Un cult: Il Marchese del Grillo – “…Mi dispiace, ma io so’ io …e voi non siete un c….”

 

Marchese del Grillo

 

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Un cult: Il Marchese del Grillo – “…Mi dispiace, ma io so’ io …e voi non siete un c….”

Nella Roma papalina del 1809, il Marchese Onofrio del Grillo è un alto dignitario pontificio alla corte di Papa Pio VII, fa parte della Guardia Nobile a difesa del Santo Padre ed è anche Reggitore del Sacro Soglio. In realtà sono impegni che lo occupano ben poco e il nobile passa le sue giornate nell’ozio più completo, frequentando le bettole e le osterie più malfamate della città, coltivando relazioni amorose clandestine con le popolane, facendo dannare la madre e il resto della sua parentela bigotta e conservatrice.
Il suo passatempo preferito, che lo rende famoso in tutta la città, è fare scherzi di ogni genere ai danni di chiunque: la sua famiglia, i nobili suoi amici, il popolo, gli artigiani che lavorano per lui, perfino il Papa stesso. E quando si caccia in qualche situazione difficile, riesce sempre ad uscirne grazie alle sue conoscenze altolocate. Però le sue burle hanno spesso il sapore della denuncia nei confronti della società corrotta e clientelare, dove il nobile ricco riesce sempre a cavarsela ai danni del popolino ignorante.

Quanno se scherza, bisogna èsse’ seri! (Marchese del Grillo)

Mi dispiace, ma io so’ io e voi non siete un cazzo! – La battuta distintiva del Marchese del Grillo che viene dal sonetto “Li soprani der monno vecchio” del Belli.

Li soprani der monno vecchio di Giuseppe Gioachino Belli


C'era una vorta un Re cche ddar palazzo

mannò ffora a li popoli st'editto:

"Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo,

sori vassalli bbugiaroni, e zzitto.

Io fo ddritto lo storto e storto er ddritto:

pòzzo vénneve a ttutti a un tant'er mazzo:

Io, si vve fo impiccà nun ve strapazzo,

ché la vita e la robba Io ve l'affitto.

Chi abbita a sto monno senza er titolo

o dde Papa, o dde Re, o dd'Imperatore,

quello nun pò avé mmai vosce in capitolo!".

Co st'editto annò er Boja per ccuriero,

interroganno tutti in zur tenore;

e arisposeno tutti: "È vvero, è vvero!"

 

traduzione

C'era una volta un Re che dal palazzo

mandò in piazza al popolo quest'editto:

"Io sono io, e voi non siete un cazzo,

signori vassalli invigliacchiti, e silenzio.

Io sono capace di cambiare una cosa da uno stato all'altro e viceversa:

Io vi posso barattare tutti per un nonnulla:

Io se vi faccio impiccare tutti non vi faccio torto,

Visto che Io ho il potere di darvi la vita e quel con cui vivere.

Chi vive in questo mondo senza possedere la carica

o di Papa, o di Monarca o di Imperatore,

colui non potrà mai far sentire la sua voce in pubblico!".

Con tale editto si recò il boia come portavoce,

chiamando all'attenzione tutti quanti a gran voce;

e il popolo intero rispose: "È vero, è vero!"

1° Febbraio 1876 – il giorno della “Memoria corta” – Gli Stati Uniti d’America dichiarano guerra ai Nativi Americani rei di un crimine imperdonabile: nei loro territori c’era l’oro!

 

 

Nativi Americani

 

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1° Febbraio 1876 – il giorno della “Memoria corta” – Gli Stati Uniti d’America dichiarano guerra ai Nativi Americani rei di un crimine imperdonabile: nei loro territori c’era l’oro!

Il 1 febbraio 1876 è una data ancora oggi ignorata o non considerata come dovrebbe dai media e dalle istituzioni ma è il giorno in cui il Ministro degli Interni degli Stati Uniti d’America, dopo la scoperto dell’oro nella zona più importante del territorio Lakota, perché considerato sacro, le Black Hills, decise di perseguitare tutti i Sioux che rifiutarono di trasferirsi nelle riserve. L’ordine di trasferire migliaia di uomini  donne e bambini dal territorio dov’erano arrivò in una stagione dell’anno in cui quelle zone erano innevate e molti indiani erano lontani impegnati nella caccia. L’esercito statunitense non precluse ai minatori l’accesso alle zone di caccia Sioux e attaccò gli indiane che stavano cacciando nella prateria, come loro concesso dai precedenti trattati.

Gli Stati Uniti dichiarano guerra ai Sioux

Il 1 febbraio 1876 il ministro degli Interni degli Stati Uniti d’America dichiarò guerra ai Sioux “ostili”, quelli cioè che non avevano accettato di trasferirsi nelle riserve, dopo che era stato scoperto l’oro nelle Black Hills, il cuore del territorio Lakota.

Come si potevano traferire migliaia di uomini, donne e bambini dalla terra dov’erano nati, in una stagione dell’anno in cui il territorio era coperto di neve? Molti indiani pare neanche ricevettero l’ordine, in quanto impegnati nelle loro attività di caccia, lontano dalla propria residenza.

Quella dichiarazione di guerra del 1 febbraio fu l’inizio del massacro degli Indiani d’America, che culminerà con l’eccidio di Wounded Knee, passato alla storia grazie a canzoni, libri e film. Sul finire del dicembre 1890, la tribù di Miniconjou guidata da Piede Grosso, appresa la notizia dell’assassinio di Toro Seduto, partì dall’accampamento sul torrente Cherry, sperando nella protezione di Nuvola Rossa.

Il 28 dicembre furono intercettati dal Settimo Reggimento, che aveva l’ordine di condurli in un accampamento sul Wounded Knee: 120 uomini e 230 tra donne e bambini furono portati sulla riva del torrente, circondati da due squadroni di cavalleria e trucidati.

“Seppellite il mio cuore a Wounded Knee” di Dee Brown è il libro che ha commosso generazioni di persone e ispirato cantanti di tutte le generazioni e latitudini, fino a Fabrizio De Andrè che compose la canzone “Fiume Sand Creek”, Prince e Luciano Ligabue.

Così racconta il massacro di Wounded Knee: «Brillava il sole in cielo. Ma quando i soldati abbandonarono il campo dopo il loro sporco lavoro, iniziò una forte nevicata. Nella notte arrivò anche il vento. Ci fu una tempesta e il freddo gelido penetrava nelle ossa. Quello che rimase fu un unico immenso cimitero di donne, bambini e neonati che non avevano fatto alcun male se non cercare di scappare via».

I Sioux, che preferiscono chiamarsi Dakota o Lakota, sono la principale tribù degli Stati Uniti, con 25.000 membri. Ora vivono in riserve nei loro antichi territori. Continuare a raccontare la loro storia (pochi giorni fa è stata la Giornata della memoria) è un modo per non dimenticare di cosa è stato capace l’uomo nel corso della storia e fare in modo che episodi simili non si ripetano.

