Ohio tentando la fortuna con la carriera politica, si fece eleggere assessore all’ordine pubblico.

In quanto a Pentola Nera, che teneva tanto alle relazioni amichevoli e che rispose favorevolmente ai sondaggi di pace, dopo aver visto quello che successe quel giorno al Sand Creek si rese conto che dell’uomo bianco non ci si poteva più fidare. Non gli fu concesso nessun risarcimento da parte del governo e fu ripudiato dai suoi guerrieri.

Pentola Nera insieme a sua moglie Donna Sacra, moriranno 4 anni più tardi nella battaglia sul fiume Washita.

Sotto la presidenza Clinton il Congresso degli Stati Uniti si è pronunciato nuovamente sull’eccidio del Sand Creek e sono state presentate le scuse ufficiali alla nazione indiana. Lo ha preteso Ben “Cavallo della Notte “ Campbell, senatore indiano del Colorado. Tutto il Congresso si è schierato con lui. Erano presenti anche Colo, il delegato agli Indian Affairs ed il senatore Daniel Inonye nell’ufficio di Bill Clinton quando lo stesso presidente firmava il decreto legge che assegnava un fondo monetario per organizzare un gruppo di studio per trovare la zona precisa dove avvenne il massacro.

Oltre a diventare parco nazionale fu previsto anche la costruzione di un monumento alla memoria.

Per la ricerca furono incaricati indiani Cheyenne ed Arapaho. Il luogo si trova a circa 40 miglia a nord di Lamar.

Senza ombra di dubbio il massacro del Sand Creek è stato uno degli episodi più vergognosi nella storia degli Stati Uniti d’America.

Fu un massacro premeditato. Le colpe caddero chiaramente sul governatore Evans, su Chivington e sul maggiore Anthony, che suggerì ai cacciatori Cheyenne di andare a caccia di bisonti per lasciare il campo indifeso.

Mai fino a quel momento nelle Grandi Pianure in una “battaglia” si vide tanto accanimento e tanta ferocia nell’uccidere donne e bambini.

 

fonti: 

Storia dell’”integrazione” americana – 150 anni fa la strage di Sand Creek

http://www.sentierorosso.com/storia-dei-nativi-americani/la-storia-degli-indiani-d-america/il-massacro-del-fiume-sand-creek

Cruelty free, il marchio che salva gli animali

 

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Cruelty free, il marchio che salva gli animali

 

Negli ultimi anni molti siti internet sponsorizzano le campagne a difesa dell’ambiente e degli animali sensibilizzando i consumatori sulla scelta di prodotti che non nuocciano alla fauna, eppure fin tanto che non si comprenderà l’importanza di combattere contro le violenze sui nostri amici a quattro zampe, sarà sempre più ostico trovare sul mercato merci non testate sugli animali.

Se non si vuole smettere di mangiare carne e derivati di origine animale, come fanno in segno di protesta i vegani, è può iniziare a prestare attenzione a cosa si acquista, cercando sul retro delle confezioni il disegno di un coniglietto accompagnato dalla scritta “cruelty free”. Il popolo dei vegani e tutti coloro che appoggiano la causa animale chiedono alle grandi aziende produttrici la commercializzazione di prodotti, dal detersivo al cosmetico fino agli alimenti, non testati su animali ma su tessuti creati in laboratorio di origine sintetica che vantano caratteristiche del tutto simili a quelli organici.

E’ crudele pensare che in Italia si contino cifre impressionanti di allevamenti canini che basano la loro economia sulla vendita di animali destinati ai laboratori. Sarebbe troppo e troppo utopistico pensare di bloccare questi massacri, ma possiamo limitarne il flusso. Dal 1976 è in vigore una legge europea che impone la sperimentazione sugli animali per tutte le nuove sostanze chimiche, non limitandosi solo all’industria farmaceutica e a quella alimentare ma anche agli additivi per i tessuti sintetici, i cosmetici, i detersivi, i materiali plastici per gli elettrodomestici e molti, molti altri campi. Oggi sono tanti i prodotti che contengono sostanze animali nei loro impasti o che negli anni passati sono stati testati vivisezionando varie specie, ma fortunatamente sul web sono reperibili delle liste orientative di prodotti approvati dalla Vegan Society (sulla base delle documentazioni rilasciate dalle case produttrici) che permettono la diffusione di queste notizie e che orientano i consumatori verso i prodotti che riportano la sigla ICEA (Istituto Certificazione Etica Ambientale).