 

Amarcord – Indiani d’America: dal genocidio alla discriminazione razziale – il 31 GENNAIO 1876 nascono le “riserve”, veri e propri campi di concentramento ideati allo scopo di portare a termine il genocidio dei Nativi… Hitler poi non dovette fare altro che ispirarsi agli americani…

 

Indiani d'America

 

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Amarcord – Indiani d’America: dal genocidio alla discriminazione razziale – il 31 GENNAIO 1876 nascono le “riserve”, veri e propri campi di concentramento ideati allo scopo di portare a termine il genocidio dei Nativi… Hitler poi non dovette fare altro che ispirarsi agli americani…

 

INDIANI D’AMERICA: DAL GENOCIDIO ALLA DISCRIMINAZIONE RAZZIALE

Si dice, ed è vero, che la storia viene scritta dalle potenze vincitrici, e così anche le efferatezze, gli eccidi e i genocidi di popoli vengono amplificati o messi in un cantuccio, secondo gli interessi e le convenienze politiche delle potenze suddette. Così per gli indiani d’America (come per altri moltissimi casi), per il loro olocausto non c’è alcun “giorno della memoria”. Nei programmi di approfondimento se ne parla poco, nella letteratura già a partire dal 1700, poi culminata nel cinema “western”, gli Indiani (o pellirosse) venivano rappresentati come violenti e malvagi, e gli eventuali indiani buoni erano quelli disposti a collaborare con l’uomo bianco. Nota la frase del Generale Sheridan: “…l’unico indiano buono, che io conosca, è l’indiano morto”. Ancora oggi sono, come gli altri “di colore”, discriminati ed emarginati, laddove nelle loro comunità vi sono condizioni di vita nettamente inferiori, con un alto tasso di suicidi tra gli adolescenti di 150 volte superiore a quello statunitense, una mortalità infantile cinque volte più alta, una disoccupazione che tocca cifre altissime e con un’alta diffusione di povertà, di alcolismo e tossicodipendenza.
Dobbiamo ricordare che il genocidio del popolo nativo dell’America è stato valutato andare dai 50 ai 100 milioni di persone; esse morirono a causa dei colonizzatori, per guerre di conquista, cambio di stile di vita, perdita del loro ambiente, malattie contro le quali non avevano assolutamente difese, e molti furono deliberatamente uccisi, ufficialmente perchè considerati “barbari”, mentre la causa principale era quella di impossessarsi delle terre e delle loro ricchezze. Nel Nordamerica ne morirono di meno, essendo meno popolata, ma l’impatto fu devastante: nel 1890 rimanevano 250mila individui, e si stima che circa l’80% fosse stato sterminato.
L’origine degli Indiani d’America è ancora incerta, ma essi sono molto simili ai Mongoli, che oggi vivono in Asia: ciò è possibile, in quanto anticamente l’attuale Stretto di Bering non esisteva e i due continenti erano uniti, permettendo a queste popolazioni il transito prima in Canada e poi negli Stati Uniti. Il primo approccio con il resto del mondo risale a circa il 1100 d.c. con i Vichinghi, ma la svolta alla loro esistenza, purtroppo, avvenne nel 1492, con la “scoperta” di Cristoforo Colombo, convinto di essere sbarcato nelle Indie (da cui la denominazione di “indiani”).
Gli indiani si suddividevano in nazioni, cioè in insiemi di individui uniti dal linguaggio, dagli usi, dallo stanziamento o da una comune abitudine migratoria; le nazioni più grandi erano composte da tribù, costituite da clan o grandi famiglie. Gli indiani delle pianure, la cui economia era principalmente basata sulla caccia al bisonte (fornitore di cibo, materia per vestiario ed armi), vivevano seguendo le migrazioni stagionali dell’animale; invece gli indiani delle zone montuose o desertiche, sia per caratteristiche ambientali diverse, sia per mancanza di grossi animali migratori, facevano una vita più stanziale. Il frammischiamento tra tribù della stessa nazione, o tra le diverse nazioni, non era caso raro, come non era infrequente la guerra, che generalmente veniva condotta per ragioni di bottino, ed era per i giovani l’occasione buona per dimostrare il loro valore.
I primi insediamenti colonici, che poi costituiranno il primo nucleo della nuova nazione americana, risalgono al 1616, dove gli inglesi fondarono l’odierna Virginia, la Nuova Inghilterra, ed i Padri Pellegrini nel 1620 fondarono New Plymouth, nel Massachusetts. Prima ancora i francesi, nel 1606, insediandosi in Canada, avevano fondato Quebec.
I primi contatti con la popolazione indiana erano praticamente basati sui rapporti commerciali e si mantennero su accettabili equilibri; i bianchi portarono a conoscenza degli indiani il cavallo, che poi divenne per loro uno strumento fondamentale di caccia e di guerra, le armi da fuoco e, purtroppo, anche il whisky e le prime malattie (vedi vaiolo, varicella, influenza, etc.), che hanno distrutto intere tribù, non avendo gli indiani sviluppato anticorpi specifici per combatterle.
Successivamente il numero di coloni provenienti dall’Europa crebbe, dato che le potenze europee, specialmente l’Inghilterra, volevano evitare le tensioni sociali che, con l’avvento della borghesia e le relative espulsioni di contadini dalla terra, assorbiti solo in parte dal tessuto industriale, creavano una massa di disoccupati, potenziali promotori di scontri sociali. Così, come “valvola di sfogo”, furono usate le nuove conquiste, che alimentavano il miraggio di possedimenti terrieri e di ricchezze. Comunque, la colonizzazione del Nord e del Sud America presenta delle differenze: mentre i “conquistadores” spagnoli erano prevalentemente degli avventurieri e degli sbandati, e praticavano lo stupro sistematico (i più si unirono con donne indigene di rango superiore e diedero origine ai meticci), gli inglesi arrivarono nel nuovo mondo già in nuclei famigliari, e ciò non favorì l’integrazione. Inoltre, i nativi americani non si adattavano ad essere assoggettati come manodopera, e ciò complicava i rapporti con i bianchi “civilizzatori”, che già consideravano i nativi come “selvaggi”, con tutta la negatività che questo termine comporta.
I pellirosse non conoscevano il denaro, né mai capirono la frenesia dell’uomo bianco per l’oro; parlavano sì di ricchezze, ma per loro si trattava di beni materiali di immediata utilità come cibo, cavalli, armi ecc. Anche la stessa guerra era vista come l’occasione per dimostrare il proprio valore e, per i giovani, era una specie di “esame di maturità”; la stessa pratica di prendere gli scalpi dei nemici uccisi, contrariamente a quanto è stato dato ad intendere, era stata assorbita dagli Inglesi. Con ciò non si vuole dare un’immagine idilliaca dell’indiano: anch’egli faceva la guerra, torturava, in particolare l’Apache, i prigionieri, ma diveniva spietato quando si sentiva ingannato o per ritorsione ad eventuali eccidi dei colonizzatori… era molto raro che un guerriero indiano uccidesse donne e bambini dei nemici in guerra e, quando ciò avveniva, era per rappresaglia, mentre spesso i generali yankee comandavano ai soldati di farlo, per affrettare l’estinzione delle tribù native. Gli stessi Apache, considerati tradizionalmente i più feroci, avevano alle spalle una radice storica ben precisa: lo sfuttamento e gli eccidi subiti dai messicani, che li consideravano intrusi e da eliminare, e che usavano rapire i loro bambini per venderli come schiavi e le loro bambine per avviarle alla prostituzione; in fondo era per difendersi, che l’Apache era diventato un maestro della guerriglia ed un guerriero spietato e feroce.
Comunque, prima della nascita degli Stati Uniti d’America (nel 1776), il “nuovo mondo” fu terreno di scontro fra le varie nazioni europee (Inghilterra, Spagna, Francia, Paesi Bassi), che cercavano di assicurarsi l’alleanza dei nativi, impegnandosi con promesse, poi mai mantenute, spingendoli sempre più ad Ovest, quando il conflitto si attenuava.
Le continue pressioni dei bianchi, appunto, crearono i primi scontri tra gli Indiani: i Chippewua che vivevano nell’attuale Minnesota e Wisconsin si spostarono verso Ovest, scontrandosi con i Sioux, ed a questo scontro fecero seguito diverse battaglie di assestamento tra gli indiani, che coinvolsero diverse tribù minori. Alla fine dell’assestamento, le genti indiane si potevano, grosso modo, dividere così: nelle pianure erano predominanti i Sioux, mentre a Sud gli Apache, e queste due “nazioni” furono le vere grandi avversarie dei bianchi. Ma questo continuo avanzamento dei colonizzatori ebbe l’effetto di spingere diverse tribù o nazioni ad accantonare le vecchie rivalità per potere resistere, e così, di fatto, iniziarono le”guerre indiane”, come gli storici statunitensi le chiamarono, per descrivere la serie di conflitti avuti dagli indiani prima con i coloni, e poi con gli Stati Uniti.
Ma erano ancora degli episodi limitati, ed è con la nomina a presidente del generale A. Jackson, che la politica americana avrebbe mostrato il proprio volto. Uno dei primi atti del presidente fu il “Removal Act” del 1829, che, di fatto, era un ordine di deportazione di cinque “nazioni indiane” (Creek, Choctaw, Chicasaw, CheroKee e Seminole) dalla Florida all’odierno Oklahoma, che in seguito sarebbe diventato “territorio indiano”. La deportazione forzata fu il primo atto di una serie di prepotenze fatte per scacciare i nativi dalle terre ritenute utili all’avanzamento dei coloni. Con lo scoppio della guerra (Maggio 1846) tra Messico e Stati Uniti, gli indiani si illusero, alleandosi con gli Americani, di poterci convivere, ma la scoperta dell’oro nel 1848 e di altri giacimenti nel 1851 fecero sì che i territori degli Apache Minbreno fossero invasi da una moltitudine di cercatori, e, quando gli Indiani cominciarono a ribellarsi, si accorsero ben presto che i soldati USA, loro alleati contro i messicani, avevano l’ordine di garantire il passaggio delle carovane dei cercatori, perchè il governo voleva che quei territori venissero colonizzati, e quindi la spinta alla ricerca dell’oro doveva essere favorita, e non frenata. 
Nelle grandi pianure la situazione, invece, era più tranquilla, e nel 1851 a Fort Laramie si tenne una grande assemblea con gli indiani, i quali si erano impegnati ad un atteggiamento amichevole verso le carovane di emigranti, mentre l’esercito doveva difenderli dai soprusi dei coloni. Ma il flusso dei coloni era innarestabile, così come era inevitabile lo scontro tra i bianchi ed i pellirosse. Teniamo presente che lo sviluppo degli Stati Uniti fu grandioso, sia in termini di popolazione, sia in termini di progresso economico, tecnico e scientifico. Nel 1810 la popolazione era di 7.329.000, nel 1860 era di 31.513.000; basti pensare che solo nel 1851, anno dell’oro, erano giunti dall’Europa 1.046.470 immigrati. Gli Stati che, all’inizio erano 13, nel 1860 erano divenuti 34! Nel 1850 la produzione industriale era di oltre 500 milioni di dollari, raddoppiati in solo dieci anni; nel 1842 la ferrovia copriva cinquemila chilometri, nel 1852 erano 17000, ed il 10 maggio 1869, a Promontory Point, si congiungeranno i due tratti della prima ferrovia transcontinentale. Tutto questo per gli Indiani era invece ritenuto un danno, e sconvolgeva il loro modo di vita: vedevano distrutte le fonti di sopravvivenza.
Nel 1860, la giovane nazione americana si apprestava ad una feroce guerra civile (“Guerra di secessione”) tra gli insediamenti del Nord e quelli del Sud. Tale scontro ha avuto un diverso impatto sulle “nazioni” indiane; quelli delle Grandi Pianure, che erano sotto il controllo della Unione nordista, hanno vissuto un momento di tranquillità, avendo i nordisti tutto l’interesse di non turbare il flusso dei rifornimenti provenienti da quei territori, mentre diversa era la situazione del Sud Ovest, dove la California e il Kansas erano rimasti fedeli all’Unione; sicchè si era creato un fronte, dove i nordisti cercavano di bloccare i rifornimenti che dal Messico arrivavano ai Confederali sudisti. Le cinque “nazioni”, che trent’anni prima erano state spostate dalla Florida, presero le armi contro i nordisti con la promessa che, con la vittoria del Sud, sarebbero ritornate sulla loro terra. La sconfitta dei Confederali, invece, costò ai pellirosse un prezzo altissimo. Invece nei territori dell’Arizona e del Nuovo Messico il Nord ritirò le guarnigioni e gli indiani ebbero mano libera per la loro vendetta, facendo terra bruciata degli insediamenti dei coloni che abbandonarono ogni cosa, e persino le città.
Così nel 1862 si ruppe di fatto il precario equilibrio tra uomini bianchi e uomini rossi ed iniziò la “politica di sterminio”, che prosegui negli anni successivi con ” memorabili” battaglie e “memorabili” massacri. Inoltre, nel 1874 gli Indiani delle Pianure furono colpiti da un’altra calamità: i bisonti non seguivano più le piste abituali, ed, in più, la caccia indiscriminata fatta dagli uomini bianchi aveva fatto crescere un florido commercio delle carni e delle pelli del bisonte; tra il 1872 ed il 1874 i bisonti uccisi furono circa 3 milioni e mezzo, di cui solo 150mila dagli indiani. Quando il commercio cominciò a ristagnare fu troppo tardi, perchè i bisonti rimasti non bastavano alla sopravvivenza degli indiani.