E’ doveroso che la tecnologia si sviluppi, è necessaria la ricerca per nuovi e sempre migliori farmaci, ma è altrettanto indispensabile rimboccarsi le maniche perché non siano gli animali e l’ambiente a pagare le conseguenze di questo processo evolutivo.

 

fonte: https://opinionedellacastagna.com/2017/11/03/cruelty-free-il-marchio-che-salva-gli-animali/

La Medicina Indiana – Il nostro corpo somatizza quello che lo spirito subisce.

 

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La Medicina Indiana – Il nostro corpo somatizza quello che lo spirito subisce.

Il nostro corpo somatizza nella sua materia quello che lo spirito subisce. Quello che il nostro inconscio tace, lo urlano le nostre malattie, i nostri dolori e malesseri. La malattia è un conflitto tra la personalità e l’anima.

Quando ti manca calore affettivo, basta una minima frescata di vento freddo e subito prendi un raffreddore. Il naso “cola” quando il corpo non piange. Forti mali di schiena (ovvio non causati da un peso caricato male) ti dicono che stai subendo un dolore, porti con te un peso, un trauma, una tristezza immensa; il mal di gola ti assale sicuramente quando hai tanti dolori da sfogare ed afflizioni da dire e non hai con chi confidarti. Quando non sopporti una persona, non la digerisci, ma devi comunque conviverci o averci a che fare, ti viene acidità di stomaco; le coliche spesso sono rabbie accumulate che non riesci a sfogare.

Il diabete “invade” quando la solitudine ti attanaglia. Il cancro ti divora come l’odio che corrode l’amore mancato. Il corpo ingrassa quando sei insoddisfatto o dimagrisce quando ti senti logorato. Dubbi, preoccupazioni, ansietà, ti portano via il sonno e soffri di insonnia. Se non trovi un senso alla tua vita, la pressione del cuore rallenta o accelera: quindi ipotensioni e pressione alta sono sbalzi che ti condizionano l’umore e le forze. Il nervosismo aumenta i respiri, come se ti mancasse l’aria, donde dolori al petto ed emicranie (molti fumatori prendono aria extra dal fumo effimero che li rilassa in maniera compensatoria ma illusoria). La pressione “sale” quando la paura imprigiona.

Quando ti senti sopraffatto da un problema e sei al limite della sopportazione, allora la febbre ti assale, le frontiere dell’immunità sono all’erta. Le ginocchia “dolgono” quando il tuo orgoglio non si piega. Le artrosi vengono quando la tua mente non si apre, sei troppo rigido e i muscoli ti si contraggono. I crampi indicano che stai subendo una situazione per te insopportabile. La stitichezza ti indica che hai residui nel tuo inconscio, hai segreti che ti intasano e non trovi chi ti comprenda senza giudicarti. La diarrea è un atto di difesa dell’organismo che vuole eliminare ciò che percepisce come dannoso (come anche il vomito), vale per i virus ma anche per le situazioni, i sentimenti… forse chi ha diarrea non riesce a trattenere o assimilare.

La malattia non è cattiva, ti avvisa solo che stai sbagliando cammino. Ascolta il tuo corpo ed impara a guarire con il tuo spirito, non c’è altra medicina che la tua stessa natura non possa darti. E’ ovvio che non dobbiamo generalizzare, non è un catalogo farmacologico, ma una linea guida… E i bambini? pur innocenti sono spugne emotive e recepiscono ogni energia negativa di chi sta loro accanto; non a caso, i bambini più sani sono quelli che crescono in famiglie unite ed amorevoli. L’amore è vita, dunque qualsiasi mancanza d’amore produce in noi morte: psichica, mentale, emotiva e alla fine anche fisica.