Fu poi grazie a documenti falsificati, ma in realtà per dare “campo libero” ai cercatori d’oro, che la Casa Bianca decise che entro il 31 Gennaio 1876, tutti gli indiani dovevano ritirarsi nelle costituende “riserve”, di cui si parlerà più avanti. Infatti poi, senza curare alcuna adeguata informazione su tale “ritiro”, il 1 Febbraio, centoquaranta anni fa, venne ufficialmente dichiarata loro guerra aperta.
Il Giugno 1876, la battaglia di Little Big Horn, con la sconfitta e la morte del famigerato generale Custer, fu di fatto il canto del cigno del popolo indiano, schiacciato poi dalla superiorità militare americana e condannato a sparire da una nuova “civiltà”, che anteponeva l’interesse economico, di potere e di espansione, a qualsiasi considerazione di lealtà ed umanità. Gli americani, comunque, avevano capito che non potevano continuare con la politica dello sterminio e passarono dalla morte fisica dell’indiano alla morte della loro cultura, del loro essere sociale e delle loro tradizioni, integrandoli forzatamente, richiudendoli nelle riserve e riducendoli a personaggi di folklore.
Il primo atto della nuova politica era stato quello di trasformare le agenzie indiane in riserve: mentre nelle prime gli Indiani riuscivano a conservare il proprio modo di vita, nelle seconde, volenti o no, si imponeva loro l’integrazione, ed inoltre non potevano varcare i confini senza autorizzazione, e non avevano il libero esercizio della caccia, dipendendo cosi dagli aiuti del governo. Infatti le riserve sono nominalmente affidate agli Indiani, ma di fatto sono in mano al governo, tramite agenti federali bianchi o indiani, comunque al servizio dei bianchi. I consigli tribali sono governi fantoccio, che seguono direttive dettate da esigenze non indiane, e che sono ben lontane dalle reali aspettative delle tribù. Ovviamente i territori assegnati agli indiani erano sempre stati scelti sulla base della loro “appetibilità” o meno ai fini di uno sfruttamento minerario o agricolo da parte dei bianchi.
Più recentemente, la legge, denominata “Relocation Act”, del 1953 prevedeva che gli indiani potevano lasciare le terre e le riserve e, per il loro inserimento nella società americana, vi erano appositi programmi, che prevedevano una proposta di lavoro con aggiunta di una piccola sovvenzione iniziale, tale da consentire loro l’inserimento nel tessuto sociale. Ma la perdita dei legami con il proprio retroterra culturale, le discriminazioni razziali, la diversità della vita nelle grandi città e l’impossibilità di adattarvisi, hanno determinato in brevissimo tempo un accumulo di rabbia e frustazioni, tali da provocare forme di autodistruzione e azioni violente contro la collettività. Non a caso è molto alta la percentuale di alcoolizzati, dei malati di mente, dei reclusi, dei suicidi, soprattutto tra le nuove generazioni.
“La spada, il fucile ed il bisturi”, gli strumenti USA. Perchè accomunare uno strumento chirurgico, che “salva” la vita, con le armi che, invece, la tolgono? Perchè tale strumento rappresentava l’ultimo brevetto “made in USA” per una efficace soppressione della vita senza tanti clamori. Infatti, una inchiesta condotta nel 1974 stima che, su una popolazione di 800mila nativi, il 42% delle donne in età fertile ed il 15% degli uomini sia stato sterilizzato forzatamente, e ciò è stato possibile con tre semplici strumenti: con l’inganno, con le minacce ed i ricatti, e quando l’ottenimento del consenso avveniva in una lingua che il paziente non poteva comprendere.
Gli indiani, anche se praticamente distrutti, cercarono anche nel ventesimo secolo, specialmente a partire dagli anni ’50, di mobilitarsi, e vi furono numerose proteste per il mancato rispetto dei trattati e delle richieste sociali e politiche, come l’occupazione di Wounded Knee nel 1973 e la simbolica marcia su Washington; nel 1980 gli Oglala/Sioux ottennero 100.000 milioni di dollari per la perdita del territorio di Black Hills, nel 2007 alcuni Lakota/Sioux guidati da Russel Means hanno chiesto la secessione della loro “nazione” ed, a seguito di questa azione politica pacifica, è stata proclamata la nascita di uno Stato non riconosciuto, la “Repubblica Lakota”.
Il popolo indiano, come centinaia di altri popoli, ha subito sulla propria pelle la ferocia e gli orrori del colonialismo, ed i missionari, capeggiando la corsa europea alla loro distruzione, venivano riconosciuti come nemici. Sono, però, stati rimpiazzati dai capitalisti USA, la cui missione è di sfruttare efficientemente la strada aperta dai missionari e, per far questo, non si sono fermati e non si fermeranno davanti a nessuno; hanno anticipato nel tempo quel razzismo, che poi storicamente il nazismo è riuscito a perfezionare ed ampliare: il genocidio, i campi di concentramento (così erano le prime riserve!…), l’eutanasia con la sterilizzazione.
Ebbene, ora va tutto più o meno bene? No, perche l’ironia della sorte ha voluto che le terre dove gli indiani sono rinchiusi (ne vive ancora lì il 35%), si sono rivelate quelle più ricche di uranio, carbone, gas naturale, metalli preziosi, materie prime utilissime alle industrie, per cui le multinazionali del profitto stanno cercando con tutti i mezzi di accappararsele, e stanno anche progettando di prosciugare, per il proprio tornaconto, le falde acquifere nel South Dakota, nelle terre dei Navajo, degli Opi, dei Cheyenne del nord, dei Crow, ecc., rendendo le terre, di fatto, inabitabili.
Alcuni intellettuali indiani sono critici anche verso il marxismo perchè, secondo loro, lo sviluppo delle forze produttive porterà ad una maggior industializzazione, con relativo aumento del consumo di materie prime, che, a sua volta, porterà più velocemente al collasso del globo. Essi non fanno alcuna distinzione tra marxismo e comunismo reale, e vedono nella storia di quest’ultimo la continuazione dell’ingordigia del capitalismo. Molto focalizzati sulla discriminazione razziale subita, essi non sanno che Marx era per l’indipendenza delle nazioni e la salvaguardia dei popoli indigeni, e non conoscono la visione marxista del rapporto tra uomo e natura; qualsiasi industrializzazione ne dovrebbe, ed urge che perlomeno ne dovrà, tenere conto se l’uomo vuole continuare a vivere su questo pianeta.

tratto da: https://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o48111:e1

“Non ho nulla di nuovo da insegnare al mondo. La verità e la non-violenza sono antiche come le montagne” – 71 anni fa l’assassinio di Mahatma Gandhi, l’uomo che cambiò il mondo…

Gandhi

 

 

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“Non ho nulla di nuovo da insegnare al mondo. La verità e la non-violenza sono antiche come le montagne” – 71 anni fa l’assassinio di Mahatma Gandhi, l’uomo che cambiò il mondo…

Esattamente 71 anni fa, il 30 gennaio 1948, a New Delhi veniva assassinato il leader politico e spirituale padre dell’indipendenza dell’India, il Mahatma Gandhi. La sua vita dedicata all’insegnamento della non-violenzafu stroncata dal piombo del fanatismo religioso per mano dell’estremista Hindu Nathuram Godse.

Il Mahatma si trovava nella capitale per uno dei tanti sit-in di protesta pacifica contro la recente separazione dell’India dal Pakistan musulmano. Fu in quel frangente che fu raggiunto da 5 proiettili esplosi da distanza ravvicinata morendo pochi minuti dopo. Erano le 17,46 del 30 gennaio 1948 quando fu ufficialmente divulgata la notizia della morte del Mahatma.

 

“Non ho nulla di nuovo da insegnare al mondo. La verità e la non-violenza sono antiche come le montagne”
È una delle espressioni più conosciute di Mohandas Karamchand Gandhi, scomparso esattamente 70 anni fa, assassinato da un fanatico dell’induismo radicale.
Il Mahatma nacque a Portbandar, in India, nel 1869. Erano gli anni della colonizzazione britannica, iniziata pochi anni prima grazie ad una penetrazione commerciale operata dalla Compagnia delle Indie che, in poco tempo, profuse la sua influenza anche nelle vicende politiche, tanto da assumere l’amministrazione governativa del paese, a spese dei diversi sovrani che controllavano le diverse regioni del paese. Sovrani, che, spesso, erano in conflitto tra di loro.
Gandhi, fin da giovane, sentiva l’occupazione opprimente, vedendo le umiliazioni e il trattamento da inferiori che veniva riservato alla sua gente, da parte degli inglesi.
Ottenne il permesso dai genitori di studiare all’estero e andò in Inghilterra per laurearsi in legge.
In pochi anni ottenne la laurea e divenne un avvocato.
Conclusi gli studi, tornò in patria per poi migrare in Sudafrica, in cerca di occupazione.
Anche il Sudafrica, in quegli anni viveva la condizione di stato coloniale e, anche la popolazione sudafricana, era vessata e discriminata dai bianchi.
Ben presto, oltre a lavorare, Gandhi iniziò a studiare e a mettere a punto la sua “Teoria e pratica del metodo della non-violenza” .
Nella sua elaborazione, utilizzava quelli che lui definiva “esperimenti con la verità”: la sua vita era piena di questi esperimenti.
Uno dei suoi principali propositi era quello di trasformare la politica in etica politica, anche se non si può affermare che Gandhi sia stato un vero e proprio uomo politico. Nel suo agire Gandhi si avvaleva di “imperativi” etici per delineare il suo ruolo e la sua figura in Sudafrica – prima – e in India – poi.
Il 29 gennaio del 1948, un giorno prima che venisse ucciso, Gandhi, in un momento di preghiera, disse alla folla:  «Se muoio d’una malattia lunga, se muoio per qualche cosa come un foruncolo o una pustoletta, sarà vostro dovere proclamare al mondo, anche a rischio che la gente si adiri con voi, che non ero l’uomo di Dio che pretendevo di essere. Se lo farete darete pace al mio spirito. Prendete nota anche di questo: se qualcuno dovesse porre fine alla mia vita trapassandomi con una pallottola ed io la ricevessi senza un gemito ed esalassi l’ultimo respiro invocando il nome di Dio, allora soltanto giustificherete la mia pretesa»
In particolare negli ultimi anni della sua vita e, successivamente, dopo la sua uccisione, Gandhi fu considerato un “santo” che aveva dedicato la sua vita nobilitando e difendendo i valori umani, adoperandosi per questo anche in politica.
In Europa si diffuse la fama, per alcuni era considerato un “eccentrico” per il suo stile di vita, ma, in realtà, i giudizi convergono in un giudizio che sintetizza due caratteristiche molto diverse: quelle di uomo unico, carico di bontà e di grandezza nella sua semplicità, a tratti disarmante.
Gandhi intraprese diverse lotte nel corso della sua vita applicando la sua dottrina della “lotta non violenta”, o meglio, del “satyagraha” .
Gandhi era anche un grande uomo di preghiera, e questo aiuta molto a comprendere la sua grande opera. Lui era molto legato alla pratica della preghiera perché “la preghiera mi ha salvato la vita. Senza di essa, sarei pazzo da molto tempo. Ho avuto la mia porzione delle più amare esperienze pubbliche e private, che mi gettarono in una temporanea disperazione. Se riuscii a liberarmi da questa disperazione, fu grazie alla preghiera”.
Gandhi aveva una concezione di Dio diversa da quella dei cristiani. La sua egli era un indù, nato e cresciuto in un mondo culturale asiatico, anche se ha compiuto gli studi anche in Europa.
Per lui Dio è verità, amore, etica, morale, coraggio, mentre per i cristiani, Dio è “Via, verità, vita e la via è seguire Gesù, uniformarsi a lui”.
Gandhi era un uomo che ha vissuto nella storia del suo tempo, è stato un “cercatore”, ma non solo per sé stesso, viveva dell’amore per gli uomini.
Non tutti sanno che Gandhi in una occasione venne a Roma, infatti, di ritorno da Londra, dopo aver partecipato ad una Tavola Rotonda sul futuro dell’India – con esiti fallimentari, per gli interessi indiani – attraversò l’Italia, e fece tappa a Roma per due giorni .
Era il 1931, Mussolini aveva già preso il potere. Si incontrarono informalmente per un colloquio di circa venti minuti, evitando di trattare argomenti “caldi”.
tratto da: http://www.notizieitalianews.com/2018/01/non-ho-nulla-di-nuovo-da-insegnare-al.html

Francesco Guccini – Auschwitz, la struggente “Canzone del bambino nel vento”

 

Guccini

 

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Francesco Guccini – Auschwitz, la struggente “Canzone del bambino nel vento”

Canzone del bambino nel vento – Uno struggente capolavoro di Francesco Guccini… Non c’è bisogno di alcun commento… Si può solo leggerne il testo e ascoltare… In silenzio…

Canzone del bambino nel vento

Son morto con altri cento,
son morto chr ero bambino,
passato per il camino
e adesso sono nel vento
e adesso sono nel vento

Ad Auschwitz c’era la neve,
il fumo saliva lento
nel freddo giorno d’inverno
e adesso sono nel vento,
e adesso sono nel vento

Ad Auschwitz tante persone,
ma un solo grande silenzio:
è strano non riesco ancora a sorridere qui nel vento,
a sorridere qui nel vento…

Io chiedo come può l’uomo
uccidere un suo fratello
eppure siamo a milioni
in polvere qui nel vento,
in polvere qui nel vento

Ancora tuona il cannone
ancora non è contenta
di sangue la bestia umana
e ancora ci porta il vento
e ancora ci porta il vento

Io chiedo quando sarà
che l’uomo potrà imparare
a vivere senza ammazzare
e il vento si poserà
e il vento si poserà

Io chiedo quando sarà
che l’uomo potrà imparare
a vivere senza ammazzare
e il vento si poserà
e il vento si poserà
e il vento si poserà…

Francesco Guccini

 

Un cult – Troisi e Benigni al passaggio della dogana… Una delle scene più divertenti nella storia del nostro cinema.

 

Troisi

 

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Un cult – Troisi e Benigni al passaggio della dogana… Una delle scene più divertenti nella storia del nostro cinema.

Da Non ci resta che piangere, il passaggio della dogana… Una delle scene più divertenti nella storia del nostro cinema.

Mario e Saverio si avvicinano alla dogana a borgo di un carro

G: Eh

G: Chi siete?

M: siamo due che…

G: cosa fate?

G: cosa portate?

M: niente roba che..

G: si ma quanti siete?

M: due, siamo io e lui dietro non c’è…

G: un fiorino!

M: si paga?

G: un fiorino!