 

Fonti: Varie dal Web

15 anni di Ogm – il punto (disastroso) di SlowFood – Gli Ogm avrebbero dovuto salvare il mondo dalla fame. Ma il numero degli affamati non ha fatto che crescere, proprio come i fatturati delle aziende che li producono.

 

 

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15 anni di Ogm – il punto (disastroso) di SlowFood – Gli Ogm avrebbero dovuto salvare il mondo dalla fame. Ma il numero degli affamati non ha fatto che crescere, proprio come i fatturati delle aziende che li producono.

 

La promessa che gli Ogm avrebbero salvato il mondo dalla fame è stata completamente disattesa: da quando è iniziata la commercializzazione (ormai più di 15 anni fa) il numero degli affamati non ha fatto che crescere, proprio come i fatturati delle aziende che li producono.

In Paesi come l’Argentina o il Brasile, la soia gm ha spazzato via le produzioni tradizionali, perché le colture transgeniche hanno bisogno di grandi superfici e di sistemi monocolturali intensivi.

Leggi tutte le notizie, gli approfondimenti, gli interventi sugli Ogm pubblicati su www.slowfood.it

Scarica gratis la pubblicazione: Scienza incerta e dubbi dei consumatori 

Quella degli Ogm è una questione complessa, difficile da esaurire in poche righe, ma forti di ricerche indipendenti e studi approfonditi, possiamo riassumere in pochi punti alcuni dei motivi per cui Slow Food, attraverso progetti, attività e campagne di comunicazione promuove e difende una cultura libera da Ogm:

  • CONTAMINAZIONE: coltivare Ogm in sicurezza, in Italia, è impossibile perché abbiamo aziende di piccole dimensioni e non abbiamo barriere naturali sufficienti a proteggere le coltivazioni biologiche e convenzionali. Inoltre, l’agricoltura fa parte di un sistema vivente che comprende la fauna selvatica, il ciclo dell’acqua, il vento e le reazioni dei microrganismi del terreno: una produzione Gm non potrà restare confinata nella superficie del campo in cui viene coltivata
  • SOVRANITÀ ALIMENTARE: come potrebbero gli agricoltori biologici, biodinamici e convenzionali essere sicuri che i loro prodotti non siano contaminati? Una diffusione, anche limitata, delle coltivazioni Ogm in campo aperto, cambierebbe per sempre la qualità e la situazione attuale della nostra agricoltura, annullando la nostra libertà di scegliere quel che mangiamo.
  • LIBERTÀ: le coltivazioni Gm snaturano il ruolo dell’agricoltore che da sempre migliora e seleziona le proprie sementi. Con le sementi modificate geneticamente, invece, la multinazionale è la titolare del seme: a essa l’agricoltore deve rivolgersi a ogni nuova semina (poiché, come tutti gli ibridi commerciali, in seconda generazione gli Ogm non danno buoni risultati) ed è proibito tentare miglioramenti varietali se non si pagano costose royalties
  • ECONOMIA E CULTURA: I prodotti Gm non hanno legami storici o culturali con un territorio; l’Italia basa buona parte della sua economia agroalimentare sull’identità e sulla varietà dei prodotti locali: introdurre prodotti anonimi e senza storia indebolirebbe un sistema che ha anche un importante indotto turistico
  • BIODIVERSITÀ: Le colture transgeniche impoveriscono la biodiversità perché hanno bisogno di grandi superfici e di un sistema monocolturale intensivo. Se si coltiva un solo tipo di mais per l’alimentazione umana, si avrà una riduzione anche dei sapori e dei saperi
  • ECOCOMPATIBILITÀ: Le ricerche su Ogm aoggi hanno messo a punto 2 tipi di “vantaggi”: la resistenza a un parassita del mais (la piralide) e la resistenza a un diserbante (il glifosate). Quindi, dicono i sostenitori degli Ogm, essi consentirebbero un minore impiego di chimica di sintesi; ma la piralide del mais può essere combattuta seriamente solo con la rotazione colturale, e la resistenza a un diserbante porta a un uso più disinvolto del medesimo nei campi, dato che non danneggerà le piante coltivate ma solo le erbe indesiderate
  • PRECAUZIONE: a circa trent’anni dall’inizio dello studio sugli organismi modificati geneticamente, i risultati in ambito agroalimentare riguardano solo 3 prodotti (mais, colza e soia). Le piante infatti mal sopportano le modificazioni genetiche e questa scienza è ancora rudimentale e in parte affidata al caso. Vorremmo ci si attenesse ad atteggiamenti di cautela e precauzione, come hanno fatto Germania e Francia, che hanno vietato alcune coltivazioni di Ogm
  • PROGRESSO: gli Ogm sono figli di un modo miope e superficiale di intendere il progresso. È sempre più chiaro per consumatori, Governi e ricercatori, il ruolo dell’agricoltura di piccola scala nella protezione dei territori, nella difesa del paesaggio e nel contrasto al riscaldamento globale; invece di seguire le sirene dei mercati, la ricerca moderna dovrebbe affiancare l’agricoltura sostenibile e mettersi a disposizione delle sue esigenze
  • FAME: I relatori Onu sul problema della fame dicono che l’agricoltura familiare difende le fasce di popolazione a rischio di malnutrizione. Un dato confermato anche dall’ultimo rapporto Fao Lo stato dell’insicurezza alimentare nel mondo 2015. Esaminando i dati emerge come esistano tratti comuni a quasi tutti gli stati che hanno visto migliorare in modo sensibile l’emergenza fame. Prima di tutto lo sviluppo della produttività agricola su piccola scala (che difficilmente ha scelto Ogm), con il miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita dei piccoli nuclei contadini familiari. Appare chiaro come l’agricoltura familiare e le produzioni artigianali siano la via più sensata per raggiungere l’obiettivo fame zero. «L’agricoltura che nutre il pianeta è quella che si pone come obiettivo il benessere delle persone, prima di tutto, prima ancora del profitto», afferma Cinzia Scaffidi, vice presidente di Slow Food Italia, commentando la notizia. «Il 2014 è stato l’anno internazionale dell’agricoltura familiare e il mondo ha riflettuto e incoraggiato quel modo di produrre cibo, quel tipo di atteggiamento e di cura verso le persone e gli altri viventi; il 2015 è l’anno dell’Expo di Milano e abbiamo a disposizione altro tempo, e altre risorse, per riflettere e promuovere un’idea di produzione sostenibile di cibo. La consapevolezza degli individui e dei governi sta crescendo e i primi risultati si vedono. La strada è certamente ancora lunga e disseminata di ostacoli: ma è sempre più evidente che il modello produttivo che ha dominato finora non è più difendibile e i primi passi in una direzione diversa stanno dando qualche risultato».

fonte: http://www.slowfood.it/slow-food-ogm/

L’allarme di SlowFood: il clima impazzito spegne il ronzio delle api

 

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L’allarme di SlowFood: il clima impazzito spegne il ronzio delle api

Dopo aver superato a stento la strage provocata dalla chimica in questi anni, le api vanno a sbattere violentemente contro il cambiamento climatico dimostrandosi una volta di più, loro malgrado, una preziosa sentinella del nostro ambiente.

Il 2017 si sta prefigurando come l’annus horribilis del miele: la gelata di aprile seguita dall’ondata di calore nei mesi successivi ha ridotto il nettare contenuto nelle piante, rischiando di pregiudicare anche la produzione dei prossimi anni.

«Ancora una volta le api si rivelano per quello che sono: un indicatore dei cambiamenti della natura» spiega Francesco Panella, storico apicoltore di Novi Ligure. «In 40 anni di carriera non ho mai assistito a una cosa del genere: con la produzione pensavo di aver toccato il minimo storico nel 2016, ma l’anno in corso è nettamente peggiore. Gli apicoltori più anziani sostengono che gli effetti della gelata di aprile di quest’anno siano stati peggiori di quelli della grande nevicata del ‘56. E anche se le condizioni climatiche dovessero migliorare, le piante sono troppo “stressate” e i fiori poveri di nettare».