Mentre attraversano la dogana cade un sacco e Mario torna indietro per recuperarlo

S: Oh ferma, scusi il sacco doganiere

G: Eh

G: Chi siete?

M: quello che è passato adesso con il carro, ci è caduto il sacco qua..

G: cosa portate?

M: niente, quelli di prima… ma siamo passati proprio adesso, stavamo qua ed è caduto il sacco…

G: si, ma quanti siete?

M: uno, adesso, eravamo due quando siamo passati, mo uno che vado a prendere il sacco

G: un fiorino!

M: …che era caduto il sacco… allora ho attraversato…

G: Un fiorino!

M: Andiamo vai… grazie…

Mario per tornare al carro deve ripassare la dogana…

G: Eh

G: Chi siete?

M: quelli di prima sono venuto a prendere il sacco…

G: cosa portate?

M: porto ulive, caciotte… pane… un po’ di…

G: Si, ma quanti siete?

M: Uno! Io sono entrato ….sto uscendo no…

G: un fiorino!

M: allora uno entra…esce… paga sempre un fiorino…

M: Siano due, tre… Grazie, arrivederci…

Saverio si accorge che Mario nel pagare ha dimenticato una caciotta sul banchetto delle guardie

S: Oh… la caciotta

M: ssssh mamma mia… mo passo di la un’altra volta…

M: senta…

G: Eh

G: Chi siete?

M: ma vaffancuuul

G: cosa portate?

G: si, ma quanti siete?

G: un fiorino?

Mario e Saverio si allontanano ed insieme urlano: Eh

G: chi siete?

G: cosa portate?

G: si, ma quanti siete…?

G: un fiorino!

 

Il 25 gennaio 1939 nasceva il signor G: Giorgio Gaber, il cantautore che ha messo a nudo le ipocrisie della nostra società

 

 

Gaber

 

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Il 25 gennaio 1939 nasceva il signor G: Giorgio Gaber, il cantautore che ha messo a nudo le ipocrisie della nostra società

Autore di grandi successi pop e inventore del teatro-canzone nel quale ha raccontato vizi e debolezze dellʼuomo senza fare sconti a nessuno. 

Il 25 gennaio del 1939 nasceva Giorgio Gaber. Cantautore e attore, ha unito queste due figure in maniera unica inventando quella formula nota come teatro-canzone, a cui tanti oggi si rifanno citandolo. Con le sue canzoni ha lasciato un segno indelebile nella storia della cultura italiana portando una lettura della società e dell’uomo spietata e senza sconti, appena filtrata dal velo dell’ironia.

Il 25 gennaio del 1939, al civico 28 di via Londonio a Milano nasceva Giorgio Gaberscik, proprio a pochi passi dalla sede milanese della Rai che, solo vent’anni dopo, giovanissimo, l’avrebbe reso popolare a livello nazionale come interprete di rock’n’roll assieme a Mina e Celentano con la trasmissione “Il Musichiere”.

E proprio sulla facciata di quella casa campeggia la targa che ricorda l’evento.

“Qui nacque nel 1939 GIORGIO GABER. Inventore del Teatro – Canzone. – si legge sulla targa – La sua opera accompagna vecchie e nuove generazioni sulla strada della libertà di pensiero e dell’onestà intellettuale.”

Gaber è entrato nel cuore della gente e nella cultura del nostro Paese in due modi distinti. Nella prima fase della sua carriera, negli anni 60, con una serie di canzoni che hanno fatto la storia della nostra “musica leggera”. Da “La ballata del Cerutti” a “Porta Romana”, passando per “Torpedo blu”, “Non arrossire”, “Goganga”, “Come è bella città” e tante altre ancora. Brani in cui la canzone d’autore italiana si pone all’incrocio tra le influenze che arrivano dall’America e la canzone francese, all’epoca faro per gran parte del nostro cantautorato. Dal 1970 in avanti Gaber cambia decisamente direzione. La fine di quel decennio è caratterizzata da un grande fermento politico e culturale, di cui il ’68 è solo una delle espressioni. Gaber si sente stretto nelle maglie della discografia tradizionale e della televisione paludata di allora e cerca uno spazio di libertà nel teatro.

La svolta è segnata da “Il signor G”, del 1970, il primo di una lunga serie di spettacoli, scritti con Sandro Luporini, in cui le canzoni si alternano a monologhi. Non è la classica prosa teatrale, ma nemmeno un concerto: è il teatro canzone. Dove Gaber può esprimere tutta la sua poetica, la visione del mondo e in cui la libertà è il tratto fondamentale (e non a caso “La libertà” diventerà uno dei brani simbolo della sua carriera). Libertà di dire quello che pensa a costo di farsi dei nemici (e in quegli anni la sinistra lo metterà all’indice come e più della destra), libertà di andare controcorrente e mettere alla berlina il conformismo e il velleitarismo di ampi settori della società moderna, libertà di denudare il re senza sconti. Ma anche libertà di parlare di fragilità e sentimenti, contraddizioni e nevrosi del privato della vita quotidiana. “Dialogo tra un impegnato un non so”, “Far finta di essere sani”, “Anche per oggi non si vola”, “Polli d’allevamento”, “Anni affollati”, “Io se fossi Gaber” tratteggiano la nostra società e l’Italia di quegli anni come nessuno ha più fatto.

Lo strumento per far ciò può essere l’ironia, come accade ne “Lo shampoo”, “Il conformista”, “Destra-Sinistra” o “L’uomo che perdeva i pezzi”, ma l’invettiva, come in “Io se fossi Dio” o “Quando è moda è moda”, brano inserito in “Polli di allevamento” (1978) in cui fa a pezzi il Movimento per il suo essersi trasformato in conservazione borghese e apparato di potere a sua volta e prende le distanze da una certa sinistra senza giri di parole (“Di quelli che diranno che sono qualunquista non me ne frega niente:/non sono più compagno né femministaiolo militante/ mi fanno schifo le vostre animazioni, le ricerche popolari e le altre cazzate/ e finalmente non sopporto le vostre donne liberate con cui voi discutete democraticamente/ sono diverso perché quando è merda è merda non ha importanza la specificazione”).

Negli ultimi anni torna alla canzone nella forma più tradizionale con due album già dal titolo significativi: “La mia generazione ha perso” e “Io non mi sento italiano”.

Gaber se ne è andato nel gennaio del 2003, ma la sua opera ha continuato a mettere radici e a germogliare. Il suo mito ed il suo pensiero resteranno per sempre con noi.

Giorno della memoria – Per non dimenticare – Liliana Segre e Auschwitz: “Mio padre si scusò per avermi messa al mondo”

 

Giorno della memoria

 

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Giorno della memoria – Per non dimenticare – Liliana Segre e Auschwitz: “Mio padre si scusò per avermi messa al mondo”

La senatrice a vita: “Il sapore della libertà è quello di un’albicocca secca, lanciata dagli americani”

Mio padre mi disse “Ti chiedo scusa di averti messa al mondo”. Ma io ho avuto la fortuna, nella disgrazia, di vivere questa tragedia da figlia”. Lo ha detto la senatrice Liliana Segre, stasera ospite a Che tempo che fa da Fabio Fazio. “Io rispondevo ‘sono contenta di essere qui con te”.

Segre ricorda il viaggio verso Auschwitz. “Il viaggio durava una settimana con altri disgraziati. Ricordo che il treno arrivato ad Auschwitz prima si fermò: noi vedemmo un orologio grande che era sulla facciata della stazione ferroviaria vera. Poi il treno proseguì, la prima era una stazione artificiale, preparata per i treni che arrivano da tutta l’Europa occupata dai nazisti. Era un enorme spiazzo pieno di neve con i binari morti e dei treni in cui nessun ferroviere si è chiesto come mai arrivassero pieni e tornassero vuoti. Lì venivamo sbattuti con una violenza inaudita giù dai vagoni. Avevano deportato dalla casa di riposo di Venezia tutti gli ospiti, tra cui una signora di 98 anni. La deportazione dei vecchi, con le sue limitazioni, le ho capite solo ora: trovarsi 8 giorni dentro quel vagoni, era difficile, era faticosa anche la discesa e venivano buttati giù dalla carrozza bestiame per poi essere uccisi. C’era una grandissima confusione, era uno di quei momenti in cui esci da te stesso e dici: ‘ma sono proprio io che sono qui?’ Un incubo: invece era tutto vero”.

Liliana Segre ha raccontato in un altro passaggio che allora aveva 13 anni, “ero abbastanza consapevole di quel che accadeva, ma ero molto semplice, avevo vissuto” il tentativo di espatrio “quasi come un’avventura, ma già quella sera eravamo nella camera di sicurezza per la colpa di essere nato”.

Ed ancora: “Avevo lottato per resistere e non cadere, a 13 anni avevo provato a farcela ma il ritorno fu una delusione terribile. Tornata a Milano ho trovato parenti, buone persone che mi volevano bene ma c’era un mondo così diverso da quello che avevo sognato, non avevo più la mia casa, nè tanti visi intorno a me, nè papà, nè i nonni. Mi sentivo vecchia pur avendo solo 16 anni, ero molto più vecchia allora di quanto non mi senta ora, che ho trovato l’amore e sono diventata nonna”. Per Liliana Segre, il sapore della libertà “è quello di una albicocca secca: sono stata testimone della storia che cambiava: l’ultimo giorno della mia prigionia, il 1 maggio 1945, avevamo visto gli ufficiali tedeschi mettersi in borghese, fuggivano, c’era un cambio di ruolo. Improvvisamente arrivò la prima camionetta americana, non sapevamo chi fossero questi fantastici soldati. Buttavano dai camion cioccolata, sigarette e ricordo una albicocca secca. Allora pesavo 32 chili: con fatica la raccolsi, era fantastica, era il sapore della libertà”.

Buon compleanno Signor G – Il 25 gennaio di 81 anni fa nasceva Giorgio Gaber… Il nostro ricordo ed i suoi capolavori.

 

Giorgio Gaber

 

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Buon compleanno Signor G – Il 25 gennaio di 81 anni fa nasceva Giorgio Gaber… Il nostro ricordo ed i suoi capolavori.

Autore di grandi successi pop e inventore del teatro-canzone nel quale ha raccontato vizi e debolezze dellʼuomo senza fare sconti a nessuno. 

Giorgio Gaber nasceva il 25 gennaio 1939 a Milano, cantautore, autore di spettacoli teatrali, attore, showman televisivo. Un intellettuale a tutto tondo.

Le sue opere sono ancora tutte attualissime.

Ecco a Voi 3 dei suoi capolavori scelti per voi…

La libertà

[parlato]: Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Vorrei essere libero come un uomo.

Come un uomo appena nato
Che ha di fronte solamente la natura
E cammina dentro un bosco
Con la gioia di inseguire un’avventura.
Sempre libero e vitale
Fa l’amore come fosse un animale
Incosciente come un uomo
Compiaciuto della propria libertà.

La libertà non è star sopra un albero
Non è neanche il volo di un moscone
La libertà non è uno spazio libero
Libertà è partecipazione.

[parlato]: Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno
Di spaziare con la propria fantasia
E che trova questo spazio
Solamente nella sua democrazia.
Che ha il diritto di votare
E che passa la sua vita a delegare
E nel farsi comandare
Ha trovato la sua nuova libertà.

La libertà non è star sopra un albero
Non è neanche avere un’opinione
La libertà non è uno spazio libero
Libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero
Non è neanche il volo di un moscone
La libertà non è uno spazio libero
Libertà è partecipazione.

[parlato]: Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come l’uomo più evoluto
Che si innalza con la propria intelligenza
E che sfida la natura
Con la forza incontrastata della scienza
Con addosso l’entusiasmo
Di spaziare senza limiti nel cosmo
E convinto che la forza del pensiero
Sia la sola libertà.

La libertà non è star sopra un albero
Non è neanche un gesto o un’invenzione
La libertà non è uno spazio libero
Libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero
Non è neanche il volo di un moscone
La libertà non è uno spazio libero
Libertà è partecipazione.

 

 

Com’è bella la città

(Parlato) La città di Milano ha una struttura tipicamente concentrica. I nostri interventi tendono a razionalizzare dov’è possibile tutto ciò che riguarda la viabilità, i servizi, le strutture primarie, le infrastrutture. Si deve dare al cittadino uno spazio vitale, abitabile, confortevole, soprattutto congeniale alla sua natura intima e al tempo stesso operosa. In questo contesto, in questo contesto, in questo contesto…

Vieni, vieni in città
che stai a fare in campagna?
Se tu vuoi farti una vita
devi venire in città.

Com’è bella la città
com’è grande la città
com’è viva la città
com’è allegra la città.

Piena di strade e di negozi
e di vetrine piene di luce
con tanta gente che lavora
con tanta gente che produce.

Con le réclames sempre più grandi
coi magazzini le scale mobili
coi grattacieli sempre più alti
e tante macchine sempre di più.

Com’è bella la città
com’è grande la città
com’è viva la città
com’è allegra la città.

Vieni, vieni in città
che stai a fare in campagna?
Se tu vuoi farti una vita
devi venire in città.

Com’è bella la città
com’è grande la città
com’è viva la città
com’è allegra la città.

Piena di strade e di negozi
e di vetrine piene di luce
con tanta gente che lavora
con tanta gente che produce.

Con le réclames sempre più grandi
coi magazzini le scale mobili
coi grattacieli sempre più alti
e tante macchine sempre di più.

Com’è bella la città
com’è grande la città
com’è viva la città
com’è…

Vieni, vieni in città
che stai a fare in campagna
se tu vuoi farti una vita
devi venire in città.

Com’è bella la città
com’è grande la città
com’è viva la città
com’è allegra la città.

Piena di strade e di negozi
e di vetrine piene di luce
con tanta gente che lavora
con tanta gente che produce.

Con le réclames sempre più grandi
coi magazzini le scale mobili
coi grattacieli sempre più alti
e tante macchine sempre di più.

Com’è bella la città
com’è grande la città
com’è viva la città
com’è allegra la città.

Com’è bella la città
comvè grande la città
com’è viva la città
com’è allegra la città.