Non solo riscaldamento globale ma anche pesticidi e agricoltura intensiva concorrono ad aggravare un bilancio già di sé poco favorevole: «A essere colpito per primo è il mondo arboreo, da cui in generale deriva il 50% del miele. Per questo una regione come il Piemonte, dove colture intensive di viti e nocciole stanno impoverendo gli alberi di acacia, tiglio e castagno, soffre in modo particolare, ».

La produzione di miele di acacia in Piemonte è ai minimi storici: in provincia di Biella la produzione è crollata del 90%, passando dalle 70 tonnellate del 2016 alle 7 del 2017. Nel Cuneese si è scesi da un’annata media di 15-20 kg ad alveare ai 2-3 kg con numerose arnie che non hanno prodotto affatto. Solo l’anno scorso, in tutta Italia, il miele d’acacia era crollato da 703 tonnellate a 275.

Un futuro nero, insomma, che almeno per il momento vede salvarsi solo il miele d’agrumi e quello di alta montagna, sopra i 1500 metri: «Attraverso le api, le piante ci stanno avvisando che il verde che vediamo è carente. Le api stanno anticipando ciò che l’agricoltura dovrà affrontare nei prossimi anni».

A confermare l’imprevedibilità degli effetti dei cambiamenti climatici c’è la relazione pubblicata a gennaio dalla Commissione europea sull’applicazione dei programmi nazionali per l’apicoltura. Secondo questo documento, il numero crescente di alveari in Italia (siamo al quinto posto in Europa per produzione) avrebbe dovuto portare a un incremento della quantità di miele disponibile.

Ma la realtà è ben più dura delle previsioni. Non solo l’aumento di miele non c’è stato ma anzi, si è ridotto di un 30% su tutto il territorio: «Alla faccia di Trump e dei negazionisti» conclude Panella. «Questa è una iattura che ci sta per colpire in pieno. Anche se adottassimo improvvisamente dei comportamenti più virtuosi forse riusciremo a contenere il danno per i nostri nipoti, ma di sicuro non per i nostri figli».

 

Maurizio Bongioanni

m.bongioanni@slowfood.it

Fonte:http://www.slowfood.it/clima-impazzito-spegne-ronzio-delle-api/

 

 

L’allarme di SlowFood – L’agricoltura è diventata «una macchina che trasforma petrolio»

 

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L’allarme di SlowFood – L’agricoltura è diventata «una macchina che trasforma petrolio»

Il cambiamento climatico mette a rischio la biodiversità. L’allarme viene dal rapporto Integrare l’Agrobiodiversità nei sistemi alimentari sostenibili realizzato da Bioversity International. Già il numero degli animali si è dimezzato in poco più di un secolo (gli esperti parlano addirittura di un’imminente estinzione di massa, la sesta), ora pure la varietà genetica delle piante commestibili rischia di omologarsi, impoverendosi di sostanze nutritive fondamentali per la dieta umana.

Secondo i dati del rapporto, infatti, il 75% del cibo mondiale è affidato a 12 colture e a cinque specie animali. Delle 5.538 specie vegetali commestibili per l’uomo, solo tre – riso, grano e mais – forniscono più del 50% dell’apporto calorico generale. Paradossalmente, in un momento in cui l’accesso a prodotti diversi non è mai stato così vasto, la dieta globale nel suo complesso sta diventando sempre più omogenea: cala il consumo di legumi, frutta e verdura mentre predominano amidi, carne e latticini.

Le monocolture e i cibi la cui produzione è basata sugli allevamenti intensivi fanno sì che l’agricoltura sia un elemento dannoso per l’ambiente. Il solo settore primario contribuisce con il 24% delle emissioni di gas serra, oltre a essere il più grande sfruttatore di acqua dolce del pianeta. Da una parte l’espansione di terreni destinati alla zootecnia intensiva, sta mettendo a rischio l’esistenza del 62% delle specie animali già inserite nella lista dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (Iucn), dall’altra la produzione di frutta, verdura e legumi è diminuita del 22%. Ciò significa che esiste un grande disequilibrio a livello di sistema, tanto che il panel internazionale sui cambiamenti climatici (Ipcc) stima che in ciascuna delle tre decadi da qui al 2050 la produzione agricola calerà del 2%, mentre la domanda di cibo crescerà del 14%.

Insomma, se continuiamo a misurare l’agricoltura in termini di “resa per ettaro” o in “calorie prodotte” non raggiungeremo i cosiddetti obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdg o Sustainable Development Goals) promossi dall’Onu e firmati nel 2015 da tutti i 193 paesi del mondo. Per questo i ricercatori della Bioversity propongono l’istituzione di un Indice di Agrobiodiversità da far adottare a ogni governo e in grado di guidare gli investimenti agricoli sul lungo termine, improntati alla sostenibilità e connettendo maggiormente tra di loro i settori economico, ambientale e sociale.

Ma tutto ciò è possibile solo se si comprende l’importanza della biodiversità, soprattutto in termini apporto nutritivo. Il riso è un esempio su tutti: a seconda della varietà consumata, 200 grammi di riso al giorno possono rappresentare meno del 25% o più del 65% della dose giornaliera raccomandata di proteine. «Abbiamo puntato tutto su poche specie, non perché siano le più buone o le più sane» scrive il giornalista Antonio Cianciullo su La Repubblica «ma perché sono quelle che si adattano meglio a un sistema industriale che ha espugnato l’agricoltura trasformandola in una macchina che trasforma petrolio».

Con Slow Food e tutta la rete di Terra Madre lavoriamo per restituire dignità e valore al lavoro agricolo, per far sì che si possa arrivare a un modello di produzione alimentare che metta al centro il lavoro dell’uomo e il rispetto per tutte le risorse. E che faccia della biodiversità un baluardo di resistenza. Ora, con Menu for Change ci siamo impegnati in una nuova campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi che evidenzi il rapporto

tra produzione alimentare e cambiamento climatico e ci dia gli strumenti per rafforzare chi sceglie metodi di produzione alimentare che non contribuiscono al riscaldamento globale. Scopri come puoi partecipare e ti ringraziamo fin da ora per il tuo contributo.

Maurizio Bongioanni
m.bongioanni@slowfood.it

 

fonte: http://www.slowfood.it/conoscere-la-biodiversita-fermare-cambiamento-climatico/

 

 

L’accusa di SlowFood – Buona parte delle mele che trovate oggi sui banchi del mercato sono dell’anno scorso!

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L’accusa di SlowFood – Buona parte delle mele che trovate oggi sui banchi del mercato sono dell’anno scorso!

 

Molte delle mele che trovate oggi sui banchi del mercato sono del 2016

Ve l’avevamo anticipato a maggio e puntualmente oggi vi possiamo parlare di un altro difetto di etichettatura e tracciabilità, un po’ come per i funghi di cui abbiamo scritto la settimana scorsa, anche se in questo caso non si tratta di comportamento truffaldino ed è tutto perfettamente legale. L’unico problema è che si tratta di una cosa che davvero pochi sanno, se non gli appartenenti al giro degli addetti ai lavori. Molte delle mele che trovate oggi sui banchi del mercato sono del 2016, e farete fatica a distinguerle da quelle della corrente annata. Già, perché non è obbligatorio scrivere la data di raccolta sull’etichetta delle mele, e quando capitano campagne particolarmente scarse, come per il 2017, questo strano miscuglio può accadere.

Si pensi che nell’ultimo secolo le altre uniche due annate così difficili, a causa delle gelate primaverili, furono soltanto la 1945/1946 e la 1956/1957.