Piena di strade e di negozi
e di vetrine piene di luce
con tanta gente che lavora
con tanta gente che produce.

Con le réclames sempre più grandi
coi magazzini le scale mobili
coi grattacieli sempre più alti
e tante macchine sempre di più
sempre di più, sempre di più, sempre di più!

Io Non Mi Sento Italiano

Parlato: Io G. G. sono nato e vivo a Milano.
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente
Non è per colpa mia
Ma questa nostra Patria
Non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
Che sia una bella idea
Ma temo che diventi
Una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
Non sento un gran bisogno
Dell’inno nazionale
Di cui un po’ mi vergogno.
In quanto ai calciatori
Non voglio giudicare
I nostri non lo sanno
O hanno più pudore.

Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente
Se arrivo all’impudenza
Di dire che non sento
Alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
E altri eroi gloriosi
Non vedo alcun motivo
Per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
Ma ho in mente il fanatismo
Delle camicie nere
Al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
Questa democrazia
Che a farle i complimenti
Ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese
Pieno di poesia
Ha tante pretese
Ma nel nostro mondo occidentale
È la periferia.

Mi scusi Presidente
Ma questo nostro Stato
Che voi rappresentate
Mi sembra un po’ sfasciato.
E’ anche troppo chiaro
Agli occhi della gente
Che tutto è calcolato
E non funziona niente.
Sarà che gli italiani
Per lunga tradizione
Son troppo appassionati
Di ogni discussione.
Persino in parlamento
C’è un’aria incandescente
Si scannano su tutto
E poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente
Dovete convenire
Che i limiti che abbiamo
Ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
Noi siamo quel che siamo
E abbiamo anche un passato
Che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
Ma forse noi italiani
Per gli altri siamo solo
Spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
Son fiero e me ne vanto
Gli sbatto sulla faccia
Cos’è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese
Forse è poco saggio
Ha le idee confuse
Ma se fossi nato in altri luoghi
Poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente
Ormai ne ho dette tante
C’è un’altra osservazione
Che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
Noi ci crediamo meno
Ma forse abbiam capito
Che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
Lo so che non gioite
Se il grido “Italia, Italia”
C’è solo alle partite.
Ma un po’ per non morire
O forse un po’ per celia
Abbiam fatto l’Europa
Facciamo anche l’Italia.

Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo
Per fortuna o purtroppo
Per fortuna
Per fortuna lo sono.

La filosofia di Totò – Siamo uomini o caporali? …molto più che uno sketch comico…!

 

Totò

 

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La filosofia di Totò – Siamo uomini o caporali? …molto più che uno sketch comico…!

 

Totò Esposito è un attore “mestierante” che cerca di sbarcare il lunario proponendosi come comparsa a Cinecittà; a seguito di un diverbio con un certo Meliconi (da notare, si tratta dello stesso cognome del protagonista romanaccio di Un americano a Roma, interpretato da Alberto Sordi nel 1954), viene considerato pazzo e ricoverato in una casa di cura.

Totò espone al medico che lo sta visitando la sua teoria sul “Siamo uomini o caporali?”. Ecco il testo:

“L’umanità, io l’ho divisa in due categorie di persone: uomini e caporali.
La categoria degli uomini è la maggioranza, quella dei caporali, per fortuna, è la minoranza.
Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare per tutta la vita, come bestie, senza vedere mai un raggio di sole, senza mai la minima soddisfazione, sempre nell’ombra grigia di un’esistenza grama.
I caporali sono appunto coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza averne l’autorità, l’abilità o l’intelligenza ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il povero uomo qualunque.
Dunque dottore ha capito? Caporale si nasce, non si diventa! A qualunque ceto essi appartengano, di qualunque nazione essi siano, ci faccia caso, hanno tutti la stessa faccia, le stesse espressioni, gli stessi modi. Pensano tutti alla stessa maniera!”

(segue dopo il video)

Alcune riflessioni sulla teoria “uomini o caporali”

La scelta della categoria dei Caporali – Totò nel teorizzare la sua teoria, ha scelto di classificare la categoria di persone che sfruttano gli Uomini definendoli come Caporali. La scelta non è casuale; il caporale rappresenta, nella visione di Totò, un tipo di uomo che può facilmente trovarsi ad abusare del suo piccolo ma, al tempo stesso, significativo potere, in quanto può avere un “posto di comando, senza averne l’autorità, l’abilità o l’intelligenza”. Il caporale rappresenta al meglio questa tipologia umana; un tenente, un capitano, un colonnello non sarebbero stati scelte ugualmente felici, perché gli ufficiali dovrebbero essere almeno dotati di una preparazione specifica e di una discreta cultura. Che poi nei vari episodi del film, il caporale possa avere le sembianze anche di un ufficiale o di un uomo di cultura, quale un direttore di giornale, è altro discorso; magari saranno uomini “colti”, ma nell’animo rimangono dei caporali, in quanto “caporale si nasce, non si diventa!”.

I Caporali e le donne – Nel caratterizzare il comportamento dei Caporali, particolare attenzione viene posta al loro modo di fare con le donne: il Caporale tendenzialmente approfitta del suo piccolo/grande potere per cercare di ottenere vantaggi nei rapporti con le donne; o attraverso la minaccia (“non ti assumo se non…”) o attraverso le promesse (“se sei gentile con me, …”). Un caporale particolare: il ragioniere Casoria – In un altro film, La banda degli onesti, Totò ci presenta una figura esemplare di caporale: il ragioniere Casoria.

Il ragioniere Casoria – Non tutti lo conoscono, ma il personaggio del ragioniere Casoria, nel film, è probabilmente uno dei personaggi più importanti e, purtroppo, più attuali della complessiva opera cinematografica di Totò. Il ragioniere Casoria entra a pieno titolo nella categoria dei caporali, ma con un’aggravante. E’ un uomo di potere, perchè in quanto amministratore del condominio dove Totò (Antonio Bonocore) svolge il suo lavoro di portiere, può licenziarlo da un momento all’altro se non ubbidisce alle sue disposizioni. L’aggravante sta nel fatto che è un lestofante, e le sue disposizioni consistono nel coinvolgere il portiere Totò nell’imbroglio sul carbone da utilizzare per il riscaldamento: ne vorrebbe far pagare 120 quintali al condominio per comprarne solo 40. Totò da persona onesta si rifiuta e il ragionier Casoria decide immediatamente di sostituirlo con altro portiere (Memmo Carotenuto) più “morbido “.  L’Italia di oggi è piena di ragionieri Casoria, ma soprattutto è divenuta piena di persone alla Memmo Carotenuto.

Passare dalla parte del Ragioniere Casoria – È l’amara considerazione di Totò. “Passare dalla parte del ragioniere Casoria”. E’ quello che propone Totò a Peppino de Filippo, altro personaggio onesto spinto a divenire un falsario, per risolvere i loro problemi: “Ci sarebbe una soluzione, adeguarsi, questo è il segreto! Passiamo dall’altra parte, saltiamo l’ostacolo a pie’ pari, disertiamo, passiamo dalla parte del ragioniere Casoria! “.

Grande Totò