A maggio, dicevamo, si verificarono due gelate notturne completamente impreviste in quasi tutta Europa. I meli erano in piena fioritura e la cosa ha poi effettivamente decimato il raccolto. Per esempio le renette si sono ridotte del 70%. Era facile prevederlo e fu a quel tempo che scattò una speculazione da parte di chi aveva ancora i magazzini pieni delle mele 2016, un’annata molto abbondante. Sapete già che le mele a fine campagna vengono stoccate in celle a temperatura e ambiente controllati, per renderle poi disponibili tutto l’anno. Le aziende più importanti, a maggio, viste le previsioni per l’anno successivo, prontamente ‘‘chiusero’’ le celle, cercando di fare tutto quello che legalmente potevano fare per allungare la vita ai prodotti che contenevano. Non è un caso che allora, all’improvviso, i prezzi aumentarono del 30% (e ve ne parlammo).

Le mele restavano immagazzinate in previsione di quest’autunno e non venivano distribuite. Un 30% in più del prezzo ‘‘normale’’ e basso che avevano prima di maggio le 2016, che tra l’altro era esattamente la metà di quello attuale. Nel 2017 il raccolto è scarso e quindi è normale che il prodotto costi di più. Però non è tanto giusto che anche le mele 2016, mescolate alle nuove, abbiamo lo stesso prezzo doppio rispetto allo scorso anno, quanto furono colte. Pura – e ricca – speculazione per chi ha messo da parte le vecchie scorte a maggio. Niente di illegale, lo ribadiamo, ma forse sarebbe il caso di saperle queste cose, e poter scegliere in piena consapevolezza.

Carlo Bogliotti
c.bogliotti@slowfood.it

Da La Stampa del 30 ottobre 2017

I dieci modi in cui la cannabis legale sta migliorando la vita negli Stati Uniti

 

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I dieci modi in cui la cannabis legale sta migliorando la vita negli Stati Uniti

Sono passati 5 anni da quando i primi due stati americani, Washington e Colorado, legalizzarono la cannabis. Era il novembre 2012 e da allora gli stati in cui acquistare marijuana è legale stanno continuando ad aumentare, spinti soprattutto dai dati positivi che arrivano da questi due stati pionieri, che stanno dimostrando che la legalizzazione non è positiva solo per l’economia, ma anche per molti altri settori, a cominciare da salute e sicurezza.

  • 1. LE ENTRATE FISCALI

Cominciamo dal dato più semplice ed ovvio, quello delle tasse. Lo stato di Washington in questo 2017 ha già raccolto 281 milioni di dollari dal settore della cannabis, mentre il Colorado a fine ottobre si attestava a 205 milioni. Cifre importanti per gli stati e per i programmi sociali (come vedremo) e che sono in costante aumento. Nel 2015 i due stati avevano raccolto complessivamente 260 milioni, 449 milioni nel 2016, mentre nell’anno ancora in corso si è già arrivati a 486 milioni.

  • 2. I POSTI DI LAVORO

Dati precisi a livello federale non esistono, ma secondo le stime degli osservatori economici il settore della cannabis legale impiega già oggi oltre 165mila lavoratori impiegati in molteplici mansioni più o meno specializzate: coltivatori, trimmer, produttori di derivati della cannabis, commercianti, trasportatori, controllori della qualità, ricercatori e molto altro.

  • 3. LO STATO SOCIALE

Le entrate provenienti dalla cannabis legale hanno permesso agli stati di inaugurare nuovi progetti sociali e di potenziare le attività di informazione e monitoraggio sulle droghe. Il Colorado con i proventi della marijuana ha elargito borse di studio agli studenti, pianificato la costruzione di nuove case popolari e aumentato i fondi a disposizione delle scuole pubbliche.

  • 4. CONTRASTO DELLA TOSSICODIPENZA

Per decenni la propaganda proibizionista ha utilizzato come cavallo di battaglia la teoria della cannabis come “droga di passaggio”: il solito discorso secondo cui “si inizia con le canne e poi si passa all’eroina”. Ebbene, sono bastati pochi anni di legalizzazione per capire come le cose stiano esattamente all’opposto. In Colorado uno studio ha dimostrato come solo nel primo anno post legalizzazione, le morti a causa degli oppiacei siano scese del 6,5 per cento, invertendo un trend pluriennale che vedeva le morti per overdose in costante aumento.

  • 5. TASSI DI INCARCERAZIONE

Ovviamente dopo che la cannabis è diventata legale, sono diminuiti gli arresti per possesso e spaccio. I numeri in questo campo sono sorprendenti: nello stato di Washington già nel primo anno di legalizzazione gli arresti per cannabis sono diminuiti del 98% (da oltre 5000 ad appena 112), in Colorado di oltre il 50%. Questo comporta una serie di buone notizie: meno persone vengono incarcerate per crimini non violenti, i tempi della giustizia si abbreviano perché i tribunali non sono più imballati di procedimenti contro i consumatori di cannabis, e i dipartimenti di polizia risparmiano mezzi e uomini da poter destinare alla persecuzione dei veri reati.

  • 6. IL CRIMINE

Un altro degli argomenti preferiti dei proibizionisti era quello che teorizzava che con la legalizzazione sarebbe aumentato il crimine: stupri, rapine, omicidi, incidenti colposi, eccetera. Anche qui si è rivelato vero l’opposto: dove la cannabis è stata legalizzata il crimine non solo non è aumentato, ma è diminuito. In Colorado sono calati del 3% omicidi, rapine e stupri. Gli analisti sottolineano come non sia possibile essere certi che la diminuzione dei tassi di criminalità sia correlata alla legalizzazione, ma di certo si può affermare che questa non ha comportato nessun aumento dei reati.

  • 7. CONSUMO TRA I GIOVANI

Anche l’idea, largamente diffusa, che con il mercato legale delle droghe leggere il consumo da parte degli adolescenti sarebbe aumentato si è rivelato infondato. In Colorado, anzi, è diminuito anche questo dato. A certificarlo è una ricerca del Dipartimento di Stato per la Salute e i Servizi Sociali che ha riscontrato come, dopo la legalizzazione, il numero degli under 20 che abbiano consumato cannabis almeno una volta durante l’anno è passato dal 20,81% al 18,35%, con un calo del 2,46%.

  • 8. MERCATO IMMOBILIARE

Questa è una buona notizia a metà, visto che soddisfa il mercato in senso lato, ma genera problemi per chi cerca case in affitto. La legalizzazione, almeno in Colorado, ha portato anche a una ripresa del mercato immobiliare e dei prezzi degli immobili. I prezzi delle case sono aumentati del 6,4 percento nelle aree dove la vendita di marijuana ricreativa è legale, con punte dell’8% per le abitazioni che si trovano a meno di 100 metri di distanza dai dispensari che vendono cannabis.

  • 9. IL TURISMO

Il mercato della cannabis legale ha comportato anche una impennata del settore turistico. Migliaia di visitatori ogni anno arrivano in Colorado o a Washington anche per poter assaporare il gusto di acquistare e fumare cannabis legalmente, un beneficio che a cascata investe anche tutti i settori ricettivi e commerciali dello stato. In Colorado il turismo è aumentato del 33% negli ultimi anni, più del doppio della media statunitense che si attesta al 16%.

  • 10. IL FUTURO

Secondo gli analisti quello che gli americani hanno visto in questi cinque anni è nulla rispetto a ciò che avverrà in futuro se la cannabis dovesse essere legalizzata in tutta la nazione. Si stima che entro il 2020 il mercato della cannabis legale potrebbe valere 28,1 miliardi di dollari, mentre sono 800.000 i posti di lavoro che potrebbero essere generati a livello nazionale. Insomma, nel prossimo futuro la cannabis potrebbe rappresentare uno dei settori economici di punta degli Usa, mentre anche i servizi sociali, la giustizia e la salute pubblica godranno dei suoi benefici.

 

fonte: http://www.dolcevitaonline.it/i-10-modi-in-cui-la-cannabis-legale-ha-aiutato-gli-stati-uniti